Antispecismo e Veganismo

di Arianna Ferrari

Intervento nel dibattito “Siamo quello che non mangiamo: rinunce, proibizioni e identità nelle pratiche alimentari”[1] organizzato dall’Istituto Jacque Maritain di Trieste nell’ambito di Trieste Next, Salone Europeo dell’innovazione e della ricerca scientifica, Prima edizione, “Save the Food”, 28-30 settembre 2012

Ogni volta che vedi un uccello in gabbia, un pesce in una vasca o un mammifero non-umano alla catena stai vedendo lo specismo. Se credi che un’ape o una rana abbiano meno diritto alla vita e alla libertà di uno scimpanzé o di un umano o se consideri gli umani superiori agli altri animali, stai approvando lo specismo. Se visiti le acquaprigioni o gli zoo, frequenti circhi che offrono “numeri con gli animali”, indossi pelle o pelo di non-umano, mangi carne, uova, latticini, stai mettendo in pratica lo specismo. Se ti batti per la macellazione più “umana” dei polli o per una prigionia meno crudele dei maiali, stai perpetuando lo specismo. Questo brano è tratto dalla prefazione del libro di Joan Dunayer “Specismo” pubblicato nel 2004.

Nel 1970 lo psicologo Richard Ryder coniò il termine specismo in un opuscolo,sottolineando come gli specisti traccino una netta distinzione morale tra gli umani e gli altri animali, in quanto  non riescono a “estendere l’interesse per i diritti elementari agli animali non-umani”.

Con la pubblicazione di Liberazione animale nel 1975, il filosofo Peter Singer portò il concetto di specismo all’attenzione generale. Singer definì lo specismo come “un pregiudizio o un atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli interessi dei membri della propria specie e contro i membri delle altre specie”.

La base della teoria di Singer è il riferimento alla capacità di provare piacere e dolore, anche detta patocentrismo (o sensiocentrismo): se, come scientificamente dimostrato, gli animali non umani possono provare piacere e dolore, allora dobbiamo dare ugual peso alle preferenze di umani e non umani nel valutare le conseguenze delle nostre azioni.

Secondo Singer lo specismo é un “pregiudizio”: noi discriminiamo gli animali perché abbiamo insita in noi un’idea sbagliata di loro. In realtà, secondo lui, giustamente, noi dobbiamo rifarci ai dati della scienza e allo studio delle loro capacità socio-cognitive per dire qualcosa di sensato sugli animali. Singer costruisce una teoria nella quale non distingue moralmente gli esseri in base alla lor appartenenza di specie, ma in base alle loro capacità. Nella sua teoria morale introduce la nozione di persona e distingue fra esseri che hanno capacità di coscienza, di autocoscienza, un senso per il futuro, come persone e altri che mancano di queste capacità.

La teoria di Singer è stata ampiamente contestata nel dibattito animalista già a partire dagli anni ottanta, con le influenze sviluppate all’interno del movimento femminista, che hanno collegato la questione dell’antispecismo come una filosofia, una forma di pensiero che tende a giustificare forme di sfruttamento in maniera simile al discorso fatto per le donne (emotività/ interesse per gli animali- immagine uomo forte associata alla carne). Il dibattito è poi proseguito ed è stato arricchito da prospettive che tendono a sottolineare gli aspetti storici, culturali ed economici del porre un limite netto e invalicabile nella considerazione morale di esseri umani e non umani.

In questa sede, dunque, mi faccio portavoce di una diversa concezione di specismo rispetto quella singeriana.

La base di partenza non sta tanto in un pregiudizio razionale definibile solo nell’ambito della filosofia morale, ma che deriva anche dal modo in cui i soggetti si relazionano, quindi all’ambito delle relazioni sociali, che si sviluppano nella storia.

ll sociologo David Nibert ha descritto lo specismo come un’ideologia “creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali”[2]. Nella sua prospettiva, dunque, l’oppressione umana dei non-umani è ciò che viene prima; il pregiudizio ne consegue. Tuttavia è vera anche l’altra direzione: si tratta di un’oppressione che non sarebbe potuta sorgere senza la sensazione di possedere una qualche prerogativa esclusiva. E’ dunque impossibile decidere cosa è venuto prima: l’oppressione o la sua giustificazione psicologica, le azioni speciste o gli atteggiamenti specisti.

