Interludio: preludio giocoso-evenemenziale
di Antonio Volpe
L’abissale gioco dei coesistenti[1]
«Αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη»[2]. Il Tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera. E’ il regno di un fanciullo.[3] Alla fine de Il Principio di Ragione[4], Heidegger, intendendo Αιων come «il cosmo, il mondo che si fa mondo e matura portando in quanto la disposizione dell’essere a un fulgore incandescente»[5], e quindi come «destino dell’essere» in quanto «fanciullo che gioca», scrive:
[…] Il fanciullo più grande, reso regale dalla delicatezza del suo gioco, è quel mistero in cui l’uomo, con il tempo della sua vita, è posto in gioco nella sua essenza.
Perché il grande fanciullo scorto da Eraclito nell’ Αιων gioca il gioco del mondo? Gioca poiché gioca.
Il “poiché” sprofonda nel gioco. Il gioco è senza perché. Il gioco gioca giocando. Esso rimane soltanto gioco: il più alto e il più profondo.
Niente è senza fondamento. Essere e fondamento: lo Stesso. L’essere, quanto fondante, non ha fondamento: esso gioca come il fondo abissale, l’abisso senza fondo di quel gioco che, in quanto destino, ci lancia l’essere e il fondamento.
Rimane la domanda se e come, sentendo le frasi di questo gioco, i tempi di questa composizione musicale, noi siamo in grado di partecipare al gioco inserendoci in esso.[6]
Il gioco gioca giocando: questo gioco è, come la Rosa di Silesius, senza perché. E’ senza uno scopo, se non il gioco stesso. E’ senza posta, se non, di nuovo, il giocare. Non è certo una partita. Non ha regole pre-scritte. Ciò che accade, accade nel gioco, giocando: le regole si danno semmai come effetto del gioco. Eppure: le regole, se si danno, si danno comunque in relazione a una loro assenza, a un’assenza di fondamento, che le ri-mette in gioco ri-mettendole ad esso, in una mise-en-abîme spiraliforme e incessante. E in conclusione, se una regola si dà, questa regola è il gioco. Detto più heideggerianamente, è il fondamento (Grund), che non cessa di restare in relazione con l’assenza che lo pone (Ab-Grund come il fondo abissale che “lancia il fondamento”) e che insieme lo sospende (Abgrund come abisso senza fondo). L’essere, lanciato insieme al fondamento, resta in relazione con il niente come suo velo, come suo ritiro, come mistero[7]. E’ chiaro qui che ci si debba sbarazzare delle interpretazioni fondazioniste di Heidegger, come di quelle che mi permetto di raccogliere sotto la categoria di fondamentalismo anti-heideggeriano[8], e intendere il destino dell’essere come l’insieme non omogeneo di invii destinali[9] che costituiscono la sua tras-missione” – costruendo così la tra-dizione onto-teo-logica occidentale, lavorando contemporaneamente a de-costruirla, in un processo di autoconsumazione – e non come una catena necessitante, che, come in Hegel, porta a compimento un’origine. Altrimenti ogni comprensione del gioco come gioco abissale che ci può liberare dai fondazionismi – in quanto tali sempre comunitaristi e sacrificali – ci resta sbarrata. Porci in ascolto di questa Fuga, raccogliere la palla che il fanciullo ci lancia, non è altro che scorgere, nel compimento del Ge-Stell, la tecnica moderna dispiegata come compimento della metafisica – dell’onto-teo-logia – occidentale, il primo bagliore dell’Ereignis, dell’evento. A partire da questo baleno corrusco possiamo cominciare a intendere l’essere stesso come evento e non più come struttura: l’evento non è una manifestazione della struttura dell’essere, ma il suo accadere puntuale (Heidegger userà la frequente formula Zeit-Spiel-Raum, gioco di spazio-tempo, per nominare l‘accadere appropriante dell’Ereignis. Lo Zeit-Raum – spazio-tempo – sarà als der Abgrund – come abisso – in un paragrafo dei Contributi alla filosofia[10]) . Detto con una piccola forzatura, è l’evento a fare l’essere, e non (più) il contrario. Un gioco, appunto. Il gioco dell’essere, l’essere come gioco. Il gioco del mondo, come avrebbe detto Eugen Fink[11]. In questo accadere storico dell’essere come evento, come accadimento puntuale, discreto, discontinuo, d’essere, si dà la possibilità di una spazializzazione dell’essere dell’ente che si fa udibile come transito degli esistenti – secondo la formula l’essere ‘è’ gli esistenti, dove il verbo essere si fa transitivo nel senso di trans-ire, tras-locare, tra-dursi nell’esistenza come sua posizione originaria, di là da ogni posizione e origine – come la rete infinita delle relazioni degli esistenti, la cui (co)esistenza non si pone, perché è posizione senza alcun porre, senza alcuna origine[12]: più che un luogo dell’avvenire dell’esistenza, l’aver luogo di essa.
