Intervista per “Il Mattatoio” su ‘Flatus vocis’ (Novalogos, 2012)

Intervista a Leonardo Caffo di Massimiliano Forgione – 13/04/2012

per “il Mattatoio”

Dal tuo libro emerge l’idea di una filosofia che ha una valenza molto pratica e nella sua concretezza va a tradire quella di una scienza buona per riempire scaffali di librerie e per intrattenere in ambienti universitari e televisivi.
L’idea è quella di riprendere uno strumento classico della filosofia che è la sua valenza liberatrice e, spogliando questa affermazione da ogni ambiguità, conferire ad essa la forza di nobilitare la possibilità, di vedere le cose in modo diverso e protendere verso questa diversità, disegnare quelli che alcuni filosofi definiscono dei “mondi possibili”. Tutto ciò, però, non basta, in quanto confina il suo esercizio attorno ad un campo teorico mentre, a mio parere, è fortemente necessario sporcarsi le mani ed è qui che la filosofia assume una valenza concreta, uscendo dalla vacuità di una discussione tutta teoretica da cui il titolo del mio libro Flatus vocis.
Ci sono due distinzioni nette nel tuo lavoro: azione – atto e uomo – cittadino.
La domanda principale è: come possiamo agire sulle nostre azioni nel momento in cui abbiamo presente, in maniera lucida, il vuoto dell’atto, quel qualcosa che è già dato, classificato, a prescindere dalla volontà delle nostre azioni. Io penso che, nel momento in cui si inverte il punto di vista e si considera, ci si sofferma sul terminale delle nostre azioni, ebbene, diventa possibile rivedere il senso delle azioni stesse.
Poi, il libro sviluppa il suo percorso teorico attorno a tre coppie di opposizione, le due già accennate e un’altra che è quella di uomo – animale.
Se analizzo la dimensione di cittadino che è l’oggetto sociale su cui prende corpo l’oggetto bruto che è l’umano, scopro che il risultato è un essere completamente spoglio della componente originaria: l’umanità, in quanto diverse sono le sue esigenze, i suoi bisogni, i suoi desideri, tutti assolutamente artificiali e che dettano azioni altrettanto artificiali che portano ad atti drammaticamente prevedibili; tutto ciò, nell’uomo spoglio della sua veste di cittadino non c’è in quanto ciò che governa questa dimensione sono bisogni e funzioni primari.
Ora, riappropriarsi dell’abito di umano non vuol dire dare espressione solo a bisogni e funzioni primordiali, cosa che espleta anche il cittadino, bensì ricongiungersi ad una natura più propriamente animale e porre fine alla separazione animale – uomo aggravatasi nel momento in cui il cittadino ha deciso di congedare l’umano.
Così facendo, l’essere vivente diventa portatore di azioni prevedibili che conducono verso degli atti già esistenti e che aspettano soltanto di essere saturati. Una visione abbastanza inquietante quella che non ti lascia pensare ad un atto inedito in quanto, nel momento stesso in cui ci si sofferma a contemplarlo, si ha l’immagine di un qualcosa di già esistente. Ecco perché è fondamentale ritrovare il potenziale dell’azione, cosa che può avvenire solo fuori dal ruolo di cittadino.
Il tuo libro sviluppa delle ipotesi interessanti sul come fare e tutte cardini di un processo in divenire.
Questo lavoro è uno strumento utile a conoscere innanzitutto me stesso, non è solo un insieme di teorie ma di domande soprattutto, con tutti i limiti della mia riflessione. Ritengo che la filosofia non si possa prestare alla perversione della cura e che resti diagnosi; traccio dei problemi molto concreti che caratterizzano il nostro vivere e sviscero tutta quella che è la mia meditazione a riguardo, accettando che sia assolutamente confutabile, rinnegabile, ma consapevole della tragedia animale causata dall’uomo che è il punto cardine su cui si sviluppa il mio lavoro.
Il massacro degli animali appunto! Come se ne esce da questo?
Quando affermo che la speranza risiede in quei pochi che hanno sbirciato oltre la siepe e, inorriditi dall’oscenità della tragedia degli sfruttati, dei massacrati, hanno dismesso degli atti, metto al centro la capacità di entrare in empatia con l’altro da noi, uomo o animale che sia e non è un dato biologico ma culturale.
Fermarsi a osservare e riflettere sulla pelle di chi viene generata l’eccedenza dei beni che caratterizzano la vita del cittadino manda in corto circuito il sistema ma per arrivare a ciò bisogna dar luogo ad un processo di educazione.
Il libro l’ho scritto tempo fa e ampliato in seguito sulla suggestione delle riflessioni che la crisi economica mi suscitava. Ritengo che potremmo trovarci ad una svolta epocale se solo riconoscessimo che, come cittadini, abbiamo fallito. Per far ciò è fondamentale rinunciare a tutto ciò che è inutile ma che, nel tempo, abbiamo catalogato come necessario. Abbiamo davanti la ghiotta opportunità di cancellare l’oggetto sociale che è la crisi, un qualcosa che esiste in quanto l’abbiamo creata noi ma che non ha alcuna materialità. Noi possiamo avere un mondo diverso in quanto, anch’esso, oggetto sociale dipendente dalle nostre intenzionalità, desideri, volontà, rappresentazioni, aspirazioni.
Continuare a mettere delle toppe al posto di riedificare tutto è la dimostrazione evidente che c’è un sistema di controllo che impedisce il cambiamento, ci rende impotenti. Io sono sicuro che i tanti che soffrono per questa crisi sarebbero disposti a cambiare il modello sociale comportamentale ma il problema è che non hanno il potere di farlo.
Guidando per venire a questo incontro ho avuto una suggestione mentre ascoltavo delle riflessioni alla radio sul venticinquennale della morte di Primo Levi, ha a che fare con la forza straordinaria del racconto tale che, dove manca, vi è solo la morte. Noi sappiamo come Levi riuscì a sopravvivere alla prigionia terrificante del campo di concentramento e a farsi testimone di quell’orrore e conosciamo il modo in cui decise di porre fine ai suoi giorni nella Torino dei tempi di pace, in un mondo dove, forse, le sue parole non avevano più un interlocutore: lo spettro dell’incomunicabilità o peggio dell’impossibilità di essere capito.
Il paradosso di questo storia meravigliosa è che nello stato eccezionale si vede ciò di cui la nostra società è capace; la sua perfidia non si percepisce tanto dalle carceri, nei macelli ma proprio nei luoghi della socialità: i bar, le strade, in tutto ciò che rientra nella categoria del ‘normale’ tenuto in vita dal gioco degli opposti: perché ci siano delle persone libere necessitano delle persone prigioniere, per tanti che hanno diritti ce ne vogliono altrettanti che ne vengano deprivati. Questa separazione fa male, suscita orrore.
C’è un’altra bella immagine che ci proviene da Emmanuel Lévinas (Di Dio che viene all’idea, Jaca Book 2007), anch’egli internato in un campo di concentramento e riguarda un cane di nome Bobby che, a fine giornata, aspettava puntualmente il rientro dei prigionieri, offrendo loro l’unico sguardo ancora umano senza aspettarsi nulla in cambio. Il ritorno all’animale che io auspico è proprio questo: un riconoscimento reciproco che prescinda da qualsiasi negoziazione sul confine tra simili. Dobbiamo avere chiaro che ci reggiamo in piedi perché qualcuno è stato abbattuto, che non è più possibile creare, alimentare le categorie degli esclusi per sentirci inclusi.

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