L’aspetto centrale è che lo specismo implica sia l’arroganza sia l’ingiustizia: la presunzione umana e una parallela disposizione ad abusare dei non-umani. Gli specisti svalutano gli interessi non-umani perché svalutano i non-umani, che considerano inferiori e meno degni di considerazione. Il nocciolo dello specismo è la convinzione della superiorità umana.

Per riassumere: lo specismo è sia un atteggiamento sia una forma di oppressione. Poiché considerano gli umani superiori agli altri animali, gli specisti attribuiscono maggiore peso agli interessi umani rispetto ad interessi altrettanto vitali, o al benessere, dei non-umani. E’ specista escludere qualsiasi essere non-umano e per qualsiasi motivo dalla piena ed equa considerazione morale. L’antispecismo è il rifiuto di questo atteggiamento e delle forme di oppressione.

L’antispecismo viene dunque man mano sempre più compreso come qualcosa che sì riguarda la base giustificatoria di atteggiamenti di negazione di fondamentali diritti agli animali nonumani, quindi di giustificazione di pratiche di violenza e di sfruttamento, ma anche come un’idea che ci porta a ripensare la nozione di natura attraverso lo sguardo degli esseri viventi senzienti sfruttati. Ovviamente, all’interno di questa rinnovata concezione di natura, ci sono anche gli esseri umani.

L’antispecismo va oltre l’istanza di liberazione degli animali tutti: é diverso, quindi dall’animalismo propugnato da coloro che sono convinti che lasciando inalterato il sistema vigente, basterà informare e sensibilizzare la massa sulla sofferenza degli animali per far sì che essa smetta di sfruttare gli animali. L’antispecismo mira, infatti, a decostruire l’intero sistema entro il quale nel corso dei secoli lo sfruttamento del vivente, soprattutto di quello senziente, si è strutturato. Si tratta di collocare la discriminazione e l’oppressione in una prospettiva storica, sociale, antropologica e politica insieme. Una delle idee fondamentali dell’antispecismo é che gli atteggiamenti e le pratiche speciste sono inestricabilmente connesse, ossia si sostengono vicendevolmente.

L’antispecismo, dunque, é qualcosa di più della scelta di non consumare prodotti animali, prodotti derivati dallo sfruttamento degli animali non umani, quindi é qualcosa di più del veganismo. Coinvolge la sfera di tutte le pratiche nelle quali gli esseri senzienti vengono sfruttati e uccisi, quindi riguarda la sfera delle sperimentazione animale, dell’utilizzo di prodotti animali per vestirsi, ma anche di pratiche che negano la libertà e altri diritti fondamentali come gli zoo e i circhi con gli animali. Riguarda, però, anche pratiche di violenza e oppressione nella sfera umana, collegate a varie forme di discriminazione (sessimo e razzismo) e quindi ad ambiti sociali, politici, culturali ed educativi.

Dato che il tema di questo incontro riguarda le pratiche alimentari, dopo questa ampia introduzione all’antispecismo, mi voglio soffermare sulla modalità di produzione del cibo e vi voglio mostrare ciò che sta a cuore dell’analisi antispecista, ossia  come, nel nostro ambito specifico, l’oppressione degli animali non umani può essere considerata il fondamento di ogni oppressione, quella che permette tutte le altre e su cu si gioca l’idea stessa che abbiamo di società.

Per far questo dunque, possiamo analizzare due grandi ordini di problemi:

Il primo riguarda la sofferenza provocata dalla produzione degli alimenti animali

La seconda riguarda gli aspetti che legano lo sfruttamento degli animali non umani ai problemi del sistema di produzione di cibo, un sistema neoliberale, globalizzato, che genera profonde ingiustizie e uno sfruttamento delle risorse insostenibile.

 

Il primo punto riguarda la sofferenza degli animali non-umani– siccome sono temi noti, vi farò qui solo tre esempi.