A che ci serve tutto questo? Non sembra forse un discorso completamente astratto, calato dall’alto e dal di fuori, rispetto al nostro discorso iniziale? Ma che succede, che accade, se, nello spazio di guerra del bio/zoopotere, ci mettiamo a giocare, proprio come il fanciullo divino di Eraclito, e come fanno gli animali? (E’ chiaro da tempo che, nonostante quello che ci ripete la vulgata dei documentari televisivi, gli animali, come i bambini, giocano per giocare, e non, secondo un malintesissimo darwinismo, per prepararsi a predare: il che, al limite, è una conseguenza, utile ma accidentale, dell’inutilità del gioco.). Che succede se, profanandolo, ci mettiamo a scorazzare per lo spazio del sacro, giocando? Essendo che:
[…] il gioco libera e distoglie l’umanità dalla sfera del sacro, ma senza, semplicemente, abolirla. L’uso a cui il sacro è restituito è un uso speciale, che non coincide con il consumo utilitaristico.[…] Come la religio non più osservata, ma giocata, apre la porta dell’uso, così le potenze dell’economia, del diritto e della politica, disattivate in gioco, diventano la porta di una nuova felicità[13]
che è già (questione) politica, ma non di una politica di potenza, di potere, di organizzazione del consenso, di biopolitica. Ma politica come questione della felicità.
Che succede, dunque, se opponiamo, in maniera non reattiva, ma attiva – in un attivazione della passività, della passione, che non le nega, ma le espone, esibisce e proietta – e trasformativa, ad una legge che vige senza significare[14], la proliferazione ipersignificante del gioco della co-esistenza, in cui appunto gli esistenti sono liberati all’esposizione singolare plurale della co-esistenza come con-divisione – in cui la distinzione, impedendo l’orgia dell’immanenza comunitaria, la fusione in un sovra-corpo hobbesiano, permette piuttosto il con-tatto? Che ne è dello spazio del sacro, in questa profanazione, che tiene insieme ludus e iocus, cioè il gioco e lo scherzo? Un gioco come quello benjaminiano, che ripeta all’infinito nel quotidiano un’esperienza sconvolgente, ma senza origine, senza inizio né fine – né una né un fine – in cui l’inizio è già ripetizione[15], e ogni ripetizione è (l’/un) irripetibile (differenza). Se, come credo, la tecnica moderna dispiegata nel Ge-Stell è non identica al biopotere, ma, detto con una formula un po’ heideggeriana, quasi la stessa cosa detta altrimenti: che ne è della concatenazione necessitante che lega gli enti fra di loro facendone una megamacchina planetaria in cui le esistenze sono calcolate, messe al lavoro e messe a valore, se in tale catena fa irruzione l’essere come evento e gioco, l’essere come evento di un essere singolare plurale, moltiplicando in essa «l’anello che non tiene», scovando «il punto morto del mondo»[16] ridotto a macchina e passandoci «il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità» del mondo – come evento, come gioco? Non potrebbe, tale profanazione aprire quel «male/ che tarla il mondo, la piccola stortura/ d’una leva che arresta/ l’ordegno universale»[17] e farci capitare lo spettacolo di vedere «tutti […]/ gli eventi del minuto […]/ disgiungersi in un crollo»?
Insomma la liberazione di una temporalità discreta – e quindi multipla, dove una retta punteggiata possa star di fianco al cerchio, alla spirale, alla Senna percolante di Serres[18], in un insieme di invii destinali non organico – in cui gli enti non siano più incapsulati in una catena necessitante, né tanto meno gli enti esistenti, liberati questi al loro essere singolare plurale, al loro gratuito essere offerta, e perfino gli oggetti alla loro cosalità di cose. Come un muro di ghiaccio che a primavera crollasse in una cascata d’acqua.
