Antispecismo, veganismo, vegefobia: riflessioni, nuovi traguardi ed alcuni chiarimenti

di Rita Ciatti
Una delle maniere più disoneste di condurre una discussione è quella di spostare l’attenzione dall’oggetto della stessa alle qualità individuali degli interlocutori, rivolgendo accuse di tipo personale, denigrando i soggetti che propugnano una tesi al fine di confutare la stessa.
Questo fastidioso, irritante atteggiamento lo vedo spesso applicare dai detrattori dell’antispecismo per depotenziare – se consapevolmente o meno, non saprei – l’argomento dello sfruttamento degli animali. Così su Facebook nascono pagine che si accaniscono contro i sostenitori della liberazione animale, colme di offese, di riferimenti ed aneddoti personali estrapolati in maniera tendenziosa dal loro contesto originario al fine di farci apparire come dei pazzi esaltati estremisti intolleranti. Ormai non saprei nemmeno più quantificare il numero di volte che ho sentito o letto: “ah, io gli animalisti non li sopporto proprio, sono delle persone fanatiche, esagerate ecc.ecc.“. Per non parlare degli sguardi di disapprovazione o dei risolini di scherno – più o meno velati – che ci vengono rivolti nelle varie situazioni di tipo sociale (cene, pranzi, aperitivi, feste ecc.) al solo sentirci pronunciare la frase “no, grazie, io non mangio carne, sono vegano (o vegetariano)“, situazioni in cui sovente sbocciano lunghissime discussioni in cui, facendo apparire noi come esaltati, estremisti, esagerati, si mira allo scopo di ridicolizzare e criticare la nostra scelta. Si finisce così con lo spostare l’attenzione dal vero tema dell’antispecismo, che è la liberazione degli animali dal dominio dell’uomo – ma anche dell’uomo dall’uomo – a noi stessi, che di tale lotta ci facciamo promotori. Non solo, spesso in queste discussioni della sofferenza degli animali non si parla affatto, si finisce quasi col rimuoverla, col tacerla, tutti presi come sono gli uni – i detrattori – nell’attaccarci, e gli altri – noi –  nel difenderci dalle accuse che ci vengono rivolte.
Ci chiamano “patosensibili” perché saremmo troppo coinvolti dalla sofferenza degli animali, troppo empatici, troppo sentimentali, come se esistesse una quantificazione standard dell’empatia e dell’amore, un misuratore ufficiale del sentimento volto a stabilire fino a quanto esso debba ritenersi nella norma e quanto, superato tale confine immaginario, sconfini nella patologia; ed il bello è che per tante persone questo limite, questo confine sarebbe dato proprio dalla specie verso cui si presta attenzione e cure: se si fa l’elemosina ad un barbone va bene, è gesto considerato socialmente accettabile ed anzi auspicabile, mentre se si porta da mangiare ad un gattino randagio è gesto da folli, irrazionale, nella migliore delle ipotesi, una perdita di tempo. Altri ci chiamano invece – in totale ribaltamento di prospettiva – sadici, intolleranti, fanatici, nazisti, insensibili, nemici della specie umana perché, a loro dire, preferiremmo gli animali ai membri della nostra specie. Innanzitutto trovo davvero curiosa questa doppia prospettiva: che si decidano, almeno!: o siamo patosensibili, o siamo insensibili, non possiamo essere tutti e due le cose a seconda di come faccia più comodo all’interlocutore di turno.
Comunque sia, tutto ciò non ha nulla a che vedere con il vero argomento che si vorrebbe trattare, ossia lo sfruttamento degli animali e quindi, il desiderio della sua fine, in una battaglia volta alla liberazione animale, ma anche umana. Questo significa propugnare la tesi dell’antispecismo.
E non dovrebbe importare chi siamo noi, se insensibili o patosensibili, se estremisti o persone misurate, se antipatici o simpatici, quello che importa è solo la liberazione animale. Essa, come tale, può essere solo totale, non parziale.
