Prendiamo sul serio la considerazione morale degli animali: al di là dello specismo e dell’ecologismo*
Pubblichiamo qui di seguito, in occasione del dibattito sugli antispecismi di Febbraio presso l’Università la Sapienza di Roma un articolo di Oscar Horta che riassume le sue posizioni sul tema e che verrà anche pubblicato su uno dei prossimi numeri di Animal Studies.
Prendiamo sul serio la considerazione morale degli animali: al di là dello specismo e dell’ecologismo*
di Oscar Horta
Università di Santiago di Compostela
1. Introduzione: la nostra attuale visione degli animali non umani
Viviamo in società nelle quali la moralità vigente, stabilisce una barriera netta tra gli esseri umani e gli altri animali. Comunemente si considera che solo gli esseri umani debbano essere rispettati e, per impostazione predefinita, ogni volta che si parla di qualche questione di carattere etico o politico, si pensa che si parli di come agire verso gli esseri umani.
Vedremo in seguito che tale posizione è carente argomentazioni rilevanti a suo favore e scopriremo una serie di ragioni che portano a rifiutare che gli esseri umani siano gli unici esseri moralmente considerabili e che gli animali di altre specie siano semplicemente una parte dell’ambiente che li circonda. Ma scopriremo anche che la questione non finisce lì. Vedremo che quando la questione viene esaminata in dettaglio, si notano chiaramente due punti in cui è necessario andare oltre la sola idea che non dovremmo considerare gli animali non umani come meri oggetti.
Il primo di questi punti consiste nel fatto che non solo non abbiamo ragioni per rispettare unicamente gli esseri umani ma non abbiamo ragioni reali e giustificabili, neanche per considerare che gli interessi degli esseri umani siano più importanti di quelli degli animali. Possiamo rispettare fino a un certo punto gli animali non umani al momento che accettiamo di trattarli comparativamente peggio di come ci comporteremo con gli esseri umani, anche quando gli uni e gli altri abbiano interessi con il medesimo peso (cioè, quanto sia importante che gli interessi vengano soddisfatti per ciascuna delle due parti). Vedremo che tale posizione, che è stata definita specismo, crolla quando si esaminano le argomentazioni a favore e contro.
Il secondo punto che tratteremo qui, sarà il contrasto tra, il rispetto per gli interessi degli animali non umani e l’etica ambientale. Detto contrasto, è dovuto al fatto, come si argomenterà qui, che gli animali non umani non sono una parte dell’ambiente attorno all’uomo, bensì individui, che, come noi, hanno la capacità di soffrire e provare piacere. Comunemente si identifica la difesa degli interessi degli animali non umani con le posizioni di carattere ecologista, ma vedremo che quello che queste posizioni difendono, è radicalmente distinto e che di fatto, nella pratica, sono proposte opposte.
2. Doveri positivi e negativi: solo verso gli esseri umani?
Gli animali non umani sono utilizzati quotidianamente, in forma sistematica e istituzionalizzata, come cose a nostra disposizione per molteplici fini. Questi vanno dall’intrattenimento, all’uso nei laboratori, alla produzione di vestiario e specialmente di prodotti di tipo culinario-alimentare. Questo è qualcosa che ha coinvolto la maggior parte degli esseri umani e raramente risulta essere messo in discussione.
Ugualmente, la maggior parte degli esseri umani riconoscono che c’è una chiara differenza nel nostro atteggiamento positivo verso gli altri: si ritiene comunemente che aiutare il prossimo sia lodevole e forse obbligatorio. Ma se crede che il “prossimo” è costituito esclusivamente dagli esseri umani. E’ dato per scontato che non abbiamo alcun motivo di agire in questo modo nei confronti degli animali non umani. Questo è messo in campo per il fatto che, non poche volte, la preoccupazione per la sorte degli animali non umani è vista di mal’occhio e riceve molte critiche. Chi si dedica all’attivismo a favore degli animali non umani sono spesso oggetto di rimproveri per non dedicare tali sforzi ad aiutare gli esseri umani. Di fatto, se lo sforzo impiegato al fine di aiutare gli animali non umani fosse usato solo per la ricerca del proprio piacere o di beneficiare se stessi, nessuno si sarebbe prodigato in questi rimproveri.
In questo capitolo spiegherò come l’idea che gli esseri umani debbano essere l’unico oggetto della nostra considerazione, rispetto alle nostre azioni, tanto in negativo (quello che possiamo fare contro alcuni) come in positivo ( quello che possiamo fare in favore di altri), debba essere rifiutata. Per questo, la struttura dell’argomentazione che si esporrà qui, procederà come segue: le sezioni 1 e 2 di questo testo hanno già presentato quali sono i problemi in questione. Nella sezione seguente, la 3, si presenteranno le ragioni a favore del rifiuto dell’idea che gli interessi degli esseri umani debbano essere prioritari su quelli degli altri animali, e si sosterrà che questa posizione è un esempio dell’attitudine chiamata “specismo”, ovvero, la discriminazione di chi non appartiene ad una certa specie1. Nella sezione 4, si argomenterà che la cosa rilevante per avere rispetto non è altra cosa che la capacità di soffrire e provar piacere. Nella sezione 5, si dirà che non abbiamo ragioni per considerare che solo gli esseri umani hanno la capacità di soffrire e provar piacere. Nella sezione 6 si indicherà perché è criticabile l’idea che gli animali non umani possano soffrire e gioire meno degli umani. A sua volta, nella sezione 7 si affermerà che possono soffrire e provar piacere solo gli animali (umani e non umani). Nella sezione 8 vedremo perché gli approcci ambientalista ed ecologista sono criticabili alla luce del rifiuto dello specismo. Dopo, nella sezione 9 si esporranno le conseguenze che derivano da quanto detto sopra rispetto a quello che dovremmo smettere di fare e saranno collegate fondamentalmente con il nostro uso degli animali non umani. Nella sezione 10 e 11 vedremo invece quali sono le conseguenze rispetto a quello che dovremo iniziare a fare per gli animali. Queste si riferiranno alla nostra possibilità di aiutare gli animali non umani nei casi in cui non siano presenti danni causati dall’azione umana. Infine, la sezione 12, conclude con alcune riflessioni circa l’attenzione che dovremmo mostrare verso questo problema.
3. Perche’ dobbiamo rifiutare lo specismo
Come già detto sopra, la maggior parte degli esseri umani ritiene ovvio che gli altri animali non debbano essere rispettati come i membri della propria stessa specie ma, nella maggior parte dei casi, non vengono presentati argomenti in difesa di questa posizione. Questo è normale, poiché, un’idea è difesa con argomenti validi, quando si considera criticabile o soggetta a controversie, ma non quando si pensa che sia chiara ed evidente per tutto il mondo. Questa posizione –sostenuta ad esempio da Diamond (1995) o Posner (2004)– possiamo chiamarla “definizionale”, perché assume per definizione l’idea che gli esseri umani siano più importanti di tutto il resto.