Precisiamo che questa non è affatto una proposta di luddismo antitecnologico, tantomeno di primitivismo. Il quasi che preponevo sopra nel dire che Ge-Stell e bio/zoopotere sono “la stessa cosa detta altrimenti”, significa proprio che mentre il bio/zoopotere è in qualche modo il compimento che chiude dell’onto-teo-logia occidentale, la tecnica dispiegata nel Ge-Stell è il compimento che apre verso un fuori: il loro rapporto è lo stesso che intercorre fra l’interno e l’esterno di un bordo. La disarticolazione del bio/zoopotere è possibile proprio nel Ge-Stell, che libera il balenare dell’Ereignis, dell’evento, aprendo una fenditura nel pensiero calcolante. Questa possibilità è data proprio dal fatto – o dall’evento – che se nel Ge-Stell dell’Essere non ne è più niente, l’essere potrà finalmente essere pensato come ni-ente, non ente, rammemorando la differenza ontologica, e quindi, di nuovo, l’essere come verbo – come verbo, come evento; come verbo ed evento dell’esistenza finita, che è co-esistenza: forse, infine come questo con, fra, inter, come relazione. Non si tratta quindi di espellere la tecnica – ammesso e non concesso che ciò sia possibile, e che si dia un luogo: umanità, animalità o natura, da cui espellere. Ma neanche di lasciarla lavorare, semplicemente. Perché l’impatto sulla tecnica dell’evento dell’essere come evento – come accedere storico dell’essere come evento, dell’essere e dell’esistenza finiti – non può lasciare la tecnica, tantomeno la scienza, immutate. Questo evento produce – lascia essere – una trasformazione della tecno-scienza che è già visibile laddove il pensiero calcolante entra in contatto, tocca, il suo altro: chiamiamolo pensiero poetante o semplicemente pensiero, forse non è così importante[19]. È quindi il mondo intero, per così dire, che entra in gioco, in gioco nel gioco dell’essere – o anche: del mondo – come evento e gioco. Forse una tecno-scienza senza bio/zoopotere? Certo è che molto cambierebbe per gli umani, ma moltissimo per i non umani. Se nel gioco del fanciullo va in gioco l’essenza dell’uomo, essa non può più andare in gioco, giocare, senza che in gioco e nel gioco ci vada quella dei non umani. Correggeremo dunque il testo heideggeriano con mortali, al posto di uomo. Un termine che, aprendo un’ambiguità, lo stesso Heidegger usa spesso. Quando parla del Geviert (il quadrato dei quattro: cielo e terra, divini e mortali), che sta in rapporto essenziale con il gioco, la relazione, e il silenzio
il dire originario (Die Sage) che infonde il moto al quadrato del mondo, aduna ogni cosa nella prossimità dell’esser l’uno di fronte all’altro, e questo adunare è silenzioso, come silenzioso è il temporalizzare del tempo, lo spazializzare dello spazio, come silenzioso è il gioco dello spazio del gioco temporale. Quell’adunare con appello silenzioso, con cui si identifica il movimento infuso nel mondo dal dire originario noi lo chiamiamo: il suono della quiete. Esso è il linguaggio dell’essenza[20]
E quando parla del Geviert in rapporto con il gioco, la relazione (appropriante-espropriante-transpropriante) e il mondo:
Terra e cielo, i divini e i mortali sono reciprocamente connessi, di per se stessi uniti a partire dalla semplicità dell’unica Quadratura. Ognuno dei Quattro rispecchia (Spiegelt) a suo modo l’essenza degli altri. […] Rispecchiando nel modo di questo appropriante-illuminante-far avvenire, ciascuno dei Quattro di dà [sich zuspielt: si manda, come la palla nel gioco] a ognuno degli altri. Questo rispecchiare che fa avvenire libera ciascuno dei Quattro per ciò che gli è proprio ma lega i Quattro così liberati nella semplicità del loro essenziale appartenersi reciproco.
