Noi, tanatonauti: naufragi senza sacrifici

di Antonio Volpe

Nel mare magnum dell’ignoranza, della superficialità e del cinismo della rete ci s’imbatte in personaggi che non sanno di che parlano, ma parlano, mossi da un rancore niente affatto sordo, decisamente urlato e urlante piuttosto, che difficilmente verrà consolato da uno slancio di pietà, uno slancio di pietà che vorrebbe contagiare di pietà. S’un’isola deserta, fra me e il mio cane dovrei decidere di mangiare il mio cane per permettere la mia sopravvivenza. Con compassione, garbo forse, magari eleganza.
La specie umana, pur amando i propri cani, gatti, conigli e topolini – quelli piccolini e bianchi, non certo i brutti ratti di fogna – e pur ammirando nei documentari – che strappano gli umani alla loro quotidianità grigia, proiettandoli verso esotismi di pixel privi di mosquitos, sanguisughe, temperature e umidità intollerabili – scimmie e scimmiette, scimpanzé, oranghi, babbuini, e l’immensa varietà dei lemuri; pur amandoli e ammirandoli, la specie umana farebbe con loro, o forse sarebbe meglio dire di loro, la stessa cosa che io naufrago farei con/del/al mio cane. Naufraga nel mare infinito dell’insensibile e cieco universo, malposizionata su di un’isola girevole e irrequieta chiamata Terra, la specie umana sarebbe costretta, per compassione verso di sé, a rapire, segregare, far riprodurre forzosamente, torturare nei modi più atroci e infine uccidere – sarebbe questa, l’umana pietà: infine uccidere? – i propri amici animali. Non può farci niente, la specie umana: deve avere compassione di sé. Così come io dovrei avere compassione di me stesso uccidendo il compagno non umano della vita per mangiarlo e sopravvivere.
Ma certo il salto di scala fra l’insignificante uccisione di un cane – avete mai letto Storia con Cane di Lars Gustafsson? – e il glorioso sterminio di miliardi di animali (ogni anno) allo scopo di sconfiggere i malanni umani, le malattie, i morbi, i cancri, le infezioni, le insufficienze d’organo e sistemiche, e allo scopo di riversare sul sacro mercato proteine di agile assimilazione, questo salto di scala farebbe una compassione più grande: immensa, in verità. Uccidere miliardi di esseri senzienti, intelligenti, capaci di sentimenti come di linguaggio, di comprensione del mondo, di anticipazione della morte e di compassione verso i simili e i diversi (la propria specie e gli appartenenti ad altre specie), sarebbe segno, segno e causa, di una compassione più grande. Quella verso di sé. Della specie umana verso di sé.

Così ci insegna un blogger. Più o meno, perché alcune conclusioni, lo confesso, lo ho tirate io dalla sua logica. Non credo però di sbagliare di molto.

Sono sull’isola deserta, ammazzo il cane, lo mangio.

E poi? E poi cosa faccio? Ovviamente dopo muoio di fame comunque, magari ancora prima muoio di sete: una morte più atroce della prima. « Water, water, every where,/ And all the boards did shrink;/ Water, water, every where,/ Ne any drop to drink.»
E questo tempo? Questo tempo in cui attendo la morte, questo tempo di attesa della mia morte, cioè della morte del mio mondo che in qualche modo è la fine del mondo, perché è la fine di un’apertura al mondo singolare e irripetibile, questo tempo di morte come lo passo? Con chi lo passo? Con chi condivido il mio tremore estremo, il mio terrore irrimediabile, lo sguardo nell’abisso più oscuro di ogni tenebra?
Non c’è più nessuno. Non c’è più nessuno ad ascoltare i miei lamenti, ad accovacciarsi accanto a me nel mio pianto disperato, nessuno che condivida con me gli ultimi istanti di meraviglia davanti alla bellezza di quest’isola dispersa in mezzo al nulla, quest’isola che trasuda mistero in mezzo all’assenza di ogni salvezza. Nessuno che mi appoggi più, nella consapevolezza di una comune fragilità, in uno slancio di compassione totalmente gratuito, senza ritorno possibile, il suo muso nel mio grembo. Nessuno che mi offra il pelo morbido da accarezzare. Lo sguardo senza fondo di un’esistenza altra eppure comune, condivisa, offerta. Nessuno sguardo, nessuna carezza, niente più tatto, niente più vista di vivente che mi veda.

Solitudine. Magari senza rimorso, perché il cane lo dovevo ammazzare, ma solitudine irrimediabile davanti all’irrimediabile morte che mi corre incontro a balzi. Un morte da solo, senza consolazione di un abbraccio, di una carezza fatta con la mano e restituita con una zampa. Una morte infinitamente moltiplicata dalla mia solitudine. Mille morti invece che due, invece che una morte condivisa, doppiamente, reciprocamente consolata.

Il blogger in questione dice che gli antispecisti sono quelli che ti guardano morire col binocolo, senza intervenire. Mette in nota che ci sarebbero studi – sarebbe interessante sapere quali: quali? – che dimostrerebbero la mancanza di sensibilità degli antispecisti.
Strano, un altro blogger scriveva che siamo patosensibili, cioè sensibili in maniera eccessiva e quindi patologica. Per questo non accetteremmo il riuscitissimo calcolo, davvero favorevole in termini utilitaristici, di ammazzare il nostro amico di una vita e morire soli.

Per quale motivo se fossi con un amico umano sull’isola, non dovrei ammazzarlo e mangiarlo? Non è necessario anche se brutale e immorale, per il mio interesse? L’immoralità non si rovescerebbe subito in immoralità legittima, in un diritto-limite – un’eccezione, al limite – in nome di un necessario e incontestabile slancio di vita? Mettiamola così, lealmente: siamo in due e siamo sulla stessa barca, ad armi pari – la lotta, il coltello, la monetina – sfidiamoci perché uno dei due viva di più.
Immagino che a chiunque questa possibilità parrà disgustosa, intollerabile e insensata. Meglio morire insieme! direbbero tutti, specisti e antispecisti.
Eppure, per il cane non varrebbe, secondo il blogger che si occupa degli antispecisti – questi psicopatici – la stessa logica: lo stesso disgusto intollerabile, la stessa assurdità.
Non ci vogliono molte parole per definire il motivo di tale discrimine: si tratta del fondamento mistico dell’autorità, un’autorità antropocentrica – ma potrebbe darsi un’autorità non antropocentrica, non specista? Dove mistico non ha a che fare con la teologia, con il divino o col mistero, ma solo con il sacro e il suo carattere di divieto immotivato. Che vige proprio perché non si motiva, non significa. Un’autorità che tentasse di motivare se stessa, che tentasse di giustificarsi, cesserebbe immediatamente di essere se stessa, di essere autorità che impone obbedienza. E davanti non tanto alla fondatezza del discorso antispecista, ma all’innegabile del dolore animale, solo un’autorità che comanda obbedienza può tenere: tenere insieme il balbettio delle giustificazioni antropocentriche e speciste, mantenere in piedi la colossale rimozione del dolore animale.
Ma questo significa anche, immediatamente, che il Re è nudo, che l’autorità mostra già l’abisso della sua infondatezza. E i bambini che ridono del Re nudo, che lo additano nudo, in quanto Re nudo e lo deridono, sono davvero assai, a questo punto della storia umana.
Il blogger che, senza spiegarlo, afferma senza tema di smentita, intima quasi, che l’antispecismo sarebbe una religione “a tutti gli effetti”, non può fare a meno di obbedire a un’autorità sacra e mistica, non può fare a meno di nascondere la mancanza di fondamento di tale autorità – o meglio: di provarci e proiettare la sua fede – il suo credo quia absurdum con massacro – sugli antispecisti e i loro argomenti.