Ci sono altri casi nei quali queste posizioni sono sostenute in base a ragioni oltre ogni comprovazione, come quando si sostiene che solo gli umani hanno un anima o si dice che occupano un posto superiore nell’ordine delle cose –come hanno affermato e difeso Fernàndez-Creuhet (1996); Reichmann (2000) o Machan (2004)–. In realtà, tali argomentazioni finiscono per essere riformulazioni della posizione definizionale per la seguente ragione: questa posizione assume che gli esseri umani soddisfino certi criteri che implicano necessariamente, in modo automatico, che i suoi interessi siano più importanti di quelli del resto. Tuttavia, non ci sono ragioni che giustifichino questo pensiero e che siano le basi, suscettibili di comprovazione, del fatto che tali criteri esistano. Semplicemente, assumono che è così, come assumono che solo gli esseri umani li soddisfino. Così, come nel caso della posizione definizionale, semplicemente si suppone (i) che solo gli umani soddisfino tali criteri e (ii) che soddisfare tali criteri implica automaticamente far parte del “ gruppo degli eletti”.
Ciò nonostante, questi non sono gli unici modi in cui la priorità del diritto umana è stata difesa, ma è normale che questa idea si mantenga, esponendo che gli umani posseggono una capacità cognitiva (o altra capacità relazionata con questa, come la capacità di esprimersi con la parola) maggiore di quella degli altri animali. Questi argomenti sono stati usati abitualmente – per esempio, da Descartes (1930 [1637]), Leahy (1991), Ferry (1992) o Scruton (1996)–. Malgrado questo, non sono esatti. Se effettivamente avere una capacità cognitiva maggiore facesse che i nostri interessi contassero più che quelli del resto, la maggior parte dell’umanità dovrebbe subordinare i suoi interessi proprio a quelli della minoranza costituita da geni. Tuttavia, l’idea che alcuni di noi possano essere sacrificati in beneficio di un Einstein o un Aristotele, probabilmente appare difficilmente accettabile alla maggioranza. Inoltre, è interessante tenere in considerazione che c’è un gran numero di esseri umani la cui capacità cognitiva non sono quelle che assumono i difensori della “non considerazione” degli animali non umani. Questo è il caso dei bambini o degli adulti con profonde deficienze intellettuali funzionali. Se la non considerazione (e lo sfruttamento) degli animali non umani è giustificato dalla mancanza di alcune competenze intellettuali, lo stesso varrà anche per tutti quegli esseri umani le cui capacità cognitive, non dimentichiamo, sono spesso nettamente inferiori a quelle di molti animali di altre specie.
Altre volte si afferma invece che gli esseri umani devono essere rispettati al di sopra degli altri animali, perché manifestano alcune relazioni emozionali di simpatia o solidarietà tra di essi, –come Whewell (1852, p. 223), Scanlon (1998, pp. 184-185) o Petrinovich (1999)–. Oppure, perché ci troviamo in una posizione di potere da tempo prima degli altri animali –come ha sostenuto Narveson (1977) e Goldman (2001)–. Tuttavia, questo argomento, che potrebbe essere ulteriormente ampliato per giustificare il razzismo e altre discriminazioni che si verificano tra gli esseri umani, è discutibile per lo stesso motivo di cui sopra: non tutti gli esseri umani manifestano simpatia e solidarietà verso gli altri, ne tutti le ricevono dagli altri. Secondo questo argomento, si giustifica la non considerazione e lo sfruttamento, lo stesso vale nel caso dei rapporti di potere. Se queste argomentazioni ci danno legittimità a calpestare i deboli, giustificheranno anche ogni forma di sfruttamento tra gli esseri umani (e questo, ovviamente, occorre anche a noi stessi, in quanto possiamo essere le vittime di questo sfruttamento).
Tutto questo può portarci a rifiutare che qualsiasi di questi argomenti possano avere successo ed è importante notare che questi argomenti ci danno anche qualche traccia maggiore sui motivi per cui la difesa della non considerazione degli animali, sia discutibile. Se rifiutiamo che qualcuno possa essere privato della piena considerazione perchè non soddisfa certi criteri, non potremmo quindi essere d’accordo che tali criteri possano essere moralmente accettabili. A sostegno di ciò, si può considerare anche un argomento distinto: questo indica che, se due individui sono suscettibili di beneficiare o di essere danneggiati dalle azioni degli altri, il fatto che questi posseggano un certo tipo di attività cognitiva o non mantengano certe relazioni non dovrebbe essere un motivo per non considerarli allo stesso modo. In conformità a questo, quello che deve essere rilevante, al momento che rispettiamo qualcuno, è semplicemente, quello che è anche rilevante perché qualcuno si possa vedere danneggiato o beneficiato da quello che facciamo.
In definitiva, gli argomenti per non considerare con tutta l’attenzione gli animali non umani sono discutibili. Quello che questo suppone non si limita solo al non avere ragioni per non considerare moralmente gli animali, ma implica anche che non abbiamo ragione per considerarli in misura minore degli esseri umani. Le posizioni che difendono la supremazia degli interessi degli esseri umani, dovranno per tanto essere rifiutate come discriminatorie e ingiustificate. Saranno quindi posizioni speciste, vale a dire, che stabiliscono una discriminazione in base all’appartenenza ad una o all’altra specie.
4. Perche’, per essere considerati, e’ rilevante la capacita’ di avere esperienze positive e negative
Abbiamo visto una serie di ragioni che non risultano rilevanti al fine di rispettare qualcuno, cioè, di prendere in considerazione il modo in cui si possa beneficiarlo o danneggiarlo. Quello che questo suppone è che dobbiamo considerare moralmente tutti gli esseri con la capacità di avere esperienze positive e negative. Spiegherò di seguito le ragioni per sostenere questo, con un esempio.
Immaginiamo una vita totalmente incosciente, pensiamo, per esempio, a quanto potrebbe succedere se avessimo un incidente e perdessimo per sempre la capacità di avere esperienze di ogni genere, anche se i nostri corpi continuassero ad essere mantenuti in vita. La maggior parte delle persone penserebbe che una tale vita sia inutile, che in questo caso, quello che continua a vivere sia il nostro corpo, ma non noi, noi come tali saremmo scomparsi irrimediabilmente.
Perché pensiamo questo? Perché la vita ha valore per quello che ci succede durante il suo arco di tempo, una vita in cui succedono cose positive è una vita di valore che per noi è utile vivere. Questo è il motivo per il quale la morte ci fa male, perché ci fa smettere di vivere le cose positive che ci possono accadere nella vita. Può anche sussistere il caso contrario: immaginiamo per esempio, una vita soffrendo tormenti, la vita in una camera di tortura, senza alcun godimento e solo una terribile sofferenza. Tale vita sarebbe orribile, potremmo considerare che sia meglio non vivere che vivere in questo modo. Sarebbe pertanto una vita con un valore negativo.
Ugualmente, una vita senza nessun tipo di esperienza, una vita in uno stato di incoscienza totale, come nell’esempio che ho citato sopra, è una vita che non ha cose positive ne cose negative per cui vivere. Non è buono ne cattivo vivere una vita così, semplicemente non ha nessun valore, ne positivo, ne negativo, come se vivessimo tutta la nostra vita sotto l’effetto di un potentissimo sonnifero che impedisce sempre il nostro risveglio e che non potessimo nemmeno sognare. Quando riflettiamo su questo, vediamo che vivere questa vita sarebbe realmente come non vivere nessuna vita in assoluto.
