Specismo e femminismo
Domanda dal Breviario.
Perché alcuni sostengono che la liberazione animale abbia a che fare con il femminismo?
Ci sono diversi aspetti per cui la violenza materiale e culturale sulle donne si intreccia con lo sfruttamento degli animali non-umani. È noto come tutte le forme di discriminazione tra esseri umani venga preferibilmente formulata in termini di “animalizzazione” dell’altro: cioè, sulla base della distinzione gerarchica tra umano e non-umano, tutti i soggetti che socialmente occupano una posizione inferiore rispetto ai soggetti dominanti, subiscono una degradazione simbolica e vengono considerati quasi-umani, sub-umani o esplicitamente animali.
Ciò è evidente nel caso della xenofobia che, fin dal tempo degli antichi greci, faceva considerare le altre etnie incapaci di parlare in modo proprio (è il significato originario del termine “barbaro”) o di controllarsi in modo razionale (vedi i comportamenti “bestiali” che ancora oggi i media attribuiscono ai migranti). Ma anche nel caso del sessismo e della discriminazione di genere è accaduto qualcosa di simile: sempre i greci consideravano la donna un essere non pienamente razionale (una forma di maschio “mancato”), più legata all’istinto e alla natura animale rispetto al maschio. Anche in questo caso, alcune differenze reali tra i sessi venivano (e vengono) usate per marchiare il corpo della donna con il sigillo della “inferiorità”: così le mestruazioni dovrebbero mostrare questo maggior “legame” della donna alla natura (mentre il maschio si auto-rappresenta come essere “spirituale”, sganciato dalla fisicità); oppure la sensibilità femminile, la capacità empatica, la cura ecc. vengono considerate dei “difetti” invece che delle qualità, un eccesso di emotività che impedisce alla donna di essere pienamente razionale e, dunque, pienamente umana, poiché la tradizione patriarcale identifica l’umano con i tratti caratteristici del maschio (la contrapposizione mente-corpo, la maggiore importanza attribuita ad una razionalità sganciata dall’emotività, l’aggressività competitiva contrapposta alla capacità di ascolto e di immedesimazione con l’altro ecc.). Non è un caso che la prima formulazione dei “diritti animali” fu elaborata in modo sarcastico dal filosofo inglese Thomas Tylor nel 1792 come risposta alla richiesta di diritti per le donne da parte di Mary Wollstonecraft: se concediamo diritti alle donne, sosteneva Tylor, perché non farlo anche con gli animali?
Questo legame simbolico tra sfruttamento animale e discriminazione femminile viene poi evidenziato oggi dal modo in cui il linguaggio patriarcale pensa la donna. La femminista americana Carol J. Adams ha mostrato quanto spesso il linguaggio (non solo pubblicitario) tenda a rappresentare la donna in forma di pezzi di “carne”: la donna è spesso desiderata dal maschio non come una persona ma come un insieme di particolari che possono soddisfarne il piacere. Inversamente, la cultura patriarcale si è spesso accompagnata ad una cultura della carne intesa come trofeo ideale per il maschio dominante: simbolo che ne rinforza il potere. Già nelle società di cacciatori-raccoglitori in cui la divisione tra i generi si è sviluppata più nettamente, questo predominio del maschio si costruisce proprio sulla re-distribuzione della carne che viene fatta dopo la caccia, redistribuzione in cui al maschio spetta ovviamente la parte maggiore della preda.
Infine, si può ricordare come l’allevamento sorga proprio controllando la funzione riproduttiva degli animali non-umani e come la “cultura del latte” costituisca uno sfruttamento feroce delle caratteristiche “materne” della specie bovina.
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[…] che tende a giustificare forme di sfruttamento in maniera simile al discorso fatto per le donne (emotività/ interesse per gli animali- immagine uomo forte associata alla carne). Il dibattito è poi proseguito ed è stato arricchito da prospettive che tendono a sottolineare […]
e’ tristissimo ammetterlo , ma… e’ proprio—- purtroppo—- ancora cosi’