Argomenti che dovrebbero arrendersi davanti ad affermazioni apodittiche, ad argomenti smontati centinaia di volte, davanti a pseudo-argomenti che si vorrebbero realistici e ovvi, agganciati al deus ex machina di una Natura narrata e rinarrata a piacimento, che del naturale ha solo la fallacia – la fallacia naturalistica che confonde stato di cose e condotta, dato storico e scelta etico-politica.

Uno degli argomenti che, per quanto lo si tenti di aggirare, con filosofemi ormai arrugginiti da decenni, se non da secoli, e con una valanga oscena di pseudo-agomenti, un argomento che non ha bisogno di alcuna fondazione, perché al contrario dell’autorità, è un’evidenza che parla da sé, che enuncia da sé, subito, innegabilmente, tutti i suoi motivi, è l’evidenza innegabile del dolore animale. Gli animali soffrono, soffrono immensamente, in numero e intensità, dovunque, quasi sotto i nostri occhi: un quasi che è a un passo dallo scomparire – un quasi che quasi, ormai  n’è pas – a causa della proliferazione della sua testimonianza diretta in immagini, fotografie, video, che inondano la rete – quella stessa rete che i blogger solcano, secondo la retorica della “navigazione”. Si può poi dire che quella sofferenza non vale la nostra, ma non la si può negare, non la si può – quasi – più nascondere. Il quasi è a un passo dal dileguare: n’è pas.

E si può dire, poi, che quella sofferenza non vale la nostra? Si può dire, che essa vale contro la nostra, che essa valga per aggirare la nostra? Che essa valga per il nostro benessere, corporeo e materiale? Che essa valga per i nostri desideri: di mangiar bene, di apparire belli, ma soprattutto per il nostro desiderio di immortalità? Per il nostro desiderio di immortalità, che significa il rinvio sempre più affannoso della morte, ma anche del malanno, della vecchiaia, della sofferenza? Perché mai la nostra sofferenza, insomma, dovrebbe valere la loro? L’ingiunzione della nostra sofferenza ad essere alleviata, valere la loro, inflitta? Non c’è un argomento per questo, se non la forza. La forza che si dispiega nella tecnica – tecnica di cattura, di addomesticamento, di allevamento seriale, tecnica e tecniche della sperimentazione scientifica, e poi di uccisione, di macellazione, scuoiamento, soppressione delle cavie ridotte a larve da danni incalcolabili e da dolori inquantificabili. Ma anche quella forza che si dispiega in quella tecnica che è il lògos – o almeno il lògos ridotto a tecnica. Che ci ha permesso per secoli di nominarci umani contro alla massa indifferenziata degli animali. Di darci un nome e di essere quelli che danno un nome a tutti gli altri: gli animali, anzi: l’animale, senza plurale, senza pluralità, senza distinzione, senza differenza, senza differenza e distinzione fra quelli che poi abbiamo tassonomizzato coi nomi di canidi, felini, primati, strigiformi, sauri, aracnidi, blattoidi, molluschi, ecc… davvero qualcosa li accomuna? Così tanto – un gufo e un verme – da poterli nominare tutti come animali? E ridurli, nella riflessione filosofica e nel senso comune a l’animale? La classificazione d’altra parte, come già diceva Foucault, accomuna e distingue fino al particolare. Ma in modo tale da governare il comune, il comune come indifferenziato: qui l’animale. Davanti al quale noi umani ci siamo distinti gerarchicamente in quanto animali dotati di linguaggio, animali razionali, animali etici, politici animali capaci di ridere, di “dire no”, di fingere. E nonostante l’evidenza scientifica abbia ormai demolito queste presunte differenze, differenze pretese come qualitative e non quantitative, questa differenza gerarchizzante che fonda i privilegi umani, mostrando che gli animali hanno linguaggio – hanno linguaggi –, che comprendono il mondo e sé stessi, che la complessità della loro empatia e compassione di fatto fa etica – fa etiche –, che negoziano il potere, che ridono, che fingono e dicono no, nonostante tutto questo il nostro lògos inteso come linguaggio e come razionalità continua a pretendersi come l’unico possibile, sterminando la pluralità dei lògoi. Questo lògos è appunto forza, potenza della ratio, tecnica di assoggettamento attraverso il discorso e la logica. Ma se alla forza della logica è infine sottratta ogni ombra di verità, se è il discorso è privato di ogni argomento, se ogni inferenza deduce da un’assenza di realtà, allora della forza e della potenza della logica resta solo la logica della forza e della potenza. Che è ormai, in un tempo in cui la ratio è stata smascherata come struttura di dominio e struttura di legittimazione di questo dominio, l’unico argomento per l’estorsione dell’esistenza, tutta intera, agli esistenti. Ovvio, questa affermazione è una reductio ad absurdum non priva di sarcasmo: la forza non è un argomento. La forza senza argomenti, pur strumentali, è forza e basta. Poggia su quello stesso non fondamento mistico di cui dicevamo circa l’autorità. La mera forza, senza neanche più l’argomento – naturalisticamente fallace e di una consistenza ridicola e oscena – della forza come legge, la legge del più forte o legge della jungla che idioti reazionari come hanno cavato e cavano continuamente dalla lettura di un Darwin neanche tradito, ma anzitutto calunniato, diffamato, a conti fatti mai letto,  e che continua a imperversare nelle pubblicità di integratori vitaminici e scarpe sportive, ma come ormai un cadavere imbalsamato: senza neanche più questa verità da quattro soldi, questa legittimazione meschina: la forza è ridotta al suo scheletro sacro e insieme – o meglio: e quindi – brutale. E’ una fede tradotta fin da principio in atto, una fede senza contenuto che si consuma – si dà, ma anche si autodistrugge, imputridisce – nel gesto che essa è. Il Re è nudo, ammazza tutti e tutti tacciono. Nessuno difende nessun altro, fingendo tutti quanti che il Re non è nudo e non sta ammazzando tutti. Uomini e animali. Forse perché il Re è umano: è un’autorità che pretende di precedere ogni fondazione e legittimazione.
Lo scheletro mortifero dello specismo, uno scheletro che non fa che ammazzare, è tutto qua, ormai. E’ lo scheletro stesso del potere che cominciò, quando era ancora il corpo grasso e famelico della metafisica occidentale, o il suo grasso terreno di cultura, colla sottomissione e il governo dei non umani.
Si deve cominciare a dirlo. A ridere tutti quanti di questo scheletro che cerca ancora la vita, cerca di rivivere ma non può, neanche togliendo la vita ai viventi, perché non può neanche più nutrirsi per rifarsi, rifabbricarsi un corpo, una carne. Non può né ricevere né dare. E quindi può solo, disperatamente e impotentemente, uccidere.
Abbiamo fatto quel passo nel segreto miserabile e senza gloria né tesori dello specismo, che ora n’è pas. O quasi. Perché forse quel passo non è stato fatto. Non da tutti, non da abbastanza. Io che scrivo e tu che mi leggi siamo ancora pochi a ridere de, pochi per deridere, lo scheletro impazzito che non vuole giacere nella sua tomba, alla sua sepoltura, non essendo manco uno spettro. (Anche se è evidente: qui non è – non solo – un affare di numeri). L’incantesimo dura ancora, anche se è allo sfascio e trascina tutti e tutto nel disfacimento.