Quello che questo ci mostra è che il mero fatto di esser vivi non è qualcosa che ha qualche valore. Quello che ha valore sono le esperienze che abbiamo, tutte quello che ci succede lungo la nostra vita, che è quello che fa la nostra vita come tale e che la rende preziosa. Abbiamo interessi e necessità perché abbiamo esperienze, non per il mero fatto di essere vivi.
Questo è il motivo per il quale essere vivo non risulta moralmente rilevante in se: lo è solo per le esperienze che possiamo vivere. Se non potessimo mai avere esperienze, se perdessimo irrimediabilmente la coscienza, come nell’esempio del primo paragrafo, per noi sarebbe totalmente irrilevante quello che accade al nostro corpo, non potremmo essere danneggiati o beneficiati, il motivo è che il nostro corpo verrebbe ad essere come un guscio vuoto, senza che nessuno lo viva, quindi, senza che nessuno sia beneficiato o danneggiato. Così, si può presumere che il rilevante, al momento di considerare moralmente qualcuno, è la capacità di avere esperienze positive e negative di qualsiasi tipo, questo è ciò che ci permette di essere danneggiati o beneficiati nel senso rigoroso del termine. Possiamo dire per esempio, che un apparecchio si è danneggiato se non funziona bene, o che la diffusione di una idea è beneficiata dal dibattito, però, nel senso più basico del termine, si beneficia o si nuoce a qualcuno quando lo influenziamo in modo tale che ha o può avere una esperienza positiva o negativa.
Questa è la ragione per la quale a noi animali, con la capacità di sentire, cioè, di avere esperienze, ci possono accadere fatti negativi e positivi, in altre parole, possiamo provar piacere e sofferenza, per tanto abbiamo interesse e necessità di essere rispettati. In cambio, quando non è presente tale capacità (come nel caso dei minerali o dei vegetali), non è possibile che esista alcun individuo che abbia interesse a rispettare e che può essere di seguito beneficiato o danneggiato come lo sono gli esseri che possono provare esperienze positive e negative. Anche se (come nel caso di piante, funghi o batteri) sono esseri vivi, questi hanno una vita che nessuno vive e che non può avere esperienze, esattamente una vita come ho descritto nel primo paragrafo. Questi esseri vivono senza alcuna esperienza, sono vite che non hanno valore positivo ( perché nessuno di loro sperimenta cose positive) o negativo (perché tantomeno c’è nessuno tra questi che sperimenta cose negative)
5. Non solo gli esseri umani sono senzienti
A questo punto, tuttavia, non sono mancati quelli che, contrariamente a quanto il senso comune ci dice, hanno sostenuto che solo gli esseri umani sono esseri senzienti e che gli altri animali non lo sono. Per difendere tale idea è stato affermato che possiamo sapere se gli esseri umani hanno esperienze perché lo possono comunicare mediante il linguaggio e che questo non succede negli altri animali. Per questo motivo, i sostenitori di questa idea, concludono dicendo di avere seri dubbi che gli animali non umani possono avere esperienze. Secondo questa visione delle cose, sarebbero come dei robot che agiscono inconsciamente, anche se il loro comportamento a volte ci ricorda quello umano.
Questa posizione si scontra tuttavia con le prove e argomenti a disposizione a tal proposito: non serve solo che il senso comune ci dica che gli animali non umani possono avere esperienze potendo soffrire e provare piacere, ma è anche la spiegazione più plausibile alla luce degli elementi di prova a nostra disposizione. Questo si deve a vari motivi.
In primo luogo un gran numero di animali agisce in modo che risulta molto difficile spiegare se non assumendo che sono coscienti. Gli animali manifestano comportamenti molto complessi che risulterebbe enormemente sorprendente portare avanti se fossero automi e che, in cambio, sono facilmente spiegabili e predicibili se assumiamo che hanno esperienze che possono essere positive o negative – autori classici, che hanno trattato questa questione sono stati Griffin (1992) e Dawkins (1993).
Ugualmente, questo va in linea con la fisiologia che hanno gli animali: il motivo per il quale possiamo avere esperienze positive e negative è che il nostro organismo possiede una struttura che rende possibile tutto ciò. Tale struttura è il nostro sistema nervoso centrale. Questo è quello che ci permette di percepire quella informazione che ci trasmette il nostro senso e possiamo quindi codificarla perché si converta in esperienza. Dato che molti altri animali, oltre all’essere umano hanno un sistema nervoso centrale, non c’è ragione per considerare che solo questi ultimi possano avere esperienza. Si osservi che questo, non solo succede nel caso di animali molto simili a noi: i vertebrati e la maggioranza delle specie esistenti di invertebrati hanno un sistema nervoso centralizzato – su questo argomento si può vedere il lavor di Smith (1991), Chandroo et al. (2004) o Sneddon (2004).
Finalmente si deve dire che il fatto che abbiamo esperienze negative e positive non è dovuto alla casualità, succede perché è evolutivamente utile. Il possesso della coscienza si è mantenuto lungo la storia evolutiva perché facilita la sopravvivenza degli esseri dotati di questa e la trasmissione dei suoi geni alle generazioni successive. La ragione alla base di questo è che le esperienze, sia negative che positive, motivano gli esseri che la posseggono a comportarsi in un modo o in un altro e questo serve per evitare quello che porta a esperienze negative e cercare quello che porta esperienze positive. E’ per questo che risulta evolutivamente assurdo che esseri che non hanno la capacità di muoversi, come i vegetali, possano possedere esperienza e che per lo stesso motivo non ci sembra logico che solo gli esseri umani la abbiano. Molti altri animali possono agire motivatamente per esperienza e sarebbe evolutivamente strano che la coscienza non avesse fatto la sua comparsa nella storia evolutiva fino giusto al momento che gli esseri umani cominciarono ad esistere.
La considerazione di tutti questi argomenti porta a concludere che l’idea che gli esseri umani sono gli unici animali che possono sentire, gli unici che possono soffrire o provar piacere, non risulta ragionevole –si veda sopra questo De Grazia (1996, capitolo 5) o Allen & Bekoff (1997)–. Al contrario, si deve considerare che tutti gli animali che posseggono un sistema nervoso centralizzato con un minimo di complessità sono soggetti ad avere esperienze. Per tanto, in base agli argomenti presentati sopra, tutti questi devono essere rispettati.
6. Perche’ la sofferenza e lo sfruttamento degli animali non umani non e’ minore di quello che possono sentire gli esseri umani
Molte volte si afferma che se anche gli animali non umani possono soffrire e provar piacere, la sua capacità di farlo è imcomparabilmente minore di quella degli esseri umani. Questa ipotesi, nonostante sia ritenuta comune è molto discutibile.
Dobbiamo tenere in considerazione:
(1) In primo luogo non esistono evidenze fisiologiche chiare sulle quali basare l’idea che il dolore o il piacere fisico che può sperimentare un essere umano sia maggiore di quello che possono provare gli altri animali.