Anziché rispondere per le rime nel tentativo di difenderci dall’interlocutore di turno che ci denigra, offende, sbeffeggia, dovremmo invece sforzarci di riportare la discussione sul vero oggetto della stessa: ossia lo sfruttamento degli animali e la sofferenza che esso procura loro. Purtroppo non è facile in certi frangenti mantenersi lucidi, ma invece è importantissimo cercare di non cadere in questo tranello dialettico. Ricordo la spiacevole discussione che ha avuto luogo tempo fa sul blog Minima et Moralia in cui molti antispecisti si sono dovuti difendere dall’accusa di non sapere bene come si svolge una corrida, mentre la questione della violenza praticata sul toro – vero argomento delle nostre opposizioni – è passata in secondo piano. Tranello in cui, ahimé, sono caduta anche io. In maniera tendenziosa in quell’articolo contro l’antispecismo c’è stato un attacco ben mirato (e sleale, con frasi estrapolate dai loro originari contesti) contro gli antispecisti, con conseguente depotenziamento delle nostre istanze, ossia, in sostanza, con conseguente depotenziamento dell’antispecismo stesso. Mai, dico, con il senno di poi, avremmo dovuto farci trascinare in una discussione ad personam.
Questi atteggiamenti ed accuse ad personam sono, ahimé, piuttosto frequenti, tanto che si è cominciato a parlare di “vegefobia”: ossia atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei confronti di chi sceglie di tirarsi fuori dal sistema dello sfruttamento animale ed indirizza in questo senso le proprie scelte (alimentari, di vestiario ecc.), divenendo vegetariano o vegano.
Mi ha fatto molto riflettere la discussione nata in seguito all’articolo “Teriofobia“, scritto da Marco Maurizi. Nei commenti, giustamente, alcuni (tra cui lo stesso Maurizi) fanno notare come il termine “vegefobia”, indicando atteggiamenti discriminatori nei confronti dei vegetariani/vegani, sia inappropriato e possa dare adito a fraintendimenti sociali perché tenderebbe appunto a focalizzare l’attenzione sul soggetto uomo, che compie una scelta individuale, e non sugli animali, per i quali invece si adopera: come se la scelta vegana fosse in sostanza una mera scelta di uno stile di vita – e come tale quindi individuale, condivisibile o meno – ma che lascerebbe inalterata la base socio-economica dello sfruttamento animale (rimanendo il boicottaggio di determinati prodotti animali al di sotto della soglia numerica oltre la quale si potrebbero verificare un sostanziale mutamento socioeconomico).
Inoltre, si può davvero parlare di discriminazione per il solo fatto che nel nostro quotidiano troviamo molti ostacoli, tra cui anche la difficoltà di reperire prodotti vegani nei comuni supermercati o di trovare menù vegani nei ristoranti, nelle mense pubbliche, nei bar ecc.? Ed il sarcasmo, le continue derisioni e sbeffeggiamenti cui siamo continuamente sottoposti possono considerarsi una forma di molestia o atteggiamento persecutorio?
Certo, sono comportamenti che feriscono sotto il profilo psicologico e che potrebbero giungere persino a minare le convinzioni di chi in realtà vorrebbe diventare vegano e lottare per la liberazione animale, ma ha bisogno di approvazione sociale e non sopporterebbe di sentirsi messo in “minoranza”. Purtroppo tanti giovani trovano resistenza anche nelle stesse famiglie in cui vivono: genitori che si oppongono alla loro scelta di diventare vegetariani, che li ostacolano (proprio per ignoranza, ossia perché pensano che una dieta priva di animali e derivati non sia sana), fiaccando la loro motivazione. Esiste anche una difficoltà oggettiva nel trovare piatti veg in circostanze sociali, menù veg nei ristoranti (specialmente in Italia comunque, in Inghilterra invece ogni ristorante ha anche un suo menù veg, ed ogni piatto veg è contrassegnato da un pallino o stella verde; inoltre è sempre specificato se vegetariano o vegano; così come, sempre in Inghilterra, è facile trovare numerosi prodotti vegani anche nei supermercati comuni).