Le mucche “da latte” sono selezionate geneticamente ed inseminate artificialmente per produrre quanto più latte possibile. Dall’età di circa due anni, trascorrono in gravidanza nove mesi ogni anno. Poco dopo la nascita, i vitelli vengono separati dalle madri e ciò provoca in entrambi un trauma. È in fatti stato scientificamente dimostrato che il vitello può riconoscere la madre da segnali acustici e dalla seconda settimana riconosce la madre anche da 50 metri. Dalle osservazioni delle mucche non in cattività è emerso che anche quando i vitelli stanno spesso lontano dalla mandria nell’erba alta, le mucche mantenere il contatto visivo con i propri cuccioli. Mucca e vitello mantengono nella vecchiaia stretti legami. Tutto ciò non avviene negli allevamenti, nei quali madre e cucciolo sono separati per la produzione di latte e di carne. Per alimentare il suo vitello, una mucca darebbe una media di 8 litri di latte al giorno, che si traduce in circa 2.500 litri all’anno (calcolato su 305 giorni, il cosiddetto periodo della lattazione). Già nei primi anni 1980 ha prodotto una mucca da latte – anche se esclusivamente per i bisogni umani – 4300 litri di latte all’anno, metà anni 90, si è arrivati a 5.000-5.500 litri e attualmente alla resa lattiera media annuale è di per vacca da 7.000 litri, ossia a 25 litri al giorno. In caso di razze speciali (come Holstein-Friesian, Jersey e Brown Swiss) sono la produzione di latte di 10.000 litri (quindi il doppio) non è più una rarità. I vitelli sono alimentati con una dieta inadeguata apposta per renderli anemici e far sì che la loro carne sia bianca e tenera (come piace ai consumatori) e infine sono mandati al macello.  Non sorprende che ogni anno un terzo delle mucche sfruttate nei caseifici soffra di mastite (una dolorosa infiammazione delle mammelle).

Allevamento conigli: i conigli bianchi sono tenuti in gabbie di 60 × 45×40 cm o stipati in casse a più piani senza finestre con una altezza di 30 cm. Le condizioni igieniche sono misere, l’elenco delle malattie dei conigli è infinita: si va da infiammazioni, a diarrea e avvelenamento del sangue e aborto ma anche  individuali, mancanza di esercizio fisico, disturbi auto-aggressione, scoliosi o respiratoria causati da problemi di postura (vedere Mackensen 2007). I produttori si aspettano un tasso di mortalità del 20%, la cifra reale dovrebbe essere di 50%. Circa il 70% dei conigli totali proviene dall’Europa, v.a. da Italia, Spagna, Francia, Ungheria e Germania, dove la quota di consumo di carne di coniglio è attualmente a 0,6 kg pro capite all’anno, che è di circa 40.000 tonnellate, o 25 milioni di conigli ogni anno . Una delle ragioni per le condizioni intollerabili degli allevamenti di conigli é la quasi totale assenza di normativa. Ciò è particolarmente vero per i grandi paesi produttori come la Cina, l’Italia e l’Ungheria.

Produzione uova: Gli italiani consumano circa 220 uova a testa l’anno. Gli antenati delle galline ovaiole facevano circa 130 uova l’anno ora, frutto di un’attenta selezione genetica, ne fanno 300. Entrano nella gabbia (negli allevamenti intensivi) a 4/5 mesi (le cosiddette “pollastre”) e subiscono subito il taglio del becco.  Noti sono i fenomeni di stress delle galline come il cannibalismo, osteoporosi, infezioni. Nei cosiddetti allevamenti biologici il mangime è più controllato e le galline hanno più spazio. Ma non sono in grado comunque di esercitare i loro comportamenti naturali, sono confinate e dunque non libere e gli standard si stanno abbassando di molto per permettere alla produzione di continuare ad essere competitiva. I pulcini maschi, quindi non utili alla produzione delle uova, vengono, per qualsiasi tipo di allevamento, trasportati su dei rulli come se fossero merce, separati dalle femmine che diventeranno galline ovaiole, e buttati VIVI nel tritacarne per farne mangime.

Arriviamo al secondo punto, legato ad un’analisi del sistema di produzione del cibo.

Si tratta di un argomento molto complesso. Una cosa che emerge ben chiara da diversi studi recentemente pubblicati da istituzioni internazionali come la FAO e le Nazioni Unite, importanti perché possono accedere a statistiche e a dati provenienti da quasi tutti i paesi del mondo, la produzione di prodotti animali é in grande aumento, in aumento esponenziale, in una maniera che risulta incompatibile con le risorse del pianeta.

