Lacrime
di Leonardo Caffo
Sono dentro la cattedrale della vita e, che tutto continui così, è la tragedia. Tutto fuori incessantemente brucia. Dopo Auschwitz – dicono – scrivere una poesia è un atto di barbarie. Anche un romanzo, credo io. Dunque sono entrato in crisi. La tragedia non mi lascia più il tempo di pensare, ha riempito incessantemente i miei pensieri, la mia esistenza. Eppure una volta scrivevo, scrivevo tanto e senza fatica. La commistione inenarrabile tra ecologia e potere ha letteralmente massacrato la mia voglia di raccontare. Perché raccontare se nessuno vuole ascoltare? L’etica è innanzitutto e perlopiù l’orrore autentico per questa realtà, un rifiuto totale di questa realtà. Ho cercato, nel corso degli anni, di denunciarne alcuni aspetti ma il rifiuto parziale è stato una sottomissione a ciò che contestavo. Sono giunto al punto di massima distanza tra me stesso e l’altro da me stesso e devo risanare, senza indugi, questa rottura che martella sul ciglio del mio cuore, o su ciò che resta di esso. Dicono che oggi lo scrittore abbia perso l’ancoraggio al sociale e che abbia smesso di criticarlo. L’ottocento era il secolo della critica, dei grandi romanzi distopici che descrivevano per metafore le situazioni angosciose e di dominio. Chi critica agli scrittori odierni un disinteresse al sociale, non ha capito che le metafore angosciose ottocentesche oggi si sono avverate. Troppo, e troppo a lungo abbiamo sperato nel miracolo, ma la morte di Dio s’è portata via tutte le speranze, le carezze di un’esistenza autentica e rappresentativa della natura. La cultura si è fatta altro dalla natura, ed io mi sono separato dagli animali. Lo scrittore di oggi non riesce più a distendersi in mezzo a loro, per loro e soltanto per loro Auschwitz è ancora qui, e la poesia si allontana sempre più inesorabile. Ma andiamo per ordine, o almeno proviamoci. Scrivo questa storia perché non riesco più a scrivere. Non è un paradosso, è una constatazione. Tutti i romanzi, le autofiction, le poesie . . . Tutto è andato perduto, perso per sempre. Mi sono dimenticato di ogni cosa, ed ogni cosa – prima illuminata – si è spenta inesorabile di fronte allo sguardo inerte della mia solitudine. Ho deciso di raccontare ciò che non mi faceva raccontare più nulla perché, in fondo, era l’unica cosa che avevo da raccontare. Anche il silenzio è una forma espressiva e questa è opera muta. Tutto ha inizio nel sentiero della lettura quando, come per caso, nel mercatino dei libri usati sotto casa mi sono imbattuto in un libretto piccolino di Rozalia Luksemburg, teorica del socialismo. Il libretto in questione era Un po’ di compassione, ma mi aspettavo tutt’altro dalla lettura che mi accingevo a fare. L’orrore per la trucidazione di quel bufalo, e tutte quelle lacrime. La disarmante natura dell’empatia per l’altro animale, per ciò che mostruosamente si rivela come simile proprio nel suo differire. Ricordo le lacrime della Luksemburg mischiarsi con le mie, avvolgermi nella vergogna desolante di non aver mai visto, o voluto vedere. Ricordo il ritorno di Auschwitz, e la fine di tutta la mia poesia. La desolazione per averne scritte ancora, l’impossibilità di comunicare attraverso le parole le grida inerti di quel bufalo. Un bufalo che urlava per tutti gli altri, per quelli che nascono e nasceranno, per tutti gli animali che selezioniamo e distruggiamo. La fine della pace era arrivata anche per me, il momento della desolazione e la fine della scrittura. Come abbiamo potuto essere così ciechi, perché non abbiamo voluto capire? Il suono martellante di queste domande colonizzava i miei pensieri. Tutto si faceva labile, il frigo si svuotava di corpi di madri e di padri offesi e si riempiva di bottiglie di lacrime, perché altro non volevo vedere. Nient’altro che lacrime. La fatica