La fuga dalla natura di Erich Fromm

di Marco Maurizi

La Scuola di Francoforte ha rappresentato un caso unico nel panorama del pensiero novecentesco. Si è trattato di un enorme lavoro collettivo di ricostruzione del pensiero critico che muoveva tanto dalla tradizione filosofica (Kant, Schopenhauer, Hegel, Marx), quanto dai contributi delle emergenti scienze sociali (Weber, Durkheim) e della psicanalisi. Rinchiudere, infatti, il pensiero di Adorno, Horkheimer o Marcuse sotto l’etichetta di “marxismo occidentale” o di “marxismo francofortese” è, per quanto comodo, assolutamente erroneo. Il “marxismo” di cui i francofortesi si avvalsero nelle loro analisi era, da un punto di vista strettamente teorico, del tutto ortodosso e fedele al pensiero di Marx: un’analisi della società capitalista come fondata essenzialmente e strutturalmente sulla divisione tra capitale e lavoro, la convinzione che le contraddizioni insite in tale modo di produzione non potessero che risolversi con la dissoluzione di tale opposizione e la costruzione di una società senza classi. I francofortesi erano però consci che la realtà sociale che si trovavano innanzi – dopo la I Guerra Mondiale, l’involuzione burocratica dell’URSS e l’insorgere della violenza fascista – necessitava di ulteriori strumenti di analisi e dunque inserirono le categorie marxiane in una costellazione di temi e problemi che va sotto il nome di “Teoria Critica della società”.

È però a partire dalla II Guerra Mondiale che essi compirono il profondo cambiamento di paradigma che ha reso unica e insuperata la sociologia francofortese: la critica della civiltà e del dominio sulla natura che sta al cuore dell’opera più discussa e criticata della Scuola di Francoforte, cioè la Dialettica dell’illuminismo. Non si sottolineerà mai abbastanza la centralità di quest’opera – o, meglio, della sua prospettiva di fondo – per la comprensione del pensiero di Adorno, Horkheimer e Marcuse: è il riconoscimento della dialettica della civiltà a fornire unità e coerenza al loro pensiero, ponendolo realmente al di là di un semplice aggregato di elementi e influenze diverse. Senza comprendere il meccanismo di alienazione dalla natura che sta alla base della civiltà ed ammettere la possibilità di una “riconciliazione” con essa, la costellazione di pensiero francofortese viene totalmente fraintesa (e probabilmente non è un caso che ciò sia accaduto regolarmente negli ultimi cinquant’anni). Questo assunto è talmente vero che possiamo sincerarcene e contrario. Possiamo cioè farci un’idea di cosa sarebbe il pensiero francofortese senza il riferimento all’idea di conciliazione della natura guardando all’opera di un pensatore che ha orbitato attorno all’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte ma che ha rifiutato la Dialettica dell’illuminismo: Erich Fromm.

Nel 1941, proprio quando Adorno e Horkheimer ultimavano il lavoro sull’illuminismo, Erich Fromm, dava alle stampe Fuga dalla libertà. Quest’opera segna il definitivo distacco di Fromm dall’Istituto per la Ricerca Sociale ed egli proseguirà autonomamente la propria carriera intellettuale in America. Il parallelismo tra le due opere è a prima vista evidente: entrambe costituiscono delle genealogie del nazismo, ovvero dei tentativi di interpretare quest’ultimo non come un “incidente di percorso” storico o il frutto della follia di pochi individui quanto come sintomo di un problema che attiene strutturalmente alla civiltà, un distorto tentativo di sanare una contraddizione insita in essa. Diversa, profondamente diversa, è però l’ottica che guida queste due analisi e, come diremo, il punto nevralgico di questa diversità sta (anche) nell’analisi del rapporto con la natura non umana.

L’analisi di Fromm è incentrata su una teoria dialettica dei concetti di individuo e di libertà. Questi due fenomeni, sostiene Fromm, sono strettamente connessi sia in senso ontogenetico che filogenetico. Il bambino raggiunge l’individualità, cioè si impone come una forza autonoma[1], quanto più riesce ad emanciparsi dal contesto familiare che lo genera ma che, a lungo andare, costituisce un limite alla sua capacità espansiva ed autoformativa. D’altro canto, lo scioglimento di questi legami fa sorgere il problema della solitudine e la necessità di instaurare un rapporto equilibrato con l’altro:

Se ad ogni passo compiuto in direzione della separazione e dell’individuazione corrispondesse un’eguale crescita dell’io, lo sviluppo del bambino sarebbe armonioso. Ma questo non accade…Lo sfasamento tra queste due tendenze dà luogo ad un intollerabile sentimento di isolamento e di impotenza e questo a sua volta conduce a quei meccanismi psichici che più avanti vegono definiti meccanismi di fuga.[2]

 In altri termini, l’esperienza dolorosa della libertà fa sorgere “impulsi a rinunciare alla propria individualità, a superare il sentimento di solitudine e di impotenza sommergendosi completamente nel mondo esterno”.[3] Tali impulsi trovano soddisfazione nei meccanismi di fuga dalla libertà che Fromm chiama “autoritarismo”, “distruttività” e “conformismo da automi.”[4] Essi torneranno centrali per capire l’adesione di massa a regimi totalitari.

Secondo Fromm, infatti, il processo di autonomizzazione del bambino ha un corrispettivo storico nell’emancipazione della specie umana dalla natura e dalle società organiche di tipo tradizionale.