Il rispecchiare legante nella libertà è il gioco (Spiel), che confida ognuno dei Quattro a ognuno degli altri (das jedes der Vier jedem zutraut), grazie al plesso della traspropriazione che li trattiene (aus dem faltende Halt der Vereignung). Nessuno dei Quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificamente proprio. Invece, ognuno dei Quattro, all’interno della loro traspropriazione è espropriato in modo da divenire qualcosa di proprio (zu einem Egenen enteignet). Questo espropriante traspropriare è il gioco di specchi della Quardatura. In virtù di esso i Quattro sono legati nella semplicità che li affida l’uno all’altro (Aus ibm ist die Einfalt der Vier Getraut).
Il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi della semplicità di Terra e Cielo, Divini e Mortali, noi lo chiamiamo il mondo. Il mondo è (west) in quanto mondeggia. Ciò vuol dire che il mondeggiare del mondo non è spiegabile in base ad altro né fondabile su altro. […] l’inspiegabilità del mondeggiare del mondo risiede nel fatto che cose come cause e ragioni fondanti restano inadeguate al mondeggiare del mondo. […]. I Quattro, di per sé uniti, sono già irrigiditi nella loro essenza quando li si rappresenta come realtà separate che devono essere fondate e spiegate l’una in base all’altra.[21]
In questo famoso passaggio, Heidegger chiama gioco il libero affidarsi l’uno all’altro di ciò che si affida in questo gioco di connessione. Questo gioco è il mondeggiare del mondo. Non si tratta di una fondazione reciproca di ciò che sta in relazione; né di ciò che sta in relazione per il mondo o viceversa. Con Heidegger, credo senza troppe forzature, possiamo riferire – nel tempo del dispiegarsi dell’essere come evento – questa modalità di relazione, fuori dal Gievert, agli esistenti in relazione fra di loro e al mondo. Il gioco del mondo diviene allora, innanzitutto, quello delle relazioni dei coesistenti. I giocatori giocano fra di loro: questo è il mondo. Appena prima di questo passo, lo stesso Heidegger dice: «I mortali sono quello che sono come mortali avendo la loro essenza (weisend) nel riparo dell’essere. Essi sono il dispiegantesi (weisende) rapporto all’essere come essere»[22]. Dato che
La morte è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tutta via è (west) e addirittura si dispiega con il mistero dell’essere stesso. La morte in quanto scrigno del nulla, alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere (das weisende des Seins). In quanto scrigno del nulla la morte è il riparo dell’essere.[23]
Eppure dice, secondo un celebre adagio che comincia con Essere e Tempo, che «I mortali sono gli uomini. […] Morire significa essere capaci della morte in quanto morte. Solo l’uomo muore. L’animale perisce. Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé»[24]
Ma Heidegger parla di mortali anche in altri vagabondaggi meno citati: in Per che i poeti?[25] assegna ai mortali, in quanto «se si considera la loro essenza, essi appaiono più vicini alla non-presenza (Ab-Wesen), perché sono investiti dall’esser-presente (An-wesen), cioè dall’essere»[26], il compito di scendere, secondo i versi di Hölderlin «più in fretta all’abisso»[27], dove «Si volge allora l’eco insieme a loro./ Lungo è il tempo/ ma il vero accade»[28]. Scrive infatti Heidegger: «Posto che, in genere, a quest’epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge a partire dall’abisso»[29].
Di nuovo, è lo stesso Heidegger ad avvisarci che i mortali in questione sono umani: ci avvisa ciò del suo stesso logo-antropocentrismo. Come vedremo, ne I concetti fondamentali della metafisica. Solitudine – Finitezza – Mondo, a rendere gli umani mortali, e non semplicemente perituri è l’in-quanto-tale costitutivo della mondità dell’uomo, che rende persino possibile un λόγος, e uno Sprache. Eppure, resta, il termine mortali. E si affaccia di continuo, l’animalità, Per che i poeti: come problema, ma anche nella metafora rilkiana delle api dell’invisibile. E usa un passo di Herder singolarmente ambiguo, Heidegger, per indicare il linguaggio:
Un soffio dalla nostra bocca diventa il quadro del mondo, l’impressione dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti nell’anima degli altri. Dal moto di un soffio dipende tutto ciò che sulla terra gli uomini hanno pensato, voluto e fatto, e ciò che faranno di umano; tutti noi ci aggireremo ancora nelle foreste se quel soffio divino non ci avesse avvolti nel suo calore, e non pendesse dalle nostre labbra come un suono magico.[30]
Una seconda dichiarazione di logocentrismo, e di aperto antropocentrismo, addirittura. Eppure: quel soffio che avvolge col suo calore: come non pensare al fiato animale? Al bue e l’asinello biblici e a tutte le loro ripetizioni, nella scrittura come nella realtà, e, ovviamente, al rapporto di molti umani coi loro compagni non umani? Come non pensare al canto ipermodulato degli uccelli, ascoltando di quel “suono magico”, come metonimia per tutti i, plurali, canti e versi animali? Animali dal “soffio divino”?