Quindi, per intanto, nell’attesa che qualcuno si unisca a noi, aggiungiamo una cosa
Più o meno 50 anni fa, Heisenberg, il padre della fisica quantistica, scrisse che il rischio per l’uomo è che si dia un mondo in cui l’uomo incontri sempre e solo se stesso.
Se riprendiamo la sciagurata e sfortunata metafora dell’isoletta deserta, alla luce di quel che si è detto circa lo sterminio animale, credo che non possa che venire in mente che questo: gli uomini condividono il pianeta Terra con miliardi e miliardi di altre specie e con un numero incalcolabile di esistenti non umani. Il loro destino è la morte. Di loro umani, di loro non umani. La morte, come nel caso del naufrago sull’isola – che poi è quasi la nostra storia, solo che non c’è una nave prima né, un elicottero dopo – è inevitabile. Rinviabile, aggirabile per un po’, forse un bel po’. Ma è inevitabile. Infatti nessuno salva nessuno dalla morte: anche chi si “sacrifica”, dando la propria vita per quello di un altro, non può che rinviargliela, la morte. Dalla morte non si salva nessuno, dove nessuno è sia soggetto che complemento oggetto di un verbo all’impersonale. Io e te, lettore, non possiamo salvare cioè dalla morte nessuno, né tantomeno si dà la possibilità che ci si salvi noi. Detto indipendentemente da congetture e speranze sul dopo.
Si è detto sacrificarsi, nel senso del donare se stessi. Ma qui c’è in ballo un diverso tipo di sacrificio. C’è un sacrificio che sacrifica qualcuno che non si è donato a nessun sacrificio e che non vuole – lo dice in mille modi prima che lo si zittisca con una sparachiodi, un coltello, un’iniezione di anestetico, o l’asporto di corde vocali e la contenzione totale – in nessuno modo e per nessun motivo essere sacrificato. Per il bene di nessuno. Prendete l’impala che danza come una folle incosciente davanti al leone per coprire la fuga di amiche e amici – quelli che noi chiamiamo con una mossa espulsiva e gerarchizzante branco. Portatela in un laboratorio e proponetele di inalare gas nervino, o di farsi impiantare un dispositivo neurale, o di farsi strappare i denti sostituendoli con denti artificiali, e vedrete che risposta vi darà. Direte allora che lei non può comprendere il suo sacrificio e il bene che ne verrebbe a tanti viventi: ma spiegate la stessa cosa a un umano, che in quanto umano può comprendere il vostro discorso, prima di proporgli il gas. Il punto è uno, uno solo per entrambi. Il dono di sé, per quanto inane e vano, non può essere estorto. Così come non si può estorcere l’amore o l’amicizia: sentimenti per i quali, sì, ci si può scegliere per un dono estremo. Anche se questo dono non salva dalla morte, ma soltanto la rinvia. La canzone del Cervo di Branduardi, in cui il cervo dice di donare carne, pelle, corna e tutto di sé al cacciatore che lo sta per ammazzare, è la più colossale e meschina bugia dell’uomo e dell’umanismo.
Ma se l’uomo dice no, lo si ascolta – almeno in linea teorica, in linea con tante dichiarazioni di diritti -, se lo fa l’impala, no: lei non può capire. Né che le si dica, né la faccenda del bene dell’umanità. Quindi, se dice no, scalciando e seminando terrore nel laboratorio – certo, è una favola, questa: dal momento in cui la tecnica ha permesso di rendere inoffensivo l’animale da torturare e ammazzare – la si tortura e ammazza uguale.
Potremmo imparare molte cose dall’impala viva: ad esempio quell’altruismo estremo che la fa danzare davanti al leone, e che i biologi “dell’egoismo” tentano ancora di spiegare – cosa c’è da spiegare, dato che l’evoluzionismo non risponde alla domanda “perché?”, ma a quella sul “come”?. Potremmo anche solo ammirare la sua danza, o la meraviglia del suo corpo striato di muscoli e di vene e della sue corna avvitate. Potremmo cercare di incontrarla e “farle delle domande” – ci vuole gran garbo, come direbbe Vinciane Desprait, ma si potrebbe.
I maiali sono animali di una socialità commovente. I ratti sono più fedeli e affettuosi dei cani. Chi non li ha mai frequentati lontano da tavola o da un laboratorio avrà difficoltà, forse a capire. Ma maiali e ratti non si innamorano e non ci fanno innamorare meno del cane che, mentre scrivo, mi guarda con il muso fra le zampe “ricattandomi” splendidamente ad andarlo ad accarezzare. Noi patosensibili, noi psicopatici incapaci di sentimenti ci chiediamo spesso, e a volte persino senza sentimentalismo né intenti ricattatori, come ci si possa abbuffare di manzo, vitello maiale, e poi portare a spasso il proprio cane gioendone. Come si possa lavorare una giornata intera su cavie – topi, ratti, conigli e magari cani – e poi accarezzare il pelo del proprio amico animale con commozione. Questo doppio registro della narrazione, e ancora prima, in qualche modo, della percezione dell’animale ci resta in qualche modo non comprensibile. Certo, gettiamo fiumi di inchiostro per ricondurla a una rimozione strutturale che poggia sulla metafisica metafonetica, sul logocentrismo, sul sistema di sfruttamento capitalista ecc… Insomma, sappiamo di che si tratta. Ma ci resta allo stesso tempo oscura, problematica, come se alla fine della matassa che sbrogliamo restasse sempre uno spigolo di muro contro cui si sbatte testa. Forse è questo spigolo, la compassione. E perfino, non ce ne abbiano gli specisti, l’etica. Forse bisognerebbe chiamare proprio spigolo questo insieme di compassione ed etica, la loro relazione e il movimento che fa passare, transitare, dall’una all’altra. Perché sembra si tratti davvero di sbattere contro uno spigolo acuminato, il provare compassione: una lacerazione che non apre a niente, verso nessuna parte, che non permette nessuna dialettizzazione, appropriazione e capitalizzazione. La rabbia non appropria la compassione, non la dialettizza verso un’etica. La rabbia è il movimento che ci fa transitare dalla compassione all’etica, ma in questo movimento la compassione, con la sua lacerazione, resta ferma al punto di partenza. La rabbia non sana la lacerazione della compassione, non la chiude, né tantomeno lo può l’etica. Lo spigolo diventa allora l’impossibilità di tale chiusura e sutura, di un’appropriazione capitalizzante. Vedere il dolore e dire: ho capito; e poi: sono cresciuto, ho imparato qualcosa; e quindi: ora so cosa fare, o almeno cosa tentare: non è la formula di una dialettizzazione, di un’appropriazione cauterizzante. Dalla compassione ci voltiamo verso l’etica in un movimento di rabbia, ma non spostiamo la compassione, che invece ci resta addosso, ci dà la caccia, ci sta alle spalle, ci insegue sempre da dietro senza che noi vi si possa fare fronte. Si resta lacerati davanti alla lacerazione del dolore altrui. Si resta e non ci si muove. Mai. La lacerazione del dolore altrui e la lacerazione del nostro strazio non si chiudono, non si rimediano. E’ questo inseguimento senza scampo – perché la compassione lacerante, lacerata, c’è già addosso – a fare davvero un’etica. È la dialettizzazione impossibile, fallita, a fare etica. E’ l’impossibilità di rimediare. E’ il sangue degli altri, come direbbe Simone de Boeuvoire. Il sangue sparso in maniera irrimediabile, che non può essere ri-trasfuso, rimesso nelle vene straziate. La lotta per la giustizia comincia con un trauma, con un lutto non dialettizzabile e non ri-appropiabile: cioè con un lutto non elaborato e inelaborabile. L’elaborazione resta una finzione che rimuove, occulta il lutto: non lo sana e in più lo falsifica. Possiamo fingere di elaborare, insomma, fingere di appropriare, di sovrastare il lutto, incorporandolo, espellendolo. Ma non possiamo andare al di là di questa finzione: esso ci abiterà come una spina, come un proiettile che non si può estrarre, o ci ossessionerà come uno spettro, un ritornante alieno: non sarà mai carne della nostra carne, non sarà mai un oggetto gettato via lontano e rimesso alla sua polverizzante corruzione.
A meno che non se ne voglia fare un revenant, un’ossessione, una spina che si fa strada nel nostro corpo, dobbiamo sceglierci per la sua sopportazione in quanto lutto vivo e vivente: un lutto non rimediato che lasciamo ci insegua, ci stia addosso, perché – anzi: lasciando che – ci spinga continuamente alla giustizia. Che in quanto memoria viva della lacerazione del vivente, di un, di quell’ altro vivente di cui portiamo la lacerazione, inscritta nel suo reciproco altro vivente che io, tu, ognuno di noi, siamo, lacerazione della carne vivente, carne viva scoperta dalla lacerazione, chiami ininterrottamente e inaggirabilmente a una giustizia viva e vivente, che innervi la nostra vita. Si tratta di continuare a sbattere contro a questo spigolo, di gioire della colpa che ci obbliga alla giustizia, a vivere la giustizia, a fare della giustizia vita e della vita giustizia – secondo quel rifiuto della Legge che trattiene il povero uomo di Kafka di qua dalla sua porta in una sopportazione che è già giustizia, e trattiene Bartebly nel suo no.