Nel primo caso si tratta del lungo tirocinio evolutivo di superamento e controllo cosciente del comportamento istintuale, dell’affrancamento cioè da forme automatiche di rapporto con l’ambiente che Fromm considera animali e, dunque, non propriamente umane: “l’esistenza umana”, scrive Fromm, “comincia quando al di là di un certo punto gli istinti non sono ancora in grado di determinare l’azione; quando l’adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo…In altre parole sin dall’inizio l’esistenza umana e la libertà sono inseparabili“.[5]

Nel secondo caso, si tratta della rottura dei legami mistici che legano l’individuo non solo alla natura ma anche al suo gruppo sociale:

 Questi legami primari bloccano il suo pieno sviluppo umano; impediscono lo sviluppo della sua ragione e delle sue facoltà critiche; gli consentono di riconoscere sé e gli altri soltanto attraverso la sua, o la loro, appartenenza ad un clan, a una comunità sociale o religiosa, e non in quanto esseri umani; in altre parole bloccano il suo sviluppo in quanto individuo libero, autonomo produttivo. Ma c’è anche un altro aspetto. Questa identità con la natura, il clan, la religione, dà sicurezza all’individuo. Egli “appartiene”, ha radici in un tutto strutturato, in cui occupa un posto indiscusso. Può soffrire per la fame o per l’oppressione, ma non soffre di quella pena che è la peggiore di tutte, la solitudine completa e il dubbio.[6]

Ecco che si instaura, anche a livello sociale e storico, una dialettica tra individualità, libertà e meccanismi di fuga:

Se il processo dello sviluppo dell’umanità fosse stato armonioso…allora i due aspetti dello sviluppo – la forza e l’individuazione – si sarebbero sviluppati in modo assolutamente parallelo. Invece la storia dell’umanità è una storia di conflitti e lotte. Ogni passo verso una maggiore individuazione minaccia nuove insicurezze. I legami primari, una volta che siano stati recisi, non possono più venir ristabiliti…C’è una sola possibile soluzione produttiva per il rapporto dell’uomo individualizzato con il mondo: la sua attiva solidarietà con tutti gli uomini e la sua spontanea attività, l’amore e il lavoro che lo riuniscono di nuovo al mondo, non mediante legami primari, ma come individuo libero e indipendente.[7]

 Da quanto è stato detto prima, sarà evidente come la soluzione proposta a Fromm, cioè la necessità di instaurare un “rapporto spontaneo tra l’uomo e la natura“, non possa che essere di tipo antropocentrico: la natura è qui sempre vista come oggetto di sfruttamento. Le “eminenti espressioni” di tale tipo di rapporto, scrive infatti Fromm, “sono l’amore e l’attività produttiva” da riferirsi rispettivamente all’uomo e alla natura. L’amore, cioè, è un tipo di rapporto che lega esclusivamente gli uomini tra di loro. L’unico rapporto che può instaurarsi tra uomo e natura è quello lavorativo e il fatto che Fromm non parli esplicitamente della natura come “oggetto di sfruttamento”, ma solo come “oggetto di attività produttiva” è ovvia conseguenza del fatto che non è possibile “sfruttare” ciò cui si nega lo status di soggetto:

Nell’animale c’è un’ininterrotta catena di reazioni che partono da uno stimolo, come la fame, e sfociano in una linea di condotta più o meno rigidamente determinata, che elimina la tensione creta dallo stimolo. Nell’uomo questa catena è interrotta. Lo stimolo c’è, ma il genere di soddisfazione è ‘aperto’, cioè egli deve scegliere tra diverse linee di condotta. Invece di un’azione istintiva predeterminata, l’uomo deve soppesare nella mente le linee di condotta possibili: deve pensare…Inventa strumenti, e nel dominare così la natura si separa sempre più da questa. Comincia ad avvertire che né lui né il suo gruppo coincidono con la natura. Gli spunta nella mente il pensiero che il suo è un tragico destino: far parte della natura, e pur trascenderla.[8]

 Dinnanzi al dominatore umano, quindi, l’animale deve mostrarsi doppiamente schiavo: dei propri istinti e della sua forza.  Non c’è traccia in Fuga dalla libertà della tragedia che subisce invece la natura non umana a causa della civiltà. Meno che mai dell’altra formidabile intuizione di Adorno e Horkheimer: il tragico destino dell’uomo è quello di non riuscire veramente a trascendere la logica della violenza e dell’appropriazione e, dunque, di non trascendere affatto la natura. L’uomo non interrompe la catena della sopraffazione e la sua libertà è sinonimo di schiavitù per l’animale.


[1] E. Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 1987, p. 33.

[2] Ibid., p. 34.

[3] Ibid., p. 33.

[4] Ibid., pp. 117 e sgg.

[5] Ibid., p. 35.

[6] Ibid., p. 37 (trad. mod.).

[7] Ibid., p. 38.

[8] Ibid., p. 36.

Comments
One Response to “La fuga dalla natura di Erich Fromm”
  1. pasquale75321 ha detto:

    “unica e INSUPERATA la sociologia francofortese: la critica della civiltà e del dominio sulla natura che sta al cuore dell’opera più discussa e criticata della Scuola di Francoforte, cioè la Dialettica dell’illuminismo.”

    …e pensare che quando scriivevo la stessa cosa una ventina di anni fa pensavo di essere un matto… ora che scrivi la stessa cosa mi fai sentire 🙂 un sangiovannibbattista