(2) In secondo luogo, va notato che non abbiamo motivi per asserire che la capacità di sentire dolore e piacere fisico che possediamo noi esseri umani sia minore della capacità che abbiamo di sentire la sofferenza o il piacere psicologico. Nella nostra vita possiamo sperimentare molti piaceri puramente intellettuali, ma rinunceremo mai al nostro piacere fisico solo per aumentare tali piaceri intellettuali? Quasi sicuramente no. Ugualmente, se anche possiamo patire enormi sofferenze psicologiche non dobbiamo perdere di vista che possiamo soffrire anche immensi patimenti fisici che non sono certo minori dei precedenti. Chiunque sia passato per qualche malattia dolorosa sa questo molto bene.
Inoltre, è certamente vero che ci sono alcune situazioni in cui se si possiede un certo grado di intelligenza si soffre di più. Questo accade, per esempio, quando ci aspettiamo di subire un danno in futuro. Ma non dobbiamo perdere di vista che in molti casi accade esattamente l’opposto: il fatto di non possedere un certo grado di intelligenza fa che molti esseri soffrano molto di più. Poniamo un esempio: un animale intrappolato che viene liberato subito non può comprendere la sua situazione, crede che la sua cattura sia definitiva, e, probabilmente quello che aspetta è la morte. In questo modo, soffrirà immensamente più che a chiunque potessimo spiegare che la sua cattura è solo temporanea.
7. Solo gli animali sono senzienti
D’altra parte, si afferma a volte, che non solo gli esseri umani ma anche gli altri esseri vivi, per esempio le piante, possono soffrire e provar piacere. Stando così le cose, non saremmo tenuti a rispettare solo gli animali ma anche le piante. Anche se, quello che di solito cerca, chi fa queste affermazioni, non è rispettare le piante, ma giustificare l’uso di animali.
Per esaminare questa idea dobbiamo considerare lo stesso argomento che abbiamo considerato nella sezione 5. Lì abbiamo visto che disponiamo di tre criteri per sapere se un essere è senziente e si è verificato che nessun essere vivo che non sia un animale lo è.
Rispetto ai criteri di comportamento, troviamo che né piante o altri organismi quali funghi, li soddisfano, contrariamente a quanto accade nel caso degli animali. Nessuno di tali organismi manifesta gli schemi di comportamento che possiamo distinguere nel caso degli animali quando questi sono negativamente o positivamente influenzati. Questo può portarci a presumere che gli animali e non gli altri esseri viventi, posseggano la capacità alla quale ci stiamo riferendo. Solo loro sono capaci di sviluppare comportamenti complessi.
Malgrado questo, l’osservazione del comportamento non è determinante, in quanto ci potrebbero essere degli esseri che non esprimono un comportamento complesso ma che, tuttavia, possono avere esperienze. Per questo è necessario esaminare che succede nel caso del criterio fisiologico: da quello che succede rispetto a questo criterio, possiamo arrivare a conclusioni molto più significative e di fatto sembra che confermino quello che si è detto nel punto anteriore. Come già ho segnalato, noi animali siamo capaci di sperimentare sofferenza e piacere perchè abbiamo una struttura fisica localizzata nel nostro organismo che lo rende possibile. Quando questa base fisica non è presente o si trova in uno stato difettoso scompare la possibilità di avere tali esperienze. Sappiamo che questo può succeder se il nostro sistema nervoso è danneggiato o si danneggia. Sappiamo anche che se questo succede al nostro cervello possiamo perdere tutta la capacità di sperimentare qualsiasi cosa, senza tale base fisica, le esperienze positive o negative non possono avere luogo. Questo è quello che accade nel caso delle piante ( o altri esseri vivi come funghi, protisti, batteri, o arcobatteri) , questi organismi non hanno nessuna struttura fisica che gli dia la capacità di avere esperienze positive e negative. Non hanno nessuna struttura simile o assimilabile ad un cervello e sistema nervoso centralizzato degli animali. Inoltre, non è possibile trovare in loro qualsiasi altra base fisica analoga al sistema nervoso centralizzato che potesse svolgere il ruolo che svolge negli animali: mancano della struttura materiale che è necessaria per consentire che l’essere che lo possiede esperimenti ciò che gli succede. Se dopo tutto, proseguiamo definendo che le piante e altri organismi vivi possono avere tale capacità senza la presenza di una struttura fisica che lo renda possibile, saremo noi che dovremo dimostrare che questo è così. Se diciamo questo, cercaremo di affermare l’esistenza di un fenomeno B sopra la base di un fenomeno A, quando tutte le condizioni che abbiamo visto che risultano indispensabili perché sia dato il fenomeno A sono assenti. Non possiamo accettare questa idea a meno che non dimostriamo la validità della posizione mistica che consiste nel credere che l’esistenza di una base fisica non è necessaria perchè la coscienza esista (il che andrebbe contro tutte le prove disponibili).
Finalmente, nel caso della logica dell’evoluzione, le conclusione che possiamo dedurre vanno nello stesso senso: come detto prima l’esistenza delle esperienze positive e negative si basa sulla sua utilità. Le esperienze positive rafforzano quelle attitudini che promuovono la possibilità che i nostri geni persistano attraverso le nuove generazioni, mentre quelle negative inibiscono quelle che renderebbero più difficile tale trasmissione genetica. Tali strumenti non sarebbero stati sviluppati se non avessero avuto un fine, ad esempio, in un mondo in cui non esiste ciò che ci permette di avere l’esperienza dell’udito non ha senso che un individuo abbia tale senso. Nello stesso modo, il dolore e il piacere costituiscono meccanismi che determinati individui hanno per incoraggiare a ricercare o evitare ciò che provoca tali sensazioni, ad esempio, il dolore che sentiamo quando ci scottiamo col fuoco o con altre cose che scottano. Gli animali hanno generalmente la capacità di muoversi in modo che il possesso di esperienze positive o negative costituisca uno strumento eccellente per la loro sopravvivenza. Infatti, una pianta non può muoversi, quindi, se le piante soffrissero – per esempio, bruciandosi – sarebbe inutilmente, perché non possono fare nulla (gli animali possono sfuggire ad un incendio, gli alberi no). Il fatto che le piante soffrano avrebbe senso come se avessero le ali per volare nonostante la loro vita sia fissata alla terra rendendogli quindi impossibile prendere il volo e similmente sarebbe nel caso di altri esseri vivi come i funghi.
D’altra parte questo argomento non entra in gioco nel caso degli altri esseri vivi che non sono animali ma che comunque si muovono, come fanno tutta una serie di microrganismi. In questo caso la risposta da dare sarà che lasciando da parte le condizioni fisiologiche già osservate, si tratta di esseri la cui organizzazione è molto meno complessa di quella di esseri coscienti; come conseguenza, i loro comportamenti sono molto semplici, in modo da non necessitare nessun controllo di un meccanismo cosciente.