Questo sbatterci contro di questo spigolo non ha inizio, perché ci è cooriginario, e perché la lacerazione che implica viene alla luce con noi. La nostra nascita è insieme la nascita di una lacerazione, quella dal cordone ombelicale. Che è una lacerazione per noi e per nostra madre. Ma ancora prima della nascita, il nostro divenire noi implica il cessare di essere la madre, di essere sua proprietà e sua parte. Più diveniamo noi stessi, più nostra madre ci perde e noi perdiamo nostra madre. Diveniamo un altro ospitato da un altro. Dove l’ospitalità non è inclusione, né incorporazione, ma l’apertura di uno spazio di distinzione e con-tatto. Più nostra madre ci sente, più cessiamo di essere suoi, più ci perdiamo l’un l’altra, divenendo altri l’uno all’altra. Davanti al volto di nostra madre noi siamo estranei, estranei di fronte al volto di un’estranea. La famiglia è perciò luogo non di familiarità, ma di estraneità. La familiarità è immediatamente estraneità, anche quando questa estraneità la percepiamo appena o non la percepiamo affatto.
Insieme, l’essere messi al mondo, l’essere stati gestati, il non venire da noi stessi, ci rende a noi stessi estranei. Il nostro non appartenere a nostra madre significa contemporaneamente che né noi, né nostra madre, apparteniamo a noi stessi, perché cominciamo a partire da una con-divisione, cioè una distinzione che permette il con-tatto.

Questo rende ancora più chiaro perché il motto del liberalismo “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro” sia una bugia soggettivista, da rovesciare nel suo contrario, anzi nei suoi contrari: “la mia libertà comincia con l’altro”, “la mia libertà comincia con la libertà dell’altro”, “la libertà dell’altro comincia dove comincia la mia”, “io comincio dove comincia l’altro e viceversa”: la libertà comincia con e dalla con-divisione inaggirabile che ci costituisce. Da e con l’essere altri gli uni agli altri.
Solo così ogni affermazione che predichi qualcosa circa la nostra fine più enunciare una qualche verità. La mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro perché lì comincia. Io finisco dove comincia l’altro perché lì comincio io, e io finisco. E così finisce anche ogni soggettività, per definizione chiusa in stessa dall’incorporazione, dall’assorbimento dei propri margini e limiti. Ecco un’altra finzione, quella della soggettività: un’altra operazione che si può attuare solo fingendola e rimuovendola come finzione. Tale rimozione, che non può davvero occultare né tantomeno abolire, è ciò che costringe la questione del soggetto, la questione del limite a ritornare continuamente per essere continuamente ridefinita, per una ridefinizione del limite che mantenga l’altro a mezza distanza, che insieme sia distanza di sicurezza e non sia la distanza di una perdita. Finirla col soggetto significa – infatti – ammettere che l’altro ci altera continuamente e che è già sempre perduto.

