L’ombra e l’angoscia

di Alessandra Colla

Il tragico incidente che in Svizzera è costato la vita a 22 bambini belgi ha suscitato (com’è giusto) un’ondata di commozione sulla quale è inutile, oltre che insultante, sgocciolare il consueto blabla retorico/mediatico.
Eppure questo dramma, che coinvolge direttamente una ristretta parte di umanità occidentale (nel resto del mondo muoiono bambini in misura maggiore e in modi peggiori, ma la lontananza spaziale va di pari passo con la distanza emotiva), può indurre considerazioni altre.
In natura esistono le prede ed esistono i predatori — decenni di documentari ci hanno abituati a pensare al binomio leone/gazzella, ma in realtà il meccanismo di predazione coinvolge anche il regno vegetale: la gazzella che bruca l’erba è un predatore erbivoro che si sta nutrendo della sua preda.
Questi termini — preda, predatore, predare — ci evocano da sempre immagini di sangue e prevaricazione: etimologicamente, “preda” è “il cibo che uno ha davanti a sé” ovvero “ciò che viene preso arbitrariamente e con violenza”. Così, ogni vivente ha il suo predatore naturale: l’erba ha la gazzella, la gazzella ha il leone, e il leone ha l’uomo — il predatore vincente, il predatore assoluto, che ha fatto della predazione un’arte perversa raffinandone i meccanismi con l’ausilio di una scienza e di una tecnologia sapientemente asservite al bisogno del più forte.
Ma se ci spostiamo su un piano meno biologico e più, per così dire, metafisico, troviamo che la predazione col suo corollario di insuccessi è uno dei modi (forse il prediletto) di cui dispone il divenire per porre in essere la sua attualità: in natura, difficilmente si muore di malattia — si muore di fame o per fame altrui. E la differenza fra il vivente umano e il vivente non-umano sta nel fatto che quest’ultimo lo sa — «l’uomo è una canna pensante».
A differenza del non-umano, che non ha progettualità intenzionale (se non a breve termine) e sperimenta soltanto il darsi degli eventi, l’umano ha piena coscienza del sistema passato-presente-futuro: dopo avere sbaragliato i possibili competitori ed essere divenuto finalmente il predatore di se stesso, l’uomo deve fare i conti con l’unica altra realtà predatoria contro la quale è per certo impotente — il Divenire dai molti nomi: il Caso, il Fato, il Destino. Il tempo che passa, la malattia incurabile, un incidente d’auto… Sono questi i Predatori che la preda umana si affanna a combattere nel tentativo (vano) di scongiurare l’evento predatorio finale — la morte.
Che la morte sia la Grande Predatrice è un sapere antico — lo stigmatizza perfettamente Catullo, maledicendo le “crudeli tenebre dell’Orco” che “divorano ogni cosa bella”. Ed è la consapevolezza di questa sorte ineluttabile a costituire l’angoscia del piccolo arrogante predatore par excellence: Mentre il non-umano accoglie anzi subisce la morte come uno dei molti momenti del proprio essere-al-mondo, l’umano — che è-sul-mondo, che vi si impone modificandone l’assetto e plasmandolo a personale uso e consumo suo e della sua specie — l’umano dunque comprende il suo destino e ne prova angoscia. L’evidenza della sua fragilità, il bisogno autenticamente vitale (e per ciò stesso ossessivo) di controllare il più possibile gli eventi per mettersi al riparo dai colpi di un divenire incessante e meccanico nella sua bruta fisicità (è la termodinamica, bellezza…) hanno portato la specie umana a diventare, come s’è detto, il predatore assoluto degli altri viventi: ma non le hanno impedito, né mai lo potranno, di restare preda del caso.
È su questo aspetto della cosa che si dovrebbe coraggiosamente meditare: ma versare lacrime viscerali e pur sacrosante su 22 bambini che muoiono perché (come ha titolato un quotidiano) “Dio si è distratto” permette di deviare l’angoscia e allontanare, per un po’, l’ombra del predatore.

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