il “Mattatoio” recensisce Flatus Vocis

di Massimiliano Forgione,

Apparso il 2 Aprile 2012 su “il Mattatoio: giornale indipendente”

E’ sicuramente una ricerca lunga e affascinante quella che caratterizza la vita del giovane filosofo Leonardo Caffo di cui non possono passare inosservate la portata della riflessione e le prese di posizione frutto di una preparazione appassionata.
In Flatus vocis, suo ultimo saggio, sviluppa un ‘breve invito all’agire animale’; attraverso una bibliografia ricca che comprende anche le sue precedenti pubblicazioni, Caffo offre una possibilità di uscita dalla gabbia di una società violenta e assurda qual è quella che abbiamo ereditato e contribuito a consolidare.
Ci sono due distinzioni da operare: atto-azione, uomo-cittadino. In quella che è diventata una dicotomia risulta il vero disastro che caratterizza la nostra quotidianità.
Nell’incuranza dell’azione c’è tutta la tragedia dell’atto e non è una contraddizione affermare che, ognuno di noi, è diventato portatore inconsapevole di un ‘agire’ intenzionalmente negativo fino a diventare, nella grande tragedia umana, mortifero.
Soffermiamoci su quanto Caffo ci dice:
Facendo della ragione un fine e non un mezzo per indagare la realtà, la volontà cieca di fare della filosofia una scienza, ha reso vana ognuna di queste presunte conquiste teoriche in quanto fondate su una fallace premessa: l’uomo può conoscere la realtà attraverso la logica e la razionalità. L’ossessione dell’antropocentrismo è squallore assoluto.
Così, dopo aver messo al bando la filosofia accademica, da salotto, Caffo ci dice che per operare una ‘riflessione intorno al bene’ e ricominciare a profonderlo attraverso ‘epifenomeni’ che fanno dell’uomo un animale sociale (giustizia, politica, cultura) è necessario dar luogo ad una destrutturazione del nostro stesso essere per poi consegnarci ad una disinteressata formazione di un nuovo ‘io sociale’.
Ecco, da qui diventa possibile esperire la ricostruzione dell’uomo, spogliandolo della corruzione della dimensione di cittadino che ha obbligato l’individuo ad una mera sopravvivenza. Passare da questa dimensione a cui siamo stati relegati e riappropriarci di una ‘vita significa dar luogo ad una inversione e, finalmente, uscire dalla condizione di esseri umani invertiti’.
Allora, nella condizione da ri-creare si dovrà partire dall’osservazione dei comportamenti del cittadino per agire, esattamente, nel modo contrario.
Concentrarsi sull’atto diventa essenziale in quanto è in esso che risiedono i fondamenti di una società ‘nuova’ di cui sono stati recisi i fili spinati che segnavano i confini del ‘lager’. Però, è necessario concentrarsi sui significati degli atti della ‘società lager’ per riformulare delle azioni, dei movimenti, che ci conducano ad atti inediti, fondamento di una nuova società orientata in senso ontologico e spogliata della settaria dimensione identitaria, pura ‘entità teorica inesistente’ di cui l’uomo si è farcito l’esistenza per giustificare la propria presenza nel mondo che, così, diventa espressione di arroganza e sopraffazione, perché è chiaro che, le categorie dell’inferiorità tra diversi, sono estendibili all’infinito.
Occorre giustiziare un modello malato di convivenza e la considerazione della morte è un buon inizio: nella ‘tragedia della morte animale’ ‘ritroviamo l’insensatezza delle nostre azioni, la precarietà dell’atto’. Proprio nel morire, ‘nella corporeità martoriata e nella privazione dell’espressione dobbiamo ricercare l’animale che dunque siamo affinché, il nostro agire, possa ricominciare ad essere sincero’.
In questa ricerca del nuovo possibile l’imprevedibilità è ciò che caratterizza l’agire dell’animale uomo e mette in crisi il sistema, le società del capitale che c’hanno assicurato un’accettabile ‘tranquilla disperazione’.
E’ un cambiamento lungo, difficile, che dovrà fare affidamento su ‘quei pochi che hanno sbirciato’ ‘oltre la siepe’ per vedere ‘lo schifo che avvolge le nostre vite ovattate’ e dare luogo al ‘cambiamento’. I più, ‘che non hanno mai visto fuori dalla galera’, opporranno tutta la loro cieca resistenza e allora, la lotta, diventa indispensabile anche per loro. Avere coscienza della prigionia e della morte equivale ad appropriarsi di una discreta consapevolezza della vita. Ed è in questa nuova coscienza che si scioglierà quel legame intimo tra cittadino e capitale nella fatua ‘vanità di avere’ e desiderare (che forse crea danni maggiori) ‘tutto e di non dare nulla’, in quanto ci si sente esentati dall’implicazione umana, dall’essere, appunto, uomo, quindi fuori dalla storia, ma dentro l’azione e l’atto prevedibili.
Scoprirsi enti imprevedibili e uscire dalle categorizzazioni del giusto ed ingiusto, normale e diverso, bene e male; il corpo che precede la mente, creando un nuova armonia, sconvolge il sovrasistema che, spiazzato, perde gli anticorpi per poter reagire. Riaffermare la dignità dell’azione in una sua ritrovata responsabilità significa riappropriarci della decenza di esistenze che smettono di essere insulsi ‘tubi digerenti’. L’uomo che incomincia a comunicare attraverso un nuovo linguaggio potrà dare un senso a quanto effettivamente viene avvertito come fenomeno che impedisce di guardare al di là della siepe, destrutturare la grande impalcatura di questa oscena messa in scena significa abdicare le forme dell’intrattenimento collettivo, della rappresentazione umana, della spettacolarizzazione dell’orrore e della falsa partecipazione.
La storia stancamente ci propone delle cronologie di eventi, delle gerarchie di gruppi e ruoli sociali, uno squallido andamento circolare del tempo che non cambia, mai, la stupidità della sua ripetizione; così, ad una piramide si sostituisce un grattacielo popolato di disperazione ai piani bassi e di cinismo e menefreghismo man mano che si sale. Sovvertire l’ordine, o meglio fare in modo che non ci sia più un ordine, è la vera buona novella, la rivoluzione copernicana di una filosofia che torni ad essere strumento di vita e smetta di trascinarsi stancamente nei salotti televisivi, nelle aule universitarie, di appoggiarsi sugli scaffali delle librerie per solluccherarci in vani e vacui stati di appagamento per una vita che possa, nonostante tutto, sembrarci sopportabile.

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