Questa verità è talmente costitutiva della nostra (co)esistenza che quell’altra alterità che ci sta sempre addosso, che è la morte, è già da sempre connessa ad essa: infatti la mia morte non è mai solo la mia morte, perché fin dall’inizio si muore gli uni agli altri. La mia morte, la sparizione del mio mondo, riguarda già da sempre gli altri e il mondo degli altri. E la morte altrui, la sparizione del mondo altrui, riguarda fin dall’inizio me stesso e il mio mondo. La sparizione di un mondo che ogni morte è, è insieme la sparizione del mondo.

Ecco perché, per tutte queste ragioni, per tutte queste mancanze di ragione, morire e uccidere non è la stessa cosa.
Non perché non ci si possa salvare dalla morte, allora uccidere perderebbe il suo significato di violazione dell’imperativo a non farlo: al contrario, il nostro essere costitutivamente mortali rende quell’imperativo più cogente. Perché la mortalità, questa mortalità straziante, ci accomuna tutti. Umani e non umani. Perché essendo comune, non possiamo fingere di non saperne e di non saperne lo strazio. Perché trattandosi qui di un comune con-diviso, fra distinti, io non dispongo mai della morte altrui come di una mia possibilità, come di qualcosa che cada sotto la mia proprietà. E perché, dunque, uccidere sacrificando altrui resta uccidere e non diventa mai un salvarsi dalla morte.
Tanto per tirare in ballo l’attualità di un altro cacciatore di antispecisti e il suo libello – Pierangelo Dacrema  e il suo “Fumo bevo e mangio molta carne”: ma anche il suo entusiastico recensore Marco Dotti, su il Manifesto – «spegnere una vita» animale o umana che sia, non è «un gesto impegnativo» perché «la libertà è impegnativa e difficile». Spegnere una vita, cioè uccidere, è un gesto atroce contro la nostra comune mortalità, contro la nostra reciproca alterità che non fa mai di un altro una nostra proprietà – uccidere è infatti sempre un atto di appropriazione – e contro la libertà mia e altrui che comincia con un incontro, non certo con un atto della volontà di un soggetto perimetrato in se stesso. Libertà è infatti il nome di questo incontro e di questa con-divisione, che comincia qualsiasi libertà pensabile come tale. L’abisso che si spalanca davanti a noi e in noi, l’abissalità che ci costituisce alterandoci, la libertà che ci dà le vertigini, sono i nomi e i predicati dell’incontro e della con-divisione. Perché non solo l’etica, ma anche il godimento, comincia con la con-divisione del con-tatto (genitivo soggettivo e oggettivo) delle esistenze (genitivo soggettivo e oggettivo di nuovo). E il godimento dell’uccidere, davanti a quello del toccare, del toccarsi, del con-dividere, è davvero un piacere miserabile oltre che delittuoso.

Un pianeta per soli umani, in cui i non umani sarebbero oggetti utilizzabili, merce d’uso e di scambio, è un pianeta desolante e desolato, miserabile di una miseria irrimediabile che ci rende subito – che ci ha reso da tempo – miserabili, che rende – ha reso da tempo – miserabile l’umanità e l’animalità degli umani, la loro libertà e il loro piacere.
È un curioso quanto agghiacciante gioco di specchi quello che ci fa chiedere disperatamente se siamo soli nell’universo o se esso è tanto gelido da non ospitare altra vita, altre forme di vita. Laddove il nostro pianeta, il nostro mondo ne trabocca già da sempre, sottraendoci da sempre alla nostra solitudine.
Ma certo, noi siamo e saremo continuamente soli, se e finché non rimuoveremo questa colossale rimozione che ci nasconde, sotto gli occhi, una ricchezza infinita e un’inesauribile compagnia.
Se e finché, nella ebete attesa degli alieni, non cesseremo di ridurre infinite forme di vita e infinite esistenze a oggetti e ad ucciderli. Simili e diverse, come immaginiamo le forme di vita aliena, che non può che apparire ormai come la proiezione fantasmatica della vita che massacriamo qui sulla Terra, producendo solo infinita solitudine.

Su questa isola di naufraghi circondata dal nulla, io non uccido i miei unici compagni. Gioco, gioisco, piango, muoio con loro.

Comments
14 Responses to “Noi, tanatonauti: naufragi senza sacrifici”
  1. buridana ha detto:

    Bellissimo. E totalmente condivisibile. Tanto nessuno specista potrà mai non dico capirlo, ma entrare nell’ottica di prenderlo in considerazione. Si tratta di due Weltanschauungen irriducibili — di quelle, insomma, che im/pongono una scelta e tertium non datur.

    P.S.: Comunque, secondo me, gli specisti si perdono un sacco di cose. “Rangéves on poo”, si dice a Milano.

  2. telinbran ha detto:

    @buridiana: gli specisti sono solo aspecisti in versione -1. tutti gli specisti possono capirlo, serve entrino in versione 0.

  3. buridana ha detto:

    @telinbran: concedo. Ma forse LA domanda è: “agli specisti interessa capirlo?” 😉

    • telinbran ha detto:

      @buridana: il problema dell'”interesse” è serio. Cosa interessa a chi e perchè? Quanti interessi fittizi abbiamo e di quante cose non ci interessiamo anche se sarebbe nostro “interesse”? Uno degli scopi di ciò che chiamiamo anti-specismo, secondo me è rendere evidente l’interesse implicito nell’abbracciare un modello aspecista. Ma non è facile, non ce lo abbiamo chiaro. Di solito ci occupiamo di rendere evidente l’interesse al non dominio, dell’animale vittima, non del consumatore-predatore-dominante.

  4. buridana ha detto:

    @telinbran: allora diciamo (dico io, alla veloce perché sto lavorando) che “interesse” implica sempre la concezione di “valore”, con la differenza che per gli antispecisti il valore è qualitativo mentre per gli specisti è quantitativo.
    Aggiungo che a mio avviso il consumatore-predatore dominante è per ciò stesso privo di una qualsivoglia progettualità a lungo termine: per lui esiste il qui-e-ora, e “dopo” qualcuno ci penserà. Insomma credo che fra i guasti della (post)modernità ci sia, né last né least, la perdita del pensiero secondario: ovvero la tecnica si è evoluta per consentirci il soddisfacimento sempre più immediato dei bisogni. Bel paradosso “evolutivo” 🙂
    (Chiedo scusa per la concisione e il salto di alcuni passaggi, ma come si dice il tempo è tiranno, sorry).