Come sarà mai possibile? Ma non hanno, in effetti, in comune la cosa che a noi pare più importante, dèi e animali, il gioco? Che Heidegger, che sempre per foreste si aggirava, continuasse, a sospettare qualcosa di più, o di più originario, nel rapporto fra umani e non umani, adocchiando continuamente a un’oscurità vertiginosa? In effetti, il celebre I concetti fondamentali della metafisica[31], in cui Heidegger stabilisce la tripartizione fra Dasein umano weltbildend (formatore di mondo), animale weltarm (povero di mondo) e pietra weltlos (priva di mondo), è un testo – come nota lo stesso Derrida decostruendolo ne L’animale che dunque sono[32] – pieno di esitazioni, tentennamenti e indugi. Un testo il cui argomentare circolare e spiraloide dà le vertigini, perché le questioni stesse – lo dice Heidegger e Derrida lo ribadisce – sono vertiginose. In un passaggio particolarmente denso di esitazioni, Heidegger pare quasi autodecostruirsi:
Un riflessione sommaria rende dubbio il fatto che la povertà in sé sia necessariamente quanto vi è di meno rispetto alla ricchezza. Potrebbe essere proprio il contrario […] Tanto siamo noi veloci nell’aver sempre pronta la valutazione secondo cui l’uomo è un essere superiore nei confronti dell’animale, tanto dubbio è questo mondo di giudicare […] C’è, in generale, in quanto è essenziale, un “più alto”, un “più basso”?. L’essenza dell’uomo è più alta dell’essenza dell’animale? Tutto ciò è dubbio già solo come domanda. […] Da tutto quanto abbiamo detto risulta chiaro: se parliamo di una povertà di mondo e di una formazione del mondo, ciò non deve essere fin da principio essere inteso come nel senso di un ordinamento gerarchico di carattere valutativo. È vero che in tali formulazioni si esprimono un rapporto e una differenza, ma sotto un altro aspetto.[33]
Qui il filosofo che continuamente si preoccupa dell’organizzazione totale del vivente, che darà scandalo paragonando – e se non fosse più un tabù, ora, rivendicarlo? – agricoltura intensiva (agro-tenia e zoo-tecnia sono, anche storicamente, le due facce della stessa medaglia), camere a gas e bomba all’idrogeno, appare non solo quasi un antispecista ante litteram, ma perfino un libertario. Poche pagine dopo l’esitazione produce una folgorazione:
Invece la vita è un ambito che ha una ricchezza di essere aperto che forse il mondo dell’uomo non conosce affatto[34].