Quindi esiste di fatto una cultura specista – amplificata, conferma e rafforzata poi da una costante e martellante propaganda mediatica – contro la quale ci sentiamo spesso inermi e che mira constantemente ad indebolire, negare, ridicolizzare le nostre lotte e richieste, ma forse, parlare di discriminazione è in effetti esagerato, o quantomeno fuorviante perché i veri discriminati non siamo noi, ma gli animali. Cioè, intendiamoci, a me scoccia andare al ristorante e non trovare nemmeno un piatto vegano, ma se ciò avviene è perché viviamo in una cultura in cui è considerato “normale” nutrirsi di animali e derivati, e non certo perché qualcuno ci vuole danneggiare. Sono gli animali ad essere danneggiati, non noi.
Io sono convinta del fatto che nella nostra società gli antispecisti, per tutta la serie di motivi sopraindicati e per altri, non hanno vita facile. Purtroppo ci scontriamo quotidianamente contro un muro di indifferenza, ignoranza e disinformazione che oppone una strenua resistenza alle nostre istanze (che poi, sono quelle degli animali). Di fronte alla tanta disinformazione e propaganda mediatica che mira a rimuovere, negare, depotenziare lo sfruttamento e la sofferenza degli animali, ci sentiamo stanchi, sfiduciati, demotivati. Ma, torno a ripetere, non è forse fuorviante però parlare di discriminazione dei vegetariani/vegani quando in realtà i veri “discriminati” – ma sarebbe più corretto dire oppressi, schiavizzati – sono gli animali? Non si rischia, ancora una volta, parlando di “vegefobia”, di spostare l’attenzione su noi, promotori della liberazione animale, anziché sulle condizioni di sfruttamento degli animali stessi, assecondando così il gioco di chi, per negare la serietà e la forza dell’antispecismo, vuole sminuire coloro che lo sostengono? Soprattutto, il termine “vegefobia”, forse, con quella radice “veg”, rimane troppo focalizzato su uno degli aspetti dell’antispecismo, ossia la scelta alimentare.
L’articolo di Maurizi mi ha fatto parecchio riflettere e, seppure in un primo momento – e proprio perché la prima volta che ho sentito il termine “vegefobia” (nel mio blogroll c’è il link al relativo sito) mi aveva parecchio colpito, riscontrando come comuni e vissute in prima persona certi atteggiamenti denigratori nei confronti dei vegetariani e vegani – ho obiettato che invece di  questa forma di “discriminazione” bisogna tener conto e sarebbe sbagliato negarla o ridimensionarla, mi sono poi resa conto invece che ciò che più che urge è riassegnarle un giusto spazio (certamente se capita di essere offesi o anche veramente discriminati – leggo di casi di persone cui è stato negato un posto di lavoro perché nel curriculum avevano indicato di essere vegetariane – bisogna stigmatizzare, denunciare il fatto e cercare giustizia), ossia svelarne le vere origini, restituirle il suo vero significato: ridicolizzando gli antispecisti, i vegani, vegetariani, è in sostanza a ridicolizzare gli animali che si tende. Quindi forse come suggerisce Maurizi sarebbe più corretto parlare di “teriofobia”, che non di “vegefobia”.
Anche perché, a pensarci bene, noi siamo veramente l’unica “minoranza” a volere qualcosa non per noi stessi, bensì per qualcun altro che non può esprimersi direttamente: gli animali. Non scendiamo in piazza per noi stessi, per i nostri diritti, ma per quelli degli animali. Certo, vorremmo anche più ristoranti vegani, più prodotti vegani, ma non in aggiunta a quelli che già ci sono, ma semmai in completa sostituzione di questi altri.
La nostra voce viene data in prestito agli animali – e non perché essi non sanno esprimersi, ché comunicano perfettamente, ma perché la maggioranza non è disposta ad ascoltarli – e chiede diritti legittimi per loro: il diritto di vivere in pace, liberi, la fine del loro asservimento all’uomo.
Ciò che dobbiamo fare quindi è smettere di indignarci ogni volta che ci sentiamo offesi, derisi, incompresi e mantenerci lucidi ed attenti nel riportare l’attenzione sugli animali, sviandola da noi stessi.