8. L’opposizione tra l’ecologismo e la difesa degli animali
Abbiamo visto le ragioni per le quali dobbiamo avere una considerazione morale totale degli animali senzienti. La novità di questa posizione fa che molta gente, non familiarizzata con l’argomento sopra esposto, possa pensare che questa è una posizione di carattere ecologista o somigliante a questa. Tuttavia questa è una grande confusione. Come vedremo, le due posizioni sono opposte sia per quanto riguarda i principi su cui si basano sia per le conseguenze che prevedono. Mentre i critici dello specismo si concentrano nella capacità di soffrire e provare piacere, gli studiosi di etica ambientale danno valore intrinseco alle specie2 o all’ecosistema congiunto, come succede nel caso della posizione denominata “olistica” –come ha sostenuto Callicott (1989)–3, o a tutti gli esseri viventi come si ha nella posizione “biocentrista” – che hanno difeso teorici come Goodpaster (1978) o Taylor (1986)–. Di seguito vedremo che abbiamo le ragioni per rifiutare tutte queste posizioni.
Abbiamo visto già sopra, che esistono argomenti forti per concludere che il criterio per essere rispettato deve essere la possibilità di avere esperienze positive o negative. Abbiamo verificato quindi che ci sono motivi per rifiutare l’idea che il mero fatto di essere vivo sia un fatto prezioso in se. Queste stesse ragioni sono quelle che portano al rifiuto del biocentrismo. Come abbiamo visto, questa posizione non appoggia su un criterio moralmente rilevante quando si parla di essere danneggiato o beneficiato e, in linea con questo, si presenta con presunti conflitti di interesse che sono di difficili trattamento e accettazione. Questo accade in tutti quei casi nei quali la possibilità che alcuni esseri vivano impedisce che altri lo facciano. Il rispetto per tutte le forme di vita porterà ad adottare soluzioni enormemente problematiche e per quelli che accettano gli altri criteri (come la necessità di rispettare gli esseri con la capacità di soffrire e provar piacere) risulteranno inaccettabili. Pensiamo a quello che accade nel caso del conflitto di interessi, in modo continuo, tra i microrganismi e altre forme di vita dotate della possibilità di provare benessere (come nel caso di malattie date da infezioni batteriche): una posizione biocentrica ci porterebbe per far pendere l’ago della bilancia verso un impero di batteri e altri microrganismi, a scapito di altre forme di vita. Dobbiamo ricordare che, se il criterio con cui ci orientiamo è quello di essere vivi, allora in questi casi di conflitto mancherà completamente un modello di scelta tra l’una e le altre vite. Se scegliamo di salvare la vita dell’animale, è che siamo guidati da altri principi diversi da quelli del semplice rispetto per la vita in quanto tale, in modo che, a rigor di termini, quello che stiamo facendo è adottare un diverso approccio. Non sarà un approccio biocentrista dato che non prenderà la vita come il criterio per la considerabilità morale, ma solo come una vita tra le altre, staremo quindi passando a sostenere una posizione di carattere pluralista, dove una vita è solo una in più tra le altre4.
Questo ci porta a un altro corollario del biocentrismo che risulterà difficilmente ammissibile: il fatto che ci nega il possesso della nostra stessa vita. Se una vita è qualcosa di valore per se stessa, al di fuori della capacità di provar piacere o sofferenza di chi la vive, allora il suo valore è indipendente dalla nostra opinione come essere che la stiamo vivendo. Il suicidio dovrà essere, così, condannato perchè si assume come forma di omicidio. Ugualmente potranno essere censurate tutte le pratiche che possono supponere un danno alla nostra vita (dal consumo di cibo poco salutare, alla pratica di sport estremi). Questa conclusione è enormemente controintuitiva, e il motivo è che suppone una non considerazione per i nostri interessi.
Per questa ragione, gli autori che in principio hanno simpatizzato con il biocentrismo hanno finito optando per una posizione distinta che combina il biocentrismo con una posizione antropocentrica, subordinandolo quindi a questa –si veda per esempio la posizione difesa da Attfield (1987, p. 57) o Wenz (1998, p. 291)–. Così, si stabilisce che si rispetti gli esseri viventi, eccetto quando si abbia un interesse umano minimamente significativo che possa essere frustrato da questo. Questa posizione dovrà essere rifiutata alla luce di quello che abbiamo visto nelle sezioni precedenti.
Del resto, ci sono ragioni anche per respingere gli approcci olistici. Per questo l’importante non è la soddisfazione degli interessi degli individui che vivono nella natura, ma la stabilità e la continuità dell’ecosistema nel quale questi vivono, e, similmente, quello che dovremmo vedere come un male non sarà il danno che soffrono gli animali, ma unicamente che si vedano influenzati gli ecosistemi o la conservazione delle specie.
Questo suppone che l’accettazione di questo metodo va ad avere conseguenze che, come nel caso del biocentrismo, vanno a essere molto difficili da accettare. Conforme a questa posizione, dovremmo pro,muovere il sacrificio in massa degli individui che vivono in un certo ecosistema (chiaramente, includendo noi stessi) quando questo va a beneficio della sua conservazione. Se questo risulta difficilmente accettabile nella misura in cui quelli influenzati siamo noi,possiamo difenderlo nel caso di altri animali solo se manteniamo un punto di vista specista.
Per questa ragione, la gran maggioranza dei teorici che dicono di sostenere una posizione olista procedono nello stesso modo dei così detti biocentristi, quello che realmente fanno è combinare l’olismo con un approccio specista che è quello a cui danno realmente la priorità –si veda per esempio lì approccio di Callicott (1990) o Varner (1991, p. 79)–. Non giustificano il sacrificio degli esseri umani per motivi ecologisti pero, giustificano quello degli animali non umani. Date le argomentazioni di cui sopra per respingere lo specismo visto, ne consegue che una tale posizione è inaccettabile5.
Di fatto, è interessante tenere in considerazione quello che succede se si abbandonano le inconsistenze o le subordinazioni allo specismo di questi principi: i casi in cui questo succede sono pochi, risultano eccezioni, però sono enormemente rappresentativi.
Si consideri la posizione che ha definito il teorico ecologista Linkola (2009), lui, al contrario della maggioranza dei teorici ambientalisti ha mantenuto una posizione consistente, centrata nei principi ambientalisti e non l’ha subordinata all’approcci antropocentrici. In linea con questo, si è vista con approvazione la morte in massa di esseri umani con fine ambientale: la maggioranza di noi rifiuta tale posizione, ma è importante tener presente che potremmo farlo solo dopo aver acquisito un punto di vista non specista, se rifiutiamo anche che gli animali non umani possano subire questa sorte per il bene de la conservazione di certe specie o equilibri ambientali.