Più concretamente: Secondo la FAO (2009), tra il 1980 e il 2007 la produzione globale di alimenti di origine animale è aumentata drammaticamente, superando la popolazione umana globale di quasi un ordine di grandezza. La produzione globale di carne è raddoppiata da 136,7 a 285,7 milioni di tonnellate, la produzione di uova è aumentata del 150 per cento (da 27,4 a67.800.000 tonnellate), e la produzione di latte è salita da 465 a 671,3 milioni di tonnellate.

La produzione animale coinvolge un massiccio uso di risorse: il consumo di acqua è enorme, oltre il 45 per cento dell’acqua totale usata per la produzione di tutti gli altri alimenti. Enorme è la produzione di azoto reattivo e di biomassa: a partire dal 2000 dati riportano il 63% del totale per l’azoto e 58% per la biomassa (Steinberg et al. 2006; Pelletier e Tyedmers 2010; Krausmann et al. 2008). Sempre più studi rivelano il collegamento fra (eccessivo) consumo di carne e aumento di cancro e malattie cardiovascolari (Kontogianni et al. 2008)

Inoltre, la proporzione nell’utilizzo di terreno per la coltivazione a cereali destinati alla nutrizione dei cosiddetti “animali da allevamento” rispetto che a quella umana è enorme: Si tratta di circa un terzo dei raccolti di grano del mondo e più di 90 per cento di soia. Quest’ultimo punto è collegato anche la problema della deforestazione, in particolare dell’amazzonia, per la produzione di soia transgenica. In generale, in allevamento intensivo di 4kg di grano sono necessari per produrre 1 kg di carne di maiale e 2 kg di grano per produrre 1 kg di carne di pollo (il pollame rappresenta il 33 per cento della produzione di carne, FAO 2010). Senza ovviamente considerare i costi di inquinamento dell’aria e dell’acqua degli allevamenti cosiddetti intensivi.

Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), in uno studio del 2010, ha scritto (cit. tradotta dalla sottoscritta):” si prevede un aumento dell’impatto del settore agricolo dovuto sostanzialmente alla crescita della popolazione e all’aumento del consumo di prodotti animali. A differenza dei combustibili fossili, è difficile cercare alternative: la gente deve mangiare. Una sostanziale riduzione degli impatti sarebbe solo possibile con una modifica sostanziale dieta in tutto il mondo, lontano da prodotti di origine animale “(Hertwich et al.2010, p. 82).

Ora qualche dato riguardante il consumo di pesce. Sí, perché anche i pesci sono esseri senzienti e anche la pesca contribuisce ad inquinamento e ingiustizie. Nel 2010, la produzione mondiale del pesce in acquacoltura (comprendente la riproduzione e l’allevamento di pesci, molluschi, o piante in stagni, recinzioni, o altre forme di confinamento in acque dolci o marine per la raccolta diretta del prodotto) insieme alla pesca hanno raggiunto circa 128 milioni di tonnellate di pesce e dati preliminari per il 2011 indicano un aumento produzione a 131 milioni di tonnellate (FAO 2012). “Il consumo di pesce pro capite è aumentato da una media di 9,9 kg (equivalente peso vivo) nel 1960 a 18,4 kg nel 2009, e le stime preliminari per il 2010 indicano un ulteriore aumento del consumo di pesce a 18,6 kg ” (FAO 2012, p. 3). Mentre la cattura e la pesca hanno operato sugli stessi livelli per gli ultimi anni, l’acquacoltura si sta espandendo tremendamente decennio dopo decennio. La pesca industriale emette alti livelli di inquinanti nell’aria e acqua. Le Nazioni Unite prevedono che ” per mantenere solo l’attuale percentuale attuale entro il 2050 sarà necessario un 56 per cento di aumento della produzione di pesce ” (Nelleman et al. 2009, p.6).

I costi ambientali e di salute del consumo di prodotti animali fano parte di una logica neoliberale e capitalista che considera il cibo al pari di altre risorse, una fonte di profitto che deve essere infinitamente moltiplicata.