Bisogna fare anche attenzione, secondo me, a parlare di veganismo. Sempre meglio parlare di antispecismo. O di diritti degli animali, di liberazione animale, di lotta contro lo sfruttamento animale perché il veganismo è solo uno dei mezzi con cui combattere contro un sistema che ha radici infinitamente più complesse. E d’altronde, l’assoggettamento degli animali all’uomo non avviene solo nel campo alimentare, ma in mille altri campi e modi, persino a partire dal linguaggio (ne ho parlato qui).
La scelta vegana dovrebbe essere quindi conseguenza logica dell’essere antispecisti, un inizio, ma non l’unico fine e punto d’arrivo.
Conosco, ahimé, moltissimi vegani che hanno intrapreso un certo percorso per motivazioni salutari o d’altro tipo; per alcuni l’essere vegani fa parte di un percorso spirituale, in questo senso estremamente soggettivo, individuale, che nulla ha a che fare con la liberazione animale.
Sia chiaro, ben vengano persone così avanti nel loro percorso spirituale (un percorso comunque di valore, che implica il rispetto di ogni forma vivente) – anche perché, come dice l’amico Claudio, agli animali alla fine importa poco se non li mangi perché pensi che la loro carne ti faccia male o perché sei antispecista, a loro basta che appunto, non li mangi – ma rimane comunque un cammino personale, che per nulla (o di poco, al massimo sulle persone vicine) incide sulla prospettiva di una totale abolizione dell’attuale sistema basato sullo sfruttamento degli animali (e degli uomini, ché non si deve dimenticare che nella logica di dominio del nostro attuale sistema gli animali sono solo la base di una piramide di sfruttamento globale, di cui noi tutti, chi più chi meno, facciamo parte).
Essere vegani e dire (ne conosco molti, non mi sto inventando nulla): “io ho fatto questa scelta, ma rispetto le scelte altrui, questo è un cammino, un percorso, ognuno dovrà arrivarci con i propri tempi, magari in un’altra vita (sic!)” – ma intanto gli animali continuano a morire a miliardi – significa che allora importa di più della propria crescita personale che non della liberazione animale. Importa di non fare del male perché ci si vuole sentire in pace con sé stessi, puliti, e poi degli altri, del resto… chissene frega.  E invece no. A noi antispecisti deve importare in primo luogo della liberazione animale, che è un atto politico quindi (politica intesa nel suo senso più ampio, ovviamente, e non come appartenenza ad uno schieramento piuttosto che ad un altro) perché mira a sovvertire l’attuale sistema di sfruttamento di altri esseri senzienti (tanto umani che animali) e poi, in secondo luogo, semmai, della nostra crescita spirituale personale.
Bisogna farsi parte attiva, non passiva che nasce e finisce con la sola scelta dello stile di vita vegano. Non basta. È tantissimo, certo, ma ci deve essere una presa di coscienza ed una denuncia totale di tutto il sistema e di tutti i comportamenti sociali in cui l’animale viene ridotto a “cosa”.
Dire “io rispetto la tua scelta”, è una frase che l’antispecista vegano non dovrebbe mai dire all’onnivoro. Sarebbe come se ai tempi della seconda guerra mondiale qualcuno avesse detto al Nazista: “io per mia scelta personale e secondo un mio cammino di illuminazione spirituale non brucio gli Ebrei nelle camere a gas, ma rispetto la tua scelta“. Un paradosso, no?
Dunque, l’antispecismo non è uno stile di vita, ma un atto politico perché mira alla fine del sistema socio-economico alla cui base vi è lo sfruttamento degli animali (e degli umani, lo metto sempre tra parentesi perché nello specifico sto parlando degli animali e poi perché penso che sia sottointeso). Mira all’abolizione dell’asservimento di alcuni esseri viventi (i molti) ad altri (i pochi). Per questo non ha senso quando qualcuno ci accusa di essere insensibili e di voler favorire gli animali agli umani. Essere antispecisti non significa salvare la mucca e mandare a morire l’uomo (come ho scritto qui). Significa avere rispetto di entrambi.