9. Conseguenze pratiche i: abbandono dell’uso degli animali non umani
Quello che abbiamo visto dimostra che dobbiamo considerare moralmente e in modo completo gli animali non umani. Questo ha delle conseguenze molto importanti. E’ stato stimato che attualmente possono morire tra mille e tremila miliardi di animali ogni anno per mano umana, con il fine di soddisfare la domanda di tutta una serie di beni e servizi. La maggior parte di questi muore per essere consumato in ambito culinario-alimentare, per essere usato come cibo6. Molti altri muoiono per la produzione di vestiario, per testare prodotti o per altri esperimenti o per l’intrattenimento, nessuno di questi usi è realmente necessario7. E’ interessante notare qualcosa comunemente dimenticato: per gli stessi fini, per cui attualmente si utilizzano gli animali non umani, potremmo impiegare , gli esseri umani. Di fatto, così è successo nel passato in tutta una serie di casi (anche, se raramente, alcuni sono stati uccisi, come la maggior parte degli animali, per essere mangiati). Tuttavia, oggi, la maggior parte di noi considera questo ripugnante, nonostante quanto possa essere utile, non accetteremmo mai l’impiego degli esseri umani per tale uso. La questione, tuttavia, alla luce di quello che abbiamo visto fino a qui è che disponiamo di ragioni non solo per non mantenere questa abitudine nel caso degli esseri umani ma anche per gli altri animali senzienti.
Questo suppone che non possiamo continuare ad accettare l’uso degli animali non umani come risorsa, non si tratta solo di trattare gli animali che mangiamo in altro modo,in maniera più compassionevole, risparmiandoli un po’ di sofferenza. Se continuassimo in questa direzione, presteremmo una certa attenzione agli interessi degli animali ma continueremo tuttavia a discriminarli (nello stesso modo per cui, in passato, l’abolizione della schiavitù non costituì la fine di pratiche profondamente razziste). Gli argomenti che abbiamo visto sopra, mostrano che tale discriminazione non è accettabile, non può esserlo pertanto, neanche lo sfruttamento derivato da questa, anche se limiamo alcuno dei sui spigoli più dolorosi. Il problema della schiavitù infantile non si risolve semplicemente col migliorare le condizioni nelle quali i bambini sono schiavi, lo stesso è con l’uso degli animali non umani come schiavi al nostro servizio8.
Quindi dobbiamo assumere uno stile di vita che prescinde dall’uso di animali per abbigliamento, calzature, alimenti, intrattenimento e negli altri settori in cui oggi sono impiegati come risorse9.
10. Conseguenze pratiche ii: agire in favore degli animali non umani
Al punto precedente ho detto quanto sia importante il nostro modo di vivere se vogliamo smettere di danneggiare gli altri, in concreto, gli animali non umani, tuttavia, se si considera come agire nei confronti di questi ci sono anche altri aspetti che non dovremmo perdere di vista. Molti di noi pensano che tener in considerazione gli altri esseri umani, non significa solamente tentare di non danneggiarli, ma si assume anche che, quando aiutare gli altri per migliorare la situazione in cui si trovano è nelle nostre capacità, quello che dobbiamo fare non è disinteressarsi verso questi, ma agire in loro favore.
Ebbene, l’abbandono di un punto di vista specista richiede che questo comportamento non possa essere mantenuto esclusivamente per l’uomo, la sorte che patiscono gli animali non umani deve passare ad essere qualcosa che teniamo in considerazione anche se non di nostra diretta responsabilità. Quello che segue è che non solo dobbiamo fare a meno di servirci di loro come risorsa, ma dobbiamo anche essere attivi per avere una diminuzione degli attacchi e incidenti che subiscono – si veda sopra questo Nussbaum (2006).
11. La questione dei comportamenti in relazione agli animali che vivono in natura
Gli esseri umani intervengo in modo continuo sulla natura, a volte lo fanno per conseguire fini ambientalisti o ecologisti. Questo succede quando tali interventi tengono come fine la conservazione di una specie o di una varietà animale o vegetale in una zona determinata. Oppure, avviene quando si interviene con il fine di mantenere o ristabilire certe biocenosi o ecosistemi (vale a dire, cercando di ottenere alcune reti di relazioni tra gli esseri viventi in una determinata zona, o, se si preferisce esprimersi in altro modo, cercare di ottenere certi equilibri ambientali). Tuttavia, il proposito con il quale si interviene sulla natura è per soddisfare gli interessi umani. In realtà, quando questi sono messi in discussione si considerano comunemente prioritari sulle misure per la tutela ambientale (come si è visto nel caso della subordinazione dell’ olismo e del biocentrismo allo specismo antropocentrico).
Il rifiuto dello specismo implica il nostro passaggio a vedere questa questione da un punto di vista completamente diverso da quello che è abituale oggi. In molti casi gli interventi di carattere antropocentrico, e ecologista, suppone danneggiare significativamente gli animali non umani ( come quando si programma la morte di numerosi animali per conservare una certa specie). Questo fa, che da un punto di vista antispecista debbano essere rifiutati10.
D’altra parte, di fatto, gli animali non umani patiscono vari danni nell’ecosistema in cui vivono. In base a questo, e alla luce di tutto quello detto fino a questo punto, segue che, se può risultare legittimo intervenire sulla natura con fini antropocentrici e ecologisti, non ci sono ragioni (a meno che non si assuma una posizione specista) per negare la legittimità ad un intervento di questo tipo che abbia come fine quello di mitigare o eliminare alcuni dei danni di cui oggi sono vittime gli animali non umani. Questa idea risulta scioccante a prima vista per il fatto che comunemente abbiamo una visione idealizzata di quello che succede nella natura, visione che non ha assolutamente niente a che vedere con la realtà. Abitualmente si crede che gli animali vivano una vita felice nei suoi habitat naturali, in condizioni poco meno che paradisiache (in modo che qualsiasi azione volta a ridurre i danni che loro soffrono sembra assurdo). E’ vero che quando si inizia a riflettere con calma sul tema, scopriamo che ci sono molti modi in cui gli animali non umani subiscono gravi danni nel loro ambiente naturale. Sappiamo che in natura gli animali hanno malattie, fame, freddo o caldo, etc, sappiamo che in molti casi muoiono per questi motivi. Sappiamo anche che spesso sono vittima di parassiti che gli uccidono e sappiamo pure che molto spesso muoiono vittime di predatori. Tuttavia, tendiamo a credere che tutti questi sono danni minori che non cambiano realmente il quadro idilliaco sopra descritto, secondo il quale la felicità provata dagli animali nella natura supera enormemente le sofferenze che patiscono. Certamente non è mancato chi ha criticato seriamente la visione idilliaca della natura, indicando la sua falsità, come per esempio Darwin (2007 [1860]), Mill (1969 [1874]) o Dawkins (1995). Ma questo riconoscimento della realtà di ciò che accade in natura è stato ed è ancora chiaramente una minoranza.