La distribuzione nella produzione del cibo e, dunque, la sua accessibilità a livello globale indicano una situazione di profonda ingiustizia: ci sono zone del mondo dove migliaia di persone muoiono di fame; ci sono zone dove tonnellate di cibo vengono gettate via. Il tema dello spreco alimentare sta venendo alla luce sempre in tutta la sua scandalosa prepotenza: Un nuovo film del regista tedesco Valentin Thurn, “Taste the waste”, fa il punto della situazione: Più della metà di tutto il cibo prodotto in Europa viene buttato via, ossia 90 millioni di tonnellate all’anno: una lattuga su due, una patata su due e un panino su cinque. Questo cibo equivale a 3 milioni di camion pieni. Si calcola che nelle case europee si buttino via cibi per 100 bilioni di euro l’anno. 3 milioni di tonnellate dii pane l’anno viene buttato via nell’unione Europea. La maggior parte finisce nella spazzatura prima che raggiunga il consumatore. E quasi nessuno conosce con precisione l’entità dei rifiuti. Il problema è enorme, è collegato alla sovrapproduzione, in parte sovvenzionata e deve far riflettere sul problema della distribuzione del cibo a livello globale. Pare, infatti, che il cibo buttato via in Europa e nel Nordamerica basterebbe a sfamare l’intera popolazione umana per ben tre volte.

Nonostante le stesse istituzioni internazionali rilevino la cosiddetta “insostenibilità” dell’attuale modo di produzione degli alimenti di origine animale, non sono ancora state formulate politiche di contenimento o di abolizione. Anzi, l’industria animale continua a ricevere sovvenzioni, come, un esempio fra tanti per la produzione del latte in Europa, talmente all’eccesso che da tempo si stanno importando prodotti caseari in Africa a prezzi molto concorrenziali che stanno distruggendo l’economia locale. Ritornando al pesce, anche qui è chiaro che le politiche mondiali non sono orientate ad un ripensamento globale del sistema di produzione. La FAO (2012), per esempio, da una parte riconosce che in paesi di basso reddito e deficit alimentare il consumo di pesce è una fonte importante di proteine, dall’altra,rileva che il consumo di pesce questi paesi, nonostante la sua costante crescita è significativamente più basso che nei paesi cosiddetti sviluppati (in Africa è al minimo) e che è distribuito anche in maniera iniqua. Infatti, una parte significativa dei pesci catturati in questi paesi è destinata ad esportare a quelli più ricchi, con gli Stati Uniti e Giappone. Tuttavia, la FAO (2012) conclude che “non ci sarà nessuna economia verde senza una crescita sostenibile in agricoltura (compresa la pesca), e che una migliore gestione e efficienza in tutta la catena del valore alimentare può aumentare la sicurezza alimentare utilizzando meno risorse naturali “(p. 17).

Inoltre, anche la ricerca scientifica sta cercando di proporre soluzioni per “salvaguardare” o addirittura implementare il consumo di prodotti animali: in particolare attraverso l’ingegneria genetica si stanno investendo risorse per creare mucche transgeniche in grado di produrre latte con proprietà alterate (per es ridotto apporto di caseina) per soddisfare le esigenze del consumatore, o salmoni transgenici (AquaAdvantage®)[3] in grado di crescere il doppio dei salmoni convenzionali. Il caso degli EnviropigsTM è interessante: si tratta di maiali transgenici in grado di produrre nelle ghiandole salivari l’enzima fitasi, secreto nella saliva. Una volta che il cibo viene ingerito, l’enzima fitasi è attivo: entrando nell’ambiente acido dello stomaco, l’enzima fitasi contribuisce a far digerire l’acido fitico[4] del cibo (cereali) che risulterebbe indigeribile (come lo è anche per gli umani) e che quindi andrebbe a finire negli escrementi. In questo modo, non è necessario integrare la dieta sia con fosfato minerale o fitasi prodotti commercialmente, e quindi alla fine risulta meno fosforo nel concime. Oggi non esiste piú nessun EnviropigTM: dopo che l’università di Guelph ha perso il finanziamento da Ontario Pork non è riuscita più ad andare avanti con gli esperimenti e ha deciso di non spendere più soldi per mantenere in vita gli ultimi individui. Nonostante la campagna di associazioni animaliste per l’adozione, gli EnviropigsTM sono stati uccisi quest’estate[5].

Si badi bene: In una logica antispecista, non ha senso parlare die “sostenibilità” solo soffermandosi sui problemi legati allo spreco di risorse ambientali o ai danni alla salute umana. Questi fattori devono essere collegati alla dimensione politica del sistema di produzione di cibo e, dunque, alla questione dello sfruttamento umano e animale. Non vi è alcuna reale sostenibilità in una società basata sullo sfruttamento di innumerevoli esseri senzienti, animali ma anche umani, in zone del pianeta dove non si ha l’accesso a cibo fresco o dove le risorse mancano o vengono superate dal valore economico odi merce prodotta con sovvenzioni e da multinazionali,  proprio perché la sostenibilità è un concetto normativo costruito sula nozione di responsabilità e di giustizia. E la responsabilità e la giustizia emergono dal regno senziente, dal fatto che ci sono esseri capaci di provare piacere e dolore e che hanno un interesse a continuare la propria esistenza, e quindi sono qualcosa che riguarda tutti gli esseri senzienti.