    • Rita ha detto:

      Sono d’accordo. Il consumatore vive in un eterno presente, non collega il vicino con il lontano, non comprende che tutto è collegato e che la singola azione e scelta ha un peso.
      Il consumatore che compra la bistecca al supermercato non si domanda da dove provenga, la sua “libertà” fittizia si esplica nell’atto di allungare il braccio sullo scaffale. Non comprende che così non sceglie affatto, ma asseconda l’offerta.
      Una libertà che toglie libertà all’altro, non è libertà autentica.

      Riguardo la questione dell’interesse, per gli specisti esso è inteso sempre in maniera egoistica, per gli antispecisti invece è volto alla totalità degli esseri viventi e dell’ecosistema tutto.
      Se tutti facciamo parte di questo pianeta, come possiamo danneggiarne i singoli componenti? Questo è l’interesse antispecista, oltre la compassione ovviamente.
      Il valore della vita è ciò che rende interessante ogni essere vivente.

      Per lo specista invece il maiale (così come altri animali) è interessante solo perché – come ha scritto qualcuno su un noto blog – le sue carni sono gustose; per il tipo in questione il maiale ha un valore solo strumentale, utilitaristico.
      Per l’antispecista no, il maiale ha valore di per sé, in quanto soggetto della propria vita, in quanto dotato del valore inerente della vita.

      Bellissimo e toccante articolo comunque.

      Ma io vorrei sapere, come si è diffusa questa diceria che gli antispecisti non avrebbero compassione per gli umani, ma solo per gli animali?
      E quella della patosensibilità?
      Non è forse mille volte più patologico chi accarezza il proprio cane e poi mangia il maiale? Una vera e propria schizofrenia.

  5. Marco Maurizi ha detto:

    Secondo me “Incubo sulla città contaminata” era meglio come titolo 😉
    (questo è un inside-joke, non ci perdete troppo la testa!)

    Cmq un grande pezzo Anto!
    Dice tutto ciò che La Bestia e il sovrano 2 si è dimenticato di dire (ma sarà che Jacques era ormai prossimo all’abbandono celeste dell’isola deserta e quindi il tempo gli stava definitivamente mostrando il suo volto di Crono, cioè di Tiranno, per dirla con Buridana :D)

  6. derridiilgambo ha detto:

    Io taglierei il nodo invece di sbrogliarlo: interesse è un concetto fumoso e confuso con una storia di confusione e fumo. Al di là del “cosa interessa a chi”? – sempre ottimo esercizio di paranoia creativa, ma che dovrebbe fare i conti con l’invecchiamento della strategie del sospetto – ciò che resta interessante nell’interesse è la sua decostruzione e declinazione in/come “inter-esse”. Altrimenti si resta al laccio di un soggettivismo che interroga il soggettivismo di un soggetto – quello dell’onto-teo-logia – che, se non trapassato, è quantomeno moribondo. Come un albero cavo, divorato dall’interno, sul punto di crollare – che certo, decomponendosi, arricchirà il terreno del pensiero e delle esistenze: ma è da un pensiero della (genitivo sogg e ogg) co-esistenza che si deve – dovrebbe – ripartire.
    Peggio per il “valore”, che resta valido nella misura in cui dice di una messa-a-valore della totalità dell’ente incessantemente e inaggirabilmente messa-a(l)lavoro.
    Insomma, interesse e valore sono sintomi, parole-sintomo da montare per capire che (o chi) c’è dietro, ma soprattutto per farle funzionare come dispositivi che girano al contrario, mettendosi di traverso alla megamacchina del bio/zoopotere. Altrimenti è roba buona per Savater – scusate, non volevo essere insultante, chiedo scusa.

    Alla fin fine se lo intitolavo Scontro fra titani visto da un cane su fuoriorario alle 4 del mattino: facevo felice tutti 🙂

  7. mcmicio ha detto:

    è la desensibilizzazione verso l’altro essere umano che porta ad uno smisurato affetto nei confronti delle altre specie. Sull’isoletta iniziale, ammazzerei il cane per pietà nei suoi confronti: ma non per non vederlo morire di fame con me, quanto piuttosto per non costringerlo alle mie lamentele. La descrizione dell’animale come solo oggetto a servizio, come utente del nostro agire, spaventosa. Lasciarlo vivere perché sennò io sto solo: quale destino crudele! Non penseremo mai questo di un uomo (ammettendo che ammazzo e mangio anche l’uomo, altro che ammazziamoci insieme!).
    D’altronde l’impala danzerebbe per una specie che non è la sua?
    La specie che odio di più è quella umana che approfitta delle bestie e se le coccola tanto solo perché stanno zitte. Perché il tuo cane non ti metterà mai di fronte alla nuda verità che per condurre lo stile di vita che conduci stai facendo estrarre minerali dall’altra parte del mondo e che questo mondo glielo stai distruggendo. Affami, ammazzi, stupri, abbandoni. In tutto il mondo gli esseri umani soffrono e noi potremmo fare qualcosa, ma ce ne sbattiamo. Nelle nostre stesse città ci sono uomini randagi. Nelle nostre case o nei nostri condomini ci sono persone con problemi, figli bulimici, prostitute schiavizzate all’angolo della nostra strada (e dodicenni nelle ‘discoteche’), tossicodipendenti e alcolizzati, depressi, anziani (che ormai è una malattia!). Adotta un borderline, ce n’è uno proprio nel tuo quartiere. Dedicagli 20 minuti al giorno del tuo tempo. Oppure adotta un bimbo mutilato ugandese a distanza.
    Perché ti porti a casa un piccolo randagio che salvi dalla strada, magari anche due o tre, ma non adotti un orfano, non ti porti in casa un negretto? Sensibili solo a quello che si ha davanti agli occhi? spesso peggio, considerando che per le città vivono una fascia di esseri umani che ormai chiamiamo ‘invisibili’. Calci in bocca all’omino del semaforo, porto a casa il randagio. Preferisco avere sette gatti anziché un figlio. Sia mai che poi ha delle esigenze e pretende un confronto con me. Pretende da me qualcosa, lui che mi fa mettere in gioco la mia umanità e mi costringe a capire e a confrontarmi. Ammesso che l’antispecista senta di più di uno specista: perché succede tutto questo nelle nostre città e nel mondo? perché vedo tanta gente che guai a toccargli il cane che mangia solo cose sane, toletta regolare e pure il vestitino, ma non adottano un bambino? ha forse l’uomo meno dignità? un amore troppo costoso? tenere quattro gatti o un pastore tedesco ti costa meno che tenere un bambino? l’amore ha forse un prezzo? prendi un cane: amore a metà prezzo! la necessità è quella di ricevere amore a basso costo o quello del reciprocità o del donarlo? qual è la differenzia tra cane corso e un bimbo africano? che il cane ti ama, ma pretende da te meno impegno e meno soldi: il frettoloso mondo occidentale, fatto di soldi e dallo sfuggire responsabilità.
    Il cane spesso si macchia di incesto, pensa te! Il gatto uccide lucertole e uccellini ‘per gioco’, pensa te! Ma quello è istinto e a loro è concesso.
    Diciamoci la verità, spesso si vuole un sincero bene all’animale, perché sta zitto! perché è ai nostri comodi e comandi, corre non appena fischietti o batti le mani, perché ascolta senza parlare: una volta che l’hai portato a fare pipì e fatto mangiare, sta lì ad aspettare uno sguardo e una carezza. Sembrano le donne dell’ottocento! A servizio e a comando. Con loro possiamo trasformarci in tv: parlare e basta senza interessarci se l’altro capisce. Un essere vivente che ci trasmette emozioni ma che è a nostra completa disposizione perché sei tu a nutrirlo a scandirgli l’orario dei bisogni. Un amore che sembra schiavitù. Meglio lasciarli randagi come l’Aristogatto Romeo! A volte meglio ucciderli che fargli passare una vita con certi padroni. Certi padroni che non sanno che, se potessero parlare, li manderebbero AFFANCULO.