In effetti, tale punto di vista è così largamente diffuso per il semplice fatto che non facciamo un rigoroso esame di ciò che è realmente la situazione in cui si trovano gli animali. Inoltre, il fatto è che quando pensiamo ad un animale selvaggio, non è raro che l’immagine che ci appare nella nostra testa sia quella di animali di grosse dimensioni quasi senza grandi predatori, come i leoni o gli elefanti. Quello che è più rilevante è che normalmente pensiamo agli adulti che tuttavia costituiscono una minoranza. La maggior parte degli animali senzienti che viene al mondo vivono una vita cortissima, che non ha molta felicità ma grandi sofferenze. Questo è dovuto perchè nella storia evolutiva la determinazione che certe forme di vita si estinguano e altre permangano e si sviluppino non è dovuta alla loro capacità di essere felici. E non è di per sé (contrariamente a quello che la gente pensa) che i suoi individui hanno più probabilità di sopravvivere. Al contrario, le forme di vita che si mantengono, lungo la storia evolutiva sono, semplicemente, quelle che hanno maggior successo al trasmettere il proprio materiale genetico alle generazioni future. Di seguito spiegherò le ragioni per le quali questo porta che la sofferenza e la morte superino in modo devastante la felicità e la vita –per uno sviluppo dettagliato di questo argomento si vedano i lavori di Ng (1995) e Dawrst (2009)–.
Le popolazioni delle distinte specie di animali raramente si mantengono stabili lungo il tempo11. A seconda del momento, diminuiscono o aumentano, quello che suppone a sua volta è che altre specie animali lo facciano di forma inversamente proporzionale. Possiamo considerare che questo suppone che la sofferenza e la morte esistenti in natura siano considerevolmente maggiori di quello che sarebbe in una condizione di stabilità, perchè implica che numerosi animali debbano morire in massa ( di fame, divorati da altri animali, o per altri motivi) quando una certa popolazione di animali diminuisce. Adesso, il fatto è che gli animali soffrirebbero questa sorte anche se ci fosse una condizione di stabilità; la ragione per cui questo accade è proprio che, in generale, è la sofferenza e la morte che prevalgono in natura e consiste in quanto segue. Perché ci sia una condizione di stabilità quello che deve succedere è che le popolazioni di animali, sebbene subiscano variazioni, tendano ad essere numericamente simili a medio termine, cioè, che il numero di individui adulti di ogni nuova generazione sia, in media, lo stesso del numero della generazione precedente. Perché questo possa essere così, la strategia riproduttiva più comune, che mette in pratica la maggior parte degli animali che esistono in natura, consiste nell’avere una progenie enormemente numerosa con un investimento molto ridotto nella sopravvivenza di ogni discendente. Quello che questo suppone è che di ogni progenie, solamente una minima parte sopravviverà, se consideriamo una situazione nella quale tutti gli individui adulti di una popolazione di animali raggiunge la riproduzione, quello che succede è che di tutte le uova che pongono o la prole che hanno, solo due individui, in media, sopravvivono. Tutti gli altri muoiono prima di arrivare ad essere adulti12. Di fatto, una grande parte di essi muore poco dopo aver iniziato a esistere e essere senziente. Questi animali muoiono tanto presto che non gli è praticamente possibile tenere alcuna esperienza positiva. Tuttavia, quello che hanno, sono esperienze di segno opposto. La loro morte è dovuta, nella maggior parte dei casi, alla fame o al diventare cibo di predatori o parassiti o altro che gli causa, chiaramente, un enorme sofferenza poiché esser divorato vivo come morire lentamente di fame è molto doloroso. Quello che questo suppone, in definitiva, è che nella vita di questi animali hai poco più che una enorme sofferenza. Questo, come abbiamo visto è la sorte che patiscono la maggior parte degli animali della maggior parte delle specie. Non dobbiamo perdere di vista che questa strategia riproduttiva si trova ampliamente estesa nei vertebrati come i pesci, anfibi e rettili, ma è importante anche in mammiferi e uccelli (si pensi al potenziale riproduttivo di animali come i topi o i conigli) e, soprattutto, è la generale per gli invertebrati, che costituiscono la immensa maggioranza degli animali che esistono.
Tutto questo ci porta a vedere come è equivocata l’idea che abbiamo degli animali che vivono in una natura idilliaca. Al contrario, nella sua gran maggioranza, vivono una vita terribile nella quale la sofferenza predomina sopra il benessere. Per tanto, la sostituzione degli attuali interventi sulla natura con fini antropocentrici o ecologisti, per altri orientati a la difesa degli animali non umani, non può essere rifiutata alludendo all’idea che in natura tutto, o quasi tutto, è benessere, poiché questa è falsa. Quello che succede è giusto il contrario: in natura la sofferenza predomina in modo travolgente.
In definitiva, quello che tutto questo porta a concludere è che effettivamente sarebbe auspicabile esaminare quale possibile forma di aiuto possiamo dare agli animali selvatici. Un numero crescente di autori ha dato indicazioni su questo, come per esempio Sapontzis (1984), Olivier (1993), Ng (1995), Bonnardel (1996), Cowen (2003), Fink (2005), Nussbaum (2006), Horta (2010b) e McMahan (2010a e 2010b). Gran parte di queste forme di aiuto a questi animali (anche se non tutte) si trovano completamente fuori da quello che può essere il nostro campo di azione al momento. Ciò nonostante, questo non deve impedirci di iniziare lo studio dei modi nei quali potremmo farlo nel futuro quando disporremmo dei mezzi necessari, e a lavorare perché tale futuro sia il meno lontano possibile. Soprattutto, iniziare a mettere in discussione lo specismo, che è quello che potrà ottenere in un momento futuro, che tutti questi aspetti possano essere presi seriamente in considerazione e esaminati.
12. Prendiamo sul serio il vivere in un modo coerente
Qui ho presentato una serie di idee che certamente possono risultare nuove, per esempio che lo specismo non risulta giustificabile, che i valori ecologisti, che non rispettano gli interessi degli animali lo siano ancora meno e che questo ci porta a che non sia giustificabile utilizzare gli animali non umani come risorse e che dobbiamo fare cose positive in loro aiuto.
Il fatto è che le idee nuove sono spesso oggetto di rifiuto per il mero fatto che sono, semplicemente, nuove e per il semplice fatto che abbiamo messo in discussione le credenze sopra esposte, che consideravamo evidenti, perché non abbiamo mai pensato si potessero mettere in discussione. Oppure, perché ci serve per giustificare pratiche con le quali ci troviamo bene. Come conseguenza di questo tendiamo a non porre attenzione o a disprezzare tutte le nuove idee. La questione, tuttavia, è che disprezzare una idea non significa ribatterla: le idee si ribattono o i sostengono apportando ragioni contro o a difesa e in questo caso, le ragioni, sono a favore delle idee nuove e contro lo specismo e tutte le sue implicazioni.
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Note
* Traduzione a cura di Michela Pettorali. Pubblicato originalmente in Rodríguez Carreño, Jimena (ed.), Animales no humanos entre animales humanos, Plaza y Valdés, Madrid, 2012, 191-226. Questo lavoro è stato realizzato nel contesto del progetto di investigazione “Bioethical Underpinnings for the Consideration of Practical Dilemmas concerning the Interest in Living” (exp. 2008-0423) con il finanziamento dil Ministerio de Ciencia e Innovación Spagnolo.
1 Una definizione un po ‘più tecnica potrebbe essere questa: specismo è la considerazione o il trattamento sfavorevole di coloro che non appartengono ad una determinata specie (o speci). Per una spiegazione più completa di questo si veda definizione Horta (2010a).