La scelta vegana è ovvia conseguenza di chi intanto si rifiuta di far parte di questo sistema, di chi davvero ritiene che uccidere altri esseri senzienti per cibarsene o per altro sia un atto ignobile e mostruoso.
Chi si definisce antispecista, chi abbraccia le istanze dell’antispecismo NON può non diventare anche vegetariano/vegano, NON può non rifiutarsi di dare il suo contributo allo sfruttamento degli animali, nelle tante, infinite forme in cui esso avviene e si manifesta.
Pensare però di essere a posto con la propria coscienza nel coltivare la propria isoletta felice della scelta vegana che agisce indisturbata all’interno di un sistema in cui comunque gli animali continuano a morire a miliardi per mano dell’uomo, secondo me non basta; siamo ad un livello minore di ipocrisia, siamo coerenti con noi stessi, ma siamo ancora succubi del sistema di sfruttamento degli animali.
Se uno pensa che diventare vegani sia il massimo che si possa fare, si sbaglia. Sicuramente è il massimo che può fare per sé stesso, ma non per gli animali.
Questo è un post di profonda autocritica, di parziale messa in discussione di alcune mie idee (lo avevo scritto nel mio profilo, del resto, che sono una che alza sempre un po’ la posta rispetto ad alcuni traguardi raggiunti, che non si reputa mai “arrivata” e che cerca sempre di apprende cose nuove senza “arroccarsi” su prese di posizioni a prescindere), frutto di confronti e letture di altri blog, tra cui proprio questa rivista fondata, tra gli altri, da  Marco Maurizi – del quale sto anche leggendo l’interessante saggio “Al di là della Natura – gli Animali, il Capitale, la Libertà  (di questo mi riserverò di parlare in seguito, a lettura ultimata) – oppure quello di De Spin (che scrive articoli sempre molto mirati ed efficaci) o di articoli come questo  e, magari, anche frutto di un’evoluzione personale – data anche sempre dall’incontro con gli altri – che spero essere sempre in crescita.
Ciò che è curioso è che quando presi la decisione di diventare vegetariana pensai che fosse, appunto, una scelta personale (sempre scaturita dall’amore per gli animali e dalla volontà di rispettarli), ma, rendendomi conto sin da subito della valenza di portata universale che questa scelta conteneva in nuce – mirando al boicottaggio dei prodotti dello sfruttamento animale – cercai subito di parlarne il più possibile a chi mi stava accanto, sensibilizzando, aprendo il blog, credendo fortemente nel potere individuale delle singole scelte (e ci credo ancora, non lo sto affatto rinnegando, solo che non basta, in fin dei conti sono secoli che esiste il veganismo/vegetarianismo, ma il sistema di sfruttamento degli animali contina a non venire messo in discussione, se non appunto a livello individuale, ma non sul piano socio-economico) ecc.. Poi c’è stato un momento in cui ho pensato che diventare vegana fosse il massimo che potessi fare. Ora penso che essere antispecisti significhi far parte di un movimento totalmente rivoluzionario – teso a minare le basi di un sistema che si regge sullo sfruttamento di una massa sconfinata di esseri senzienti la cui individualità è totalmente negata – e che, come tale, ha un significato anche politico. Certamente le nostre singole scelte devono essere volte a boicottare questo sistema, quindi è ovvio che diventare vegetariani/vegani sia fondamentale, così come serve partecipare a manifestazioni, sottoscrivere petizioni, sensibilizzare, scrivere sui blog, partecipare a discussioni in rete o nel reale ecc.. Ma bisogna avere ben chiaro in mente che questo sistema, così com’è strutturato, non vedrà mai la fine dello sfruttamento degli animali e degli uomini.
Bisogna darsi da fare per comprendere tutte le implicazioni di questo sistema, la sua struttura capillare di cui il massacro di animali è la base.
Capire per smascherarlo, per provare a destrutturarlo. Per provare a cambiarlo.
apparso originariamente sul blog: il dolce domani

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