Un chien andalou, nel blu dipinto di blu: felice di stare quaggiù
di Leonardo Caffo
viene qui pubblicato un estratto di Tappe, una cosa che ancora non esiste: e che forse non esisterà.
Prima Tappa. La prima tappa si chiama carne. «Perché l’uomo non è che carne, ma non tutti sanno di esserlo; pochi, anche tra i migliori cannibali, sanno che cosa sia carne[1]». Il potere fascinatore della copertura delle pudende, nelle società dei cittadini che erano uomini, si rivela nel disconoscimento di questa carne. Ma cos’è, infine, la carne? Se l’uomo non è che carne, anche il cittadino si scopre di carne. Se l’uomo non è che animale, si scopre fatto della stessa sostanza di ciò che respinge. Ed è in fondo ciò che ci interessa in questa prima parte del viaggio: «tutta la carne benedirà il suo nome[2]». Perché che l’uomo respinga l’animalità, non v’è alcun dubbio. E che lo faccia, tra le altre cose, mangiandone la carne è presto dimostrato. Tutto questo divorare, esce dal suo controllo, si rovescia dentro i postriboli della routine, smaniosa di abolire lo stato di cose che invano, pochi, hanno concepito: pretendendo, per speranza della carne che mangia la carne – della carne mangiante – di essere cosa normale, diviene cosa banale (banalità del male). Difficile in questa mia prima tappa l’attuazione di un sogno: far finta di niente. «Un po’ di carne resta, anche se in malora, sotto la cosa, ed è un residuo micidiale[3]»: il puzzo mi travolge, svengo. Al mio risveglio mi incuriosiscono i macellai. Aperti uno ad uno i corpi di carne dei maiali senza nome: affondano la loro carne nella loro; svuotandola di sogni e cuore, fegato e speranze, la preparano per il gran banchetto. Quello in cui il sistema di adorazione alternato dell’animale, che da un lato cura un quadrupede, e dall’altro lo macella, si siederà alla tavola della malora. Nessun filosofo saprebbe darci l’esistenza della coppia “mangiato – mangiante”, questa cosa che occupa tanto la porzione di mondo che ho visito, ma che si afferra davvero così poco; l’esperienza della divorazione per lo più cancella, dallo schermo dell’esistente, uno dei due termini della relazione: il mangiato. Ma le tombe rosa, chiamate stomaci, provano l’esistenza di questa coppia: due corpi, due volti, che si fondono in un unico pezzo di carne. Poi, per convincere tutti che la delirante mostruosità della carne putrefatta esiste, che l’antropocentrismo miete ancora vittime in diversi modi, dobbiamo ricordare dell’uomo-Adamo: albergatore che respinge le creature che dovrebbe proteggere.
Un proprietario d’albergo, di nome Adamo, uccideva a bastonate i topi che sbucavano dal cortile davanti agli occhi del bimbo che gli voleva bene; a sua immagine il bimbo si è fatta quella del primo uomo[4].
Se tutti i suoni che ci hanno accompagnati – come specie Homo Sapiens – ricordano come siamo nati, allora lo squittire dei topi dell’Albergo di Adamo insegna che nasciamo in opposizione all’animale: respingendolo dal nostro modo di percepirci. La coppia contemporanea, umano – cittadino, che si muove cerimoniosamente e con decisione in questo primo spazio che visitiamo, tende verso la suprema ratificazione simbolica di quello che era il mondo della carne, ma che ora è carne del mondo. Come ballando un walzer, un walzer che dà certezza, la coppia si muove e diviene abisso di solitudine, tristezza e carne singhiozzante: che lentamente muore. Come uomo sei solo animale. Ma, come cittadino, sei simile a Dio. E Dio, non è mai esistito.
Seconda Tappa. La seconda tappa si chiama morte. Si può presentare in sogno. Cosa resta, quando resta muta, la morte? Nient’altro che la vita, presa per un suo singolo momento. Solo, e mai di più, che l’essenziale: dunque quasi niente. Eppure, in questo secondo spazio del mio viaggio, vedo solo anime inchitonate da un’intensa ed incondivisibile paura; la forza della percezione che si ha della morte è dissolutrice: attrae solo i malati, le sue severe braccia orfiche spaventano anche il più coraggioso dei poeti. Nel campo dei soggetti possiamo elencare famosi cantanti con zampe da leone. Converge a tentoni, il dualismo vita-morte, quasi fosse una cosa che riguarda solo l’immaginazione: ma marcisce anche il pensiero[1]. Terribile, fortemente impressionante, è anche la sensazione del morire. Sembra che nessuno, in questo posto che tende verso il Nord, abbia compreso che la vita è già morte. Quel che abbiamo intorno non lo conosciamo che atrraverso il dolore, la fine è senz’altro strumento di conoscenza. La facilità nell’attaccarsi alla vita, come una lumaca al suo guscio, è il più evidente tratto dell’ancora lungo, e difficile, progresso degli individui che abitano questa regione confinante, per ben due dei suoi quattro lati, con quella della carne. L’odore di farmaci, e di panacee, quasi diviene smog atmosferico: l’energia presunta che dovrebbe emanarsi diviene, invero, duratura e mesta vecchiaia. La crescita illimitata dei pericoli sociali, tra guerre ed areoplani, tra autostrade e inquinamento, creano una sorta di misoginia religiosa: ogni buon credente è sadico sterminatore, ma devoto di rispetto. Nella profonda teca del tempo, regione che visiteremo poi, rimangono i nomi di coloro che sono morti, e altri nomi, di coloro che invece vivono, chiamano questi suoni ormai spenti: il tentativo di rendere eterne le forme, ora dissolte. Passeggiando tra vecchie strade, nella città che tutto fu, odo i dolori virili dei cavalieri morti per noi. Qui la luce si fa scarsa, quanta empietà in questo attaccarsi alla vita. L’immortale in cuore, può non essere stolto? Il crepuscolo dell’eterno – perenne ritorno – trafigge il naturale scorrere degli eventi. Ringrazio il Signore di avermi lasciato osservare questo spettacolo tanto angosciante: come l’angelo Gabriele sorvolo questo terreno fatto di rughe e dolori, trucchi e finzioni. E vedendo l’animale, che muore sereno, capisco i problemi dell’uomo. Da un lato, nelle regioni della carne, ha respinto l’animale. Dall’altro lato, nelle regioni della morte, ha respinto la caducità dell’esistenza. Vive quindi ora sospeso, tra la città e l’eterno, un impero di non detti: diviene giovane e florido mercante di sporchi pensieri. Non tanto perché il falso è diventato vero, ma perché il vero è diventato empio.
[1] Cfr. Sgalambro 2011.
Finalmente qualche citazione di Ceronetti.
Inviso ai sessantottini (lo definivamo ‘fascista’, ma nel sessantotto annaspavamo tra decine di orientamenti diversi),
sicuramente anticomunista (del comunismo non ha capito nulla, ma elogia Adorno),
spietato critico della scienza e della società tecnologica,
resta, per esclusione, il più grande filosofo italiano del Novecento.
Aborre gli ismi, ma è un antispecista da prima che se ne inventasse il termine.
Leggere “In difesa della luna”, un libro che fu schernito da tutta la stampa di destra e di sinistra e ignorato dai filosofi dell’epoca.
Neanche Pasolini, peccato, si è accorto di lui.
E’ un pessimista. Ma non è un difetto in una società idiotamente ottimista.
ooops, dimenticavo la data di pubblicazione di “In difesa della luna”: 1969
bellissimo, bravo Leo!