Un’ultima cosa mi preme di sottolineare: il tema della rinuncia e della negazione. Il titolo di questa sessione è, infatti, tutto al negativo: Siamo quello che non mangiamo: rinunce, proibizioni e identità nelle pratiche alimentari

È vero, rispetto al mainstream, o meglio allo status quo delle pratiche attuali nella maggior parte del mondo, il veganesimo è una scelta di nicchia che si basa sulla rinuncia al consumo di prodotti derivati dallo sfruttamento e uccisione di animali. Ma il veganesimo propugnato dalla filosofia antispecista non è una pratica da asceti: vuole celebrare la gioia della convivialità, dello scambiarsi ricette de del condividere il gusto e il piacere del cibo. I vegani antispecisti r, mangiano insieme, vanno alla ricerca di ricette complicate e divertenti, si interessano a colture magari meno note cereali particolari) e, di solito, proprio perché non facente parte della cultura mainstream, sono attenti e consapevoli delle diverse combinazioni alimentari. Quindi, è vero, il vegano NON mangia determinate cose che altri mangiamo. Ma il discrimine è tutto al positivo: si vuole eliminare le pratiche negative della sofferenza e dell’uccisione.

Quindi, ancora, parafrasando Feuerbach, se l’uomo è quello che mangia, (e quindi non é quello che non mangia), gli antispecisti NON mangiano la sofferenza.

come citare questo articolo: A. Ferrari (2012), “Antispecismo e Veganismo”, in Asinus Novus: Filosofia e Antispecismo,  Vol.I, n. VIII, online: http://asinusnovus.wordpress.com/2012/10/29/antispecismo-e-veganismo/

[2]           (David Nibert, Animal Rights/Human Rights: Entaglements of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield, Lanham 2002, p. 243).

[4]           L’acido fitico è la principale forma di deposito di fosforo in molti tessuti vegetali.

[5] http://www.theglobeandmail.com/commentary/save-the-enviropigs/article4204498/

Bibliografia.

  1. Dunayer J. (2004) Speciesism. Ryce Publishing, Derwood, Maryland.
  2. FAO (2010): Poultry, Meat and Eggs, Food And Agriculture Organization Of The United Nations, Rome, http://www.fao.org/docrep/012/al175e/al175e.pdf
  3. FAO (2012): Fisheries and Aquaculture Department, Food And Agriculture Organization Of The United Nations, Rome, http://www.fao.org/docrep/016/i2727e/i2727e00.htm
  4. Kontogianni M.D. et al. (2008): Relationship between meat intake and the development of acute coronary syndromes: The CARDIO2000 case–control study,European Journal of Clinical Nutrition, 62: 171–177
  5. Krausmann F. et al. (2008): Global patterns of socio-economic biomass flows in the year 2000: A comprehensive assessment of supply, consumption and constraints,  Ecol Econ 65: 471-487.
  6. Nellemann C. et al. (2009): The environmental food crisis – The environment’s role in averting future food crises. A UNEP rapid response assessment. United Nations Environment Programme, GRIDArendal, http://www.unep.org/pdf/foodcrisis_lores.pdf
  7. Nibert D. (1953): Animal rights. Human rights. Entanglements of oppression and liberation. Rowman & Littlefield Publishers, Lanham.
  8. Nibert D. (2012): The fire next time: the coming cost of capitalism, animal oppression and environmental ruin – Journal of Human Rights and the Environment 3,1: 141-158.
  9. Pelletier, N., Tyedmers, P. (2010): Forecasting potential global environmental costs of livestock production 2000-2050, PNAS 107(43): 18371-18374.
  10. Singer P. (1975): Animal Liberation, Harper Collins.
  11. Steinfeld H. et al (2006): Livestock’s Long Shadow: Environmental Issues and Options, FAO, Rome, ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/010/a0701e/a0701e00.pdf

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