Si potrebbe cominciare a rendere giustizia al filosofo di Messkirch col ribadire che, come noto, per Heidegger il λόγος non coincide con lo Sprache, il linguaggio umano, rivelandosi piuttosto come –l’abbiamo visto – quell’adunare con appello silenzioso dell’essere in cui gli enti si raccolgono nella loro essenza, che nel linguaggio umano si accasa.. Resta però tale rapporto ostinatamente privilegiato fra λόγος e linguaggio umano che sembra tracciare un differenziale incolmabile coll’animale: l’uomo risponde al silenzioso Dire Originario (Die Sage) dell’essere, con parole; ancora prima, tornando ai Concetti fondamentali, un rapporto esclusivo fra λόγος e l’«in quanto tale» (als Structur) formatore di mondo – per usare una metonimia: il Dasein resta infatti weltbindend, di contro all’animale weltarm, lungo un confine che pare non molteplice, non sfrangiato, non divisibile, non denso, che non permette distinzione di specie – né tantomeno di genere. L’animale è άλoγον perché non accede all’in quanto tale, che è l’accesso al – o il produttore di – mondo. Questo confine senza spessore fa sì che l’animale stia con l’umano in un rapporto di mit-hegen (accompagnarsi) e mit-sein (essere-con) che non è però un mit-existeren (co-esistere). E qui si manifesta però un doppio movimento che neppure Derrida sembra cogliere. Se l’animale è considerato privo di Dasein, e quindi, non potendo esistere, è privo della possibilità di co-esistere, egli, non dimeno, è-con, con-è. Sembra così cadere al tempo stesso dentro e fuori al/da quel mit che fin da Essere e Tempo costituisce una delle più radicali e misconosciute rivoluzioni, o meglio interruzioni dell’onto-teo-logia, compiute da Heidegger. E’ bene ricordarne qualche passaggio:
Sul fondamento di questo essere-nel-mondo con il carattere di «con», il mondo è già da sempre quello che io con-divido con gli altri. Il mondo dell’esser-ci è con-mondo. L’in-essere è un con-essere con gli altri. L’essere-in-sé intramondano degli altri è un con-esserci. […]. Questo con-esserci degli altri è aperto all’Esserci intramondano e con ciò anche agli Esserci che esistono con esso solo perché l’esserci è in se stesso essenzialmente un con-essere.[35]
Sarebbe perciò falsante domandare se l’essere-nel-mondo preceda il con-essere e faccia ad esso da fondamento, o viceversa. In questo spazio affollato e pieno di striature, ciò che è chiaro è che non si tratta di lanciare un ponte fra un soggetto e un altro, inserendo un elemento unificante che permetta il con di un inter-soggettività. Il soggetto qui è azzerato, il Dasein è rimesso immediatamente al Da che è un essere-nel-mondo che spazza via l’acosmismo di una tradizione che comincia almeno con Decartes. Immediatamente, cooriginariamente, l’essere del Dasein è un mit-sein, la sua mondità un mit-welt. Non c’è un soggetto che deve uscire da sé verso gli altri: gli altri sono già qui, già con lui – anche quando l’esserci singolare li ignora. Il soggetto non è più tale perché è già aperto – è già apertura – al mondo «come complesso di rimandi, che in quanto significatività, costituisce l’essenza del mondo» stesso: una sorta di sistema di relazioni non formalizzabili. Il soggetto è desostanzializzato: non è più subjectum, è, reciso il dualismo di res extensa e cogitans, esistenza. Co-esistenza.
Il con è talmente cooriginario, tornando ancora una volta ai Concetti fondamentali – in cui è detto, implicitamente, che l’animale muore (il verbo è sterben, come per l’uomo) –, da rendere la vertigine intorno all’abisso animale, una vertigine abissale:
Eppure [il cane] sale le scale insieme a noi. Si ciba con noi – no, noi non ci cibiamo. Pranza con noi – no, lui non pranza. Eppure con noi [lo fa con noi – Derrida]. Un accompagnarsi, una trasposizione, eppure no.[36]
Pare quasi ilinx,un gioco-vertigine, seguendo la terminologia di Callois: uno di quei giochi in cui con movimenti di accelerazione e caduta, ci si diverte a provocare uno stato di smarrimento, se non di perdita di coscienza.