2 A volte si difendono combinazioni di queste differenti idee. Per esempio, Rolston (1988) ha sostenuto in forma combinata principi come la conservazione delle specie e degli ecosistemi con posizioni biocentriche, così come con approccio specista.
3 Un teorico citato spesso per la difesa dell’olismo è Leopold (1966 [1949]), anche se scrisse abbastanza prima che questa posizione si definisse come tale.
4 Una possibile risposta sarebbe affermare che il corpo di un animale malato è a sua volta composto da cellule vive che vanno ugualmente rispettate. Tuttavia, questo va a scontrarsi con quello che pensiamo per la maggior parte, poi, quello che normalmente avvaloriamo del fatto di star vivi non è la vita delle cellule che compongono il nostro organismo.
5 Dobbiamo dire che esistono anche altre posizioni che si inquadrano dentro l’ecologismo che sono di carattere marcatamente antropocentrico, che non considerano pienamente gli animali non umani e difendono la conservazione di quello che ci circonda per i distinti interessi per i quali gli esseri umani tengono a questo. Si veda per esempio Passmore (1980) o Hargrove (1992), questi, non combinano il loro antropocentrismo specista con nessuna altra scelta.
6 Secondo i dati della FAO (2010a), sono uccisi annualmente tra 55.000 e 60.000 milioni di mammiferi e uccelli per il consumo in tutto il mondo (la quantità aumenta ogni anno), i dati sui pesci e altri animali acquatici morti per tali scopi sono molto maggiori. Secondo i calcoli della FAO (2010b;2010c) salgono a 90 milioni di tonnellate di animali acquatici catturati in mari e fiumi e a 50 milioni di tonnellate di animali allevati in acquacoltura, è un compito difficile calcolare il numero totale di animali. Mood e Brooke (2010, p.9) hanno stimato che il numero di pesci catturati può oscillare tra 970 e 2.740 miliardi. Mood (2010) ha stimato che il numero di animali uccisi, allevati in acquacoltura può essere tra 6.400 a 110.000 milioni di animali . Tuttavia, questa cifra non include gli altri animali marini senzienti consumati abitualmente (come molluschi cefalopodi, crostacei e molti altri). Considerando che il peso sale a 13 milioni di tonnellate nei mari e nei fiumi ( FAO, 2010b) e 5 milioni di tonnellate per l’acquacoltura (FAO, 2010c), se supponiamo un peso medio dell’animale di circa 25-100 grammi, avremo una cifra totale (con un calcolo enormemente approssimativo) che va da 180.000 milioni a 720.000 milioni di animali. Così, possiamo concludere che una stima ragionevole è che la cifra totale di animali morti per essere usati come cibo è tra 1,2 e 3,5 miliardi ogni anno.
7 Non ci sono controindicazioni per l’abbandono del consumo di animali in termini di salute (di fatto, può invece beneficiare alla salute in vari modi, ma questo non è affatto rilevante per l’argomento che stiamo trattando). Un documento conclusivo in tal senso, in cui si afferma questa idea, è la posizione della American Dietetic Association rispetto alla dieta senza prodotti animali: vedi Craig e Mangels (2009).
8 A volte si sostiene che la morte degli animali non umani è giustificata sempre che la loro sofferenza sia ridotta al minimo indispensabile e che gli animali hanno interesse a non soffrire, non a vivere. Questa idea, tuttavia, è smentita se si considera il fatto che se abbiamo un interesse per la vita, non in ultimo perché ci pensiamo, ma semplicemente per il fatto che abbiamo la possibilità di provare piacere. La morte ci priva di future esperienze positive, questo è il motivo per il quale costituisce un male. Per questa ragione, presume un danno per gli animali non umani. Così, ragioni simili a quelle che portano a considerare il loro interesse a non soffrire portano anche a ritenere giusto il loro interesse a vivere. Sul danno costituito dalla morte, si veda per esempio Nagel (1970); McMahan (2002); Broome (2004).
9 Alla posizione consistente nel rifiuto di qualsiasi uso degli animali, si è dato il nome di veganismo. Un termine più conosciuto che veganismo è quello di vegetarianismo, ma questi due termini non devono essere confusi per due motivi. Il primo, è che la parola” vegetarianismo”si riferisce alla dieta, mentre veganismo implica l’abbandono di qualsiasi uso degli animali, non solo relativamente all’alimentazione. Il secondo, è che durante la storia si è distorto il termine di “vegetarianismo” fino al punto che oggi, si accetta che denoti solo il non consumo di prodotti carnei (di fatto, si utilizza molte volte l’espressione “ovolattovegetarianismo” che dovrebbe risultare assurda come se usassimo il termine “carnovegetarianismo” che denota l’abbandono di tutti i prodotti di origine animale eccetto la carne). Il modo in cui si dovrebbe comprendere il termine ‘vegetarianismo’, e che i difensori del veganismo dovrebbero rivendicare per evitare confusione, dovrebbe essere l’abbandono di tutti i prodotti di origine animale, senza eccezioni. Pertanto, se, in base a questo, usiamo il termine ‘vegetariano’ in senso stretto come ho indicato, una dieta vegetariana non può includere il consumo di latte, uova e altri prodotti animali. Nella misura in cui, si accetta l’impiego impreciso in massa del termine “vegetarianismo” e si accetta che sia compatibile con l’uso di prodotti provenienti dallo sfruttamento animale, come il latte o le uova, questo sarà un’ opzione insufficiente. Sarà un’opzione che sarà utile superare poiché comprenderà il proseguimento dello sfruttamento degli animali non umani. Se, al contrario, il senso confuso della parola “vegetarianismo” è lasciato alle spalle e passiamo a comprendere che la sua pratica, deve realmente denotare l’abbandono del consumo di tutti gli alimenti di origine animale, allora, sarà la parte del veganismo relativa alla dieta. Sopra questo argomento si veda Felipe (2009).
10 Questo può avvenire in diversi modi, sia perché danneggia direttamente gli animali – si veda su questo Shelton (2004)– sia perché, intervenendo in natura con fini ambientalisti, si provoca danno in forma più indiretta – si veda Horta (2010b)–.
11 Una critica alle posizioni ambientaliste che indicano questo punto, si può trovare in Shelton (2004).
12 Questa strategia riceve il nome di “selezione r”. Il motivo di questa denominazione è che nella dinamica di popolazione, si utilizza la seguente equazione differenziale per considerare le variazioni che una popolazione può avere: dN/dt=rN(1-N/K), dove N è la popolazione originale, dN/dt è il cambio nella popolazione di animali lungo un certo periodo t, r il tasso di natalità e K la capacità di carica dell’ecosistema nel quale si trova tale popolazione (che è quello che determina il tasso di sopravvivenza degli individui che nascono). La maggior parte degli animali ha come strategia riproduttiva quella di massimizzare r, con il costo di minimizzare K, cioè, massimizzano il numero di prole al costo di minimizzare la percentuale di sopravvivenza entro la stessa. Le relativamente poche specie che optano per investire nella sopravvivenza della prole (minimizzando il numero di questa) segue una strategia di selezione che si chiama “selezione K”. Sopra questo si veda, per esempio, MacArthur & Wilson (1976) o Pianka (1970).