nel riaprire quell’ armadio, e nel vederli lì. Appesi uno accanto all’altro, un simulacro delle loro pelli per avvolgermi d’inverno. Come potevo uscire di casa, come potevo non vergognarmi tra le vie dell’Isola di una Milano così civile. Poi, la realtà. La realizzazione. Nessuno poteva spingermi alla vergogna fuorché me stesso, tutto fuori brucia e nessuno sa; ero salvo. Potevo continuare a vivere su questa terra senza il bollore autentico della vergogna. Non andò così. La vergogna cominciò ad aumentare lo stesso, le palpebre non si chiusero più, dicono. Iniziai a vergognarmi guardandomi allo specchio, o cercando di dormire. Iniziai a piangere cercando di scrivere, non volevo più farlo. Non potevo più farlo. L’Isola, e la Milano degli artisti da strada, cominciò a non essere più così civile come pensavo. Adesso ero io a vergognarmi per loro passeggiando per le vie uncinate vicino ai pub in cui, macellerie etniche e nostrane si snodano tra pelliccerie e manifesti del circo degli animali. Ogni cosa era sporca di sangue e le mie mani, anch’esse sporche e putride, poco potevano fare se non asciugare le lacrime. No, non le mie stavolta. Le loro, soltanto le loro a cui avevo prestavo gli occhi. Prestare gli occhi per piangere, questo possiamo fare. Iniziò così – per me – con quella consapevolezza la fine di un’epoca e
il non inizio di un’altra. Tutto cominciò ad assumere una forma diversa. Niente più cene con i vecchi amici, niente più partitelle a calcio con il figlio del macellaio Aldo, e niente più apparizioni in pubblico prima di aver interiorizzato il dolore. Tuttavia, interiorizzare un dolore altro è davvero impossibile. Il mio cuore non poteva reggere tutto quello, rischiava incessantemente di spaccarsi. Tutte le urla, le morti e le mortificazioni non potevano entrarmi dentro come una folgore impazzita. Avevo bisogno di cominciare a sperare; sperare per continuare a scrivere. Cominciai allora a setacciare il web in ogni sua parte, ogni pagina che potesse farmi intravedere la luce venne spulciata da cima affondo. Proprio lì, in quella ricerca spasmodica, iniziai a incontrare loro, gli animalisti o, come amano definirsi, gli antispecisti. La serenità nei loro occhi era palese, la mia disperazione si trovò confusa di fronte a tanta pace. Loro sapevano, sapevano eppure continuavano a vivere. Come si può vivere sapendo che tutto è basato sulla morte continua, mi chiesi. Poi capii, loro sapevano ma non potevano demordere. Sapevano e volevano lottare ed io, a piccole dosi, cominciai a lottare con loro. Mi ricordo di L. che mi raccontò la sua storia, mi regalò i suoi libri e mi descrisse l’inizio di quella che, anche per lui, era stata una profonda ed inenarrabile vergogna. Anche A. e M. e poi anche F. Tutti loro si erano profondamente vergognati ma poi avevano capito che dovevano provarci. Loro avevano lasciato agli animali la possibilità di rispondere, e questi avevano cominciato a raccontare le proprie storie. I libri, mi dissero gli animalisti, non li scrivono gli autori ma gli animali. “Noi lasciamo che ci dettino tutto, poi trascriviamo”. A quel punto capì, da scrittore di successo quale ero stato, che dovevo anche io cominciare ad origliare dalle porte dei mattatoi, dei laboratori di vivisezione e dei circhi. Dovevo visitare Auschwitz ed uscire dalla cattedrale della vita. Solo così cominciai a rivedere le poesie.
[Racconto pubblicato in in I. Pecikar (a cura di) Suspense Tale, pp. 126 – 130, Edizioni R.E.I, Torino, 2011, ISBN
978-88-97362-17-3]
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intenso e, qualcuno potrebbe voler aggiungere, basato su una “storia vera”. Ma a me interessa sapere se dice o no una verità. E la dice 🙂
Io mi chiedo quanto autobiografico, e mi incuriosisce.Mi piacerebbe che lo fosse.
Bravo in ogni modo