E Derrida chiosa: «certamente l’animale non mangia come noi, ma d’altra parte nessuno mangia allo stesso modo».[37] Qui Derrida, ancora prima della modulazione dell’in quanto tale secondo le innumerabili differenze di specie, prima della suddivisione abissale della linea di confine, coglie il punto: nessuno mangia allo stesso modo, al di là, o al di qua, da ogni tassonomizzazione. Nessuno, al di là/qua di ogni tassonomizzazione, è nello stesso modo, esiste nello stesso modo. L’esistenza precede l’essenza, o, se vogliamo, riprendendo Heidegger con Nancy: «“L’’essenza’ del Dasein è nella sua esistenza”. Il ‘Dasein’ è l’esistente. Se la sua essenza (tra virgolette) è nella sua esistenza è perché l’esistente non ha essenza […] è offerto, presentato all’esistenza che egli è.»[38]. L’abissalità si sposta dal confine alla relazione e all’esistenza, riconfigurandosi da linea striata ad apertura inappropriabile. variando il Wozzek: «l’esistente è un abisso: dà le vertigini guardarci dentro»[39]. D’altra parte Derrida nomina fin all’inizio de L’animale che dunque sono, prima di mettere in atto la decostruzione dell’animale della tradizione onto-teo-logo-centrica, questo « sguardo il cui fondo rimane di uno senza fondo»[40] che lo guarda guardarlo: «Cosa mi fa vedere, questo sguardo senza fondo? Cosa mi “dice”, insomma chi manifesta la nuda verità di ogni sguardo, quando tale verità mi fa vedere negli occhi dell’altro, negli occhi vedenti e non solo visti dell’altro?»[41]
La risposta a tutte le domande che egli stesso pone sembra già darla all’inizio:
No e poi no, il «mio» gatto, il gatto che mi guarda in camera o in bagno, questo gatto che forse non è né il «mio« gatto né la «mia» gatta, non rappresenta qui, come ambasciatore, l’immensa responsabilità simbolica di cui la nostra cultura ha da sempre investito i felini […]. Quando risponde al suo nome […] questo gatto non si comporta come un caso della specie gatto. E ancora meno di un genere o di un regno animale. Sicuramente lo identifico come un gatto o una gatta, ma ancora prima di questa identificazione, il gatto mi viene incontro come questo essere vivente insostituibile che entra un giorno nel mio spazio, in questo luogo dove ha potuto incontrarmi, vedermi e vedermi nudo. Niente mi potrà mai togliere dalla testa la certezza che qui si tratta di un esistenza che rifugge da ogni concettualizzazione e per giunta di un’esistenza mortale, perché dal momento che possiede un nome, quel nome già gli sopravvive e firma la sua possibile scomparsa. Anche la mia – e questa scomparsa, immediatamente fort/da, si annuncia ogni volta che, nudo o no, uno di noi due lascia la stanza.[42]
E’ evidente che qui la questione della differenza – di tutti i modi in cui la questione della differenza si può porre – viene incrociata obliquamente da quella dell’alterità. E’ quel gatto, anzi quella gatta, di cui Derrida non ci dice il nome, ma che risponde al proprio nome, e che se ne conoscessimo il nome non diremmo più “quel gatto”, ma lo chiameremmo per nome, che Derrida incontra. Non è un gatto, forse nemmeno una gatta, è x, dove la x sta per il nome che Derrida, in nome forse della sua riservatezza, non ci rivela. Una singolarità irripetibile e irriducibile, una singolarità già da sempre in relazione, in relazioni plurali, esposta alla singolarità di quell’umano che ha – aveva – per nome Derrida, esposta alla pluralità inconteggiabile di quelle relazioni, al con-tatto e a tutti quei con-tatti, e a cui bisognerebbe dare del tu.[43]
Sarà forse meno incomprensibile, ora, il motivo per cui il filosofo che affermava che non c’è niente di più difficile da pensare della relazione, non sia riuscito a pensare l’animalità, o ancora meglio: la singolarità, l’esistenza singolare ancora prima di tale animalità, di tutti gli esistenti, senza farsi irretire dall’interrogare la differenza lungo la sua linea infinita (infinitamente spessa, ma non suddivisa): proprio lui non è riuscito a pensare l’animalità, anzi gli animali, la pluralità immensa delle specie, e, ancora prima, la singolarità irripetibile di quel cane, quel gatto, quella lucertola, quell’ape, quella chiocciola, a partire dalla relazione. Pensandola, al contrario, a partire dall’identità: quella del regno animale, della tripartizione degli enti in regni già subito appropriati a un’appartenenza, a una proprietà.