    • mcmicio ha detto:

      M’ha inserito male 😦 so zompate un po’ di righe all’inizio. Uff.

      Volevo dire che a prescindere che non è schizofrenico accarezzare il cane e mangiare il maiale senza chiedersi da dove proviene, ci si chiede come il discorso sul cibo non sia traslato su tutte le altre merci (vestiti, macchine, libri, circuiti elettronici dei computer, preziosi, ecc), ma soprattutto sul resto dei rapporti umani, che sono il grande prodotto ad oggi mercificato. In merito alla “patosensibilità” (e ad un post poco sopra), credo che il sentimento tra esseri umani è ‘distante’ e tutto è più appannato dalla tecnologia e dal formalismo (dalla burocrazia e dalla meritocrazia da curriculum, aggiungerei), come in una fabbrica fordista, sentimento standardizzato, uniformato, industrializzato, commercializzato. Segue insomma il correre dei tempi. Se pensi a come si sono ridotti i rapporti umani, anche quelli “live” e non solo quelli facebook, capisci la critica di chi ti dice che –
      – è la desensibilizzazione verso l’altro essere umano che porta ad uno smisurato affetto nei confronti delle altre specie. Sull’isoletta iniziale, ammazzerei il cane per pietà nei suoi confronti: ma non per non vederlo morire di fame con me, quanto piuttosto per non costringerlo alle mie lamentele. La descrizione dell’animale come solo oggetto a servizio, come utente del nostro agire, [è] spaventosa. Lasciarlo vivere perché sennò io sto solo: quale destino crudele! Non penseremo mai questo di un uomo (ammettendo che ammazzo e mangio anche l’uomo, altro che ammazziamoci insieme!).

      Ecco, più o meno suonava così 🙂

  8. derridiilgambo ha detto:

    Sono d’accordo con te che ridurre i non umani a oggetto d’uso sia qualcosa di terribile. Ma bisogna discutere questo “uso”. Non potendo farlo diffusamente ora, mi limito a dirti che non credo che in generale gli animali cosiddetti “d’affezione” siano ridotti a tale condizione. Anche il più stupido compagno umano che veste il proprio cagnolino col tutù, pur dimostrandosi chiaramente antromorfizzante in questi gesti, investe tuttavia un’affetto gratuito e incalcolabile che si mostra per esempio – in maniera esemplare e lampante – nella disperazione davanti alla morte del proprio compagno canide. Ridurre questo affetto, tanto profondo da essere abissale, incalcolabile appunto, ad un “uso”, ad un “utilizzo”, mi pare davvero miope e ingiusto. Questo ragionamento dovrebbe immeditamente essere applicato a tutte le relazioni umane e a tutte le relazioni affettive in generale, il che mi pare una reductio ad absurdum di un niccianesimo davvero mal inteso.
    Piuttosto viene immediatamente, immediatamente di seguito, da chiedersi proprio come sia possibile, a fronte di quegli affetti, quella che tu stesso definisci schizofrenia e che però subito tenti di neutralizzare con argomenti certo non – come si usa dire con un eufemismo – peregrini, eppure posti male: posti male, in una mossa disonesta – non sto dicendo che tu sia una persona disonesta, eh, sia chiaro, lungi da me una simile scemenza, mi riferisco a sistemi e modi di pensiero che per lo più “ci pensano”, sovrastandoci – tipicamente specista, per cui il male del mondo dovrebbe esimerci dal compiere il “bene minore” che è in realtà l’unica possibile trasgressione che possa aprire all’affermazione di una giustizia che implichi tutti quanti. E infatti il discorso antispecista, al contrario di quelli genericamente “animalisti”, pone la questione dell’ingiustizia in cui tutti, umani e non umani, sono implicati, in un mondo sconvolto dall’oppressione di un capitalismo fascista – non ho tema di usare questo termine – e totalitario (ma questo E’ strutturalmente IL capitalismo nella sua essenza, e ci ridurremmo al ridicolo a immaginare che esso possa essere altrimenti, come se i, tutto sommato, pochi anni di keynesismo e socialdemocrazia fossero stati qualcosa di diverso da un’elargizione funzionale e discplinante). L’antispecismo nella prassi del pensiero come in quella dell’azione materiale, non fa altro che, continuamente, pensare e considerare l’ingiustizia che travolge i non umani come la stessa che, alla faccia delle dichiarazioni universali di diritti, colpisce gli umani.
    Ciò non toglie che, invece, quello che viene detto più genericamente “animalismo”, l’animalismo in generale – e c’è anche chi si rivendica come animalista NON antispecista – possa originare da misantropia e antropofobia – quello che è stato già chiamato “specismo speculare” e che io mi permetto di chiamare “autospecismo” – e persino da una fuga emotiva e sociale dagli umani, con i quali, detto fuori dai denti, non si riesce a stabilire rapporti significativi o quantomeno non distruttivi e iperfrustranti. Ma anche questo è un problema che si pone e che va posto, sempre e di nuovo, e possibilmente meglio di quanto fin qui si sia già fatto: si chiama alienazione, questo problema che fa struttura – e alla cui struttura tu accenni.
    Quindi no: non credo che la “compagnia” interspecifica sia sempre sfruttamento. E no: non credo che l’ingiustizia in generale ci esima dall’essere giusti, con umani e non umani. Però: sì. si può dare, e in effetti si dà, un animalismo che è una fuga dal problematico e, soprattutto, da quel “problema” che è più che un semplice problema fra gli altri che si chiama alienazione. E che va posto, non riposto ma di nuovo e meglio ri-posto.

    • mcmicio ha detto:

      “Anche il più stupido compagno umano che veste il proprio cagnolino col tutù, pur dimostrandosi chiaramente antromorfizzante in questi gesti, investe tuttavia un’affetto gratuito e incalcolabile che si mostra per esempio – in maniera esemplare e lampante – nella disperazione davanti alla morte del proprio compagno canide. Ridurre questo affetto, tanto profondo da essere abissale, incalcolabile appunto, ad un “uso”, ad un “utilizzo”, mi pare davvero miope e ingiusto”
      io non dico affatto che non ci sia amore smisurato, ci mancherebbe! io credo che quel che la bestia ti dà di differente rispetto ad un uomo, è il ritorno. Non la quantità/qualità di amore nostro nei confronti della specie differente, ma quello che riceviamo: amore smisurato e incondizionato che non ci lega a particolari obblighi, se non quella di porre e disporre della sua vita biologica: dargli da mangiare e portarlo a pisciare. Un canarino non vive la crisi adolescenziale, un gatto la crisi di mezza età, un cane non ti diventa abulico o depresso: gli umani hanno dei problemi che siamo tenuti emotivamente ad affrontare se vogliamo intessere una relazione. Ci investe una emotività ed una empatia diversa il fatto di essere della stessa specie; c’è anche addirittura immedesimazione che con una tartaruga marina sinceramente riesco difficilmente a capire. Non sono tenuto a star lì ad ascoltare i problemi di tira e molla col fidanzatino del mio cane, mentre di mia sorella si; il cane vive con me e decido io i suoi spostamenti: non mi ‘tradisce’ mai, non ha altri amici. Spesso abbandoniamo amici, fratelli e sorelle, costruendo rapporti distruttivi e frustranti. Non essendo capaci di comunicare o di insegnare all’altro come comunicarci le cose.

      “[…] il male del mondo dovrebbe esimerci dal compiere il “bene minore” che è in realtà l’unica possibile trasgressione che possa aprire all’affermazione di una giustizia che implichi tutti quanti.”
      non dico nemmeno questo, dico che il male del mondo deve essere combattuto con la stessa intensità e che è sciocco combattere l’abbandono dei cani sull’autostrada con tanto fervore quando si trascura totalmente l’abbandonano degli anziani all’ospizio: mi sembra una scelta malsana di indirizzo delle proprie energie di contestazione. Uno specismo nei confronti dell’uomo che spesso è considerato meno. L’uomo vecchio, l’uomo bambino, l’uomo randagio, l’uomo malato. O si ha la forza di combattere entrambe le ingiustizie con pari intensità, oppure si compiono delle scelte: ed ogni scelta è in sé specista, a questo punto. Combattere contro le pellicce di visone perché fisicamente le vedi, ma non chiederti chi ci ha rimesso la pelle (e spesso non solo metaforicamente) per gli abiti che porti te, è ipocrisia no? combattere per i diritti umani nei paesi dove le nostre merci sono prodotte, non può essere una battaglia meno intensa del tirare le uova marce fuori a teatro sulle pellicce delle signorotte. Sennò è autospecismospecismo e sinceramente non comprendo la differenza tra animalisti e antispecisti, quando mi parlano: spesso si confondono anche loro! Io sono certo che sia sbagliato uccidere per un vezzo qualsiasi forma di vita e non nascondo le mie nefandezze dietro al male più grande (l’errore del ‘bene minore’ come lo chiami tu, io lo rovescio: non compro la pelliccia perché tanto ci sono le tratte delle puttane dall’est europa contro cui bisogna battersi).
      Infine credo che si: la compagnia e le relazioni umani abbiano la stessa conformazione del mondo circostante e pertanto siano viste in maniera capitalista e dunque vissute in maniera utilitarista. Una compagnia animale conviene perché non parla.
      E poi no: certo che no! L’ingiustizia non ci esime dall’essere giusti, ma ci impone di scegliere ed indirizzare bene il nostro lavoro di contestazione della stessa.

  9. derridiilgambo ha detto:

    Non sono d’accordo: il rapporto con altre specie comporta una quantità di problemi, conflitti, sofferenze, sbagli non minore dei rapporti umaani intraspecifici.
    Pensare il contrario è specista, e in questo senso si deve ammettere che ci sono un sacco di animalisti specisti, di antispecisti sedicenti, ma anche di onnivori in qualche modo più antispecisti di questi ultimi.
    Essere vegan è un conto, essere antispecisti in alcuni ambiti un altro, raggiungere un antispecismo non “totale”, ma sufficiente e sufficientemente radicale un altro ancora. Ovviamente questi sono idealtipi che non si danno nella realtà, non così nosologicamente, ma è bene aver presente che non basta essere vegan, abolizionisti e manco antirazzisti, antisessisti ecc… per essere “sufficientemente” antispecisti. Antispecismo è una conversione radicale del pensiero e dell’interezza dell’approccio al mondo che immerge in uno spazio pressocché inesplorato a partire dal quale il mondo così come lo conosciamo non può che esserne scolvolto. Poco sappiamo delle specie più vicine a noi, figuriamoci di un pipistrello – per stare al classico esempio “differenzialista” – di una tartaruga, di un verme, per non parlare di una pianta o di un fungo. Non ne sappiamo – ancora – niente. E non sappiamo PIU’ niente di cosa sia una specie, un genere, perfino un regno, a partire da tale conversione sconvolgente: e manco più che sia un individuo, una collettività, una relazione, un’esistenza, un comune. Va in gioco tutto, anche se parecchi antispecisti non sarebbero d’accordo e rifiuterebbero una simile prospettiva e un simile rischio. Il punto, riguardo alle diverse cerchie del cosiddetto “animalismo”, ruota proprio attorno a tale necessità e alla disponibilità di riconoscerla e corrispondervi.

    Sul fare e sulle energie: la maggior parte degli antispecisti è impegnata direttamente in lotte intraspecifiche.
    Ciò non toglie che, dato che con chi si occupa di umani non vi è, per lo più, alcuna reciprocità in merito alle lotte in generale, tendenzialmente un antispecista si occupa di più di lotte che riguardano le discriminazioni di specie. Mi pare un’ovvietà in termini sia etici che politici che logici

  10. Steve Andys ha detto:

    Ma perché nessuno si occupa dell’uccisione di forme viventi come insetti, microbi, e anche ciò che può infestare il nostro corpo e quindi che deve essere ucciso? Non esiste morale nella Natura!

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