Qui non si tratta, allora, semplicemente di espandere, allargare un cerchio, una cerchia ontologica – né, tantomeno, etica. Né di retrocedere tutti gli esistenti dal welt heideggeriano all’unwelt di Uexküll. Pensati a partire dalla loro singolarità, tutti gli esistenti – anche se non sappiamo, non ancora almeno, cosa sia questo tutti[44] – sono già co-esistenti immersi in un welt (che implica l’umwelt) che è un mit-welt: un mit-sein che è una mit-existenz in tutti i sensi in cui la si può declinare: un’esistenza con-divisa nell’esposizione, in quello che Nancy chiama partage –, una partecipazione a niente, una spartizione di niente, che non sia l’essere singolare plurale dell’esistenza, senza origine né fondamento comune da spartire, senza appartenenza. Ma anche un’apertura all’ente in quanto tale secondo una modulazione infinita, infinitamente singolare (“nessuno mangia allo stesso modo”) dell’in quanto tale, delle grundstimmungen, dell’essere-per-la-morte, certo di un essere-mortale, della mortalità, che è un con-morire, un morire gli-uni-agli-altri. Uno muoversi preveggente nello spazio di significatività dei rimandi del mondo, e un comprendersi circolarmente – dato che non si capisce perché, se la modulazione dell’esistenza è infinita, agli umani dovrebbero toccare i significati e ai non umani solo gli strumenti, dato, per di più, che anch’essi si possono dare solo a partire dal loro significare e (quindi) rimandare (così come il corpo e la corporeità dei corpi, viventi e non). Una temporalità estatica – il passato di una gettatezza rimessa al futuro di un progetto che genera un presente gettando all’indietro il futuro, ecc… quindi un poter-essere. Insomma un Dasein, un esser-ci il cui ci è Lichtung, apertura illuminante-nascondente all’/dell’essere, che è un lasciar-essere l’ente e l’essere stesso secondo modulazioni di specie e singolari: e come potrebbe essere altrimenti, per esseri che giocano[45]? Come potrebbe essere altrimenti per esseri che, giocati dall’/all’/nell’essere, sono investiti dai suoi invii storico-destinali, talmente tanto che la loro essenza è da tanto tempo investita nella cattività in cui li hanno presi gli umani, nell’organizzazione totale del vivente che costringendoli non solo alla produzione (di carne, di pelle, di uova, di latte, ecc…, quindi: di se stessi), li costringe al contempo e perciò alla riproduzione – come se gli ebrei concentrati dai nazisti fossero stati costretti, nello sterminio, a riprodursi per poter essere sterminati all’infinito, fa notare Derrida –? Dal momento che nella cattura della loro zoé è catturato insieme anche qualcosa che non si può non chiamare bìos – perché la nascita e la morte e la loro com-parizione, la nascita e la morte che la com-parizione espone, è già politica, è già la politica, lo spazio di un ci che è polis, comunità che ormai non può più essere solo umana, a meno di non essere presa, di nuovo e ancora in un far opera di comunità che è opera di morte contro ogni mortalità[46]. E dal momento che laddove è catturata la zoé e un tale bios, è catturato contemporaneamente ormai lo stesso bìos umano, in un’oggettivazione del soggetto umano che è il compimento dell’onto-teo-logia, della metafisica del soggetto, che è cominciata proprio – dovremmo dircelo ormai – con l’oggettivazione dell’animale e la cattura del suo bìos – in una zoé indifferenziata, forse? Non sarebbe il gesto più antropocentrico, metafisico e specista di tutti, chiudere la cerchia dell’investimento storico-destinale dell’essere attorno all’uomo, e poi aggiungere, far dipendere, da esso, il destino di cattura da parte umana e di immensa sofferenza dei non umani, l’esproprio della loro esistenza? Chiudendoli così, di nuovo, fuori dalla possibilità di una liberazione, da un progetto di liberazione comune? I non umani non ci stanno già parlando? Non ci stanno già chiedendo e insieme offrendo la possibilità di una comune liberazione? Se è così, se i non umani hanno voce, se hanno linguaggio – e la prova non dovrebbe essere ormai onere di chi lo intercetta, ma di chi lo nega, onere di provare che così non è –, allora forse i non umani, offrendoci quella possibilità, stanno già rispondendo all’appello dell’essere, prima di noi umani. Ma davvero «noi siamo un colloquio, e questo significa: possiamo ascoltarci l’un l’altro. Ma questo significa al contempo sempre: noi siamo un (solo) colloquio»[47], dove l’un non dice solo de il rapporto di chiamata-risposta con l’essere, ma anche e innanzittutto di un cum che è il cum stesso di una comunità impossibile, una comunità che non fa opera di sé, il con che fa la nostra coesistenza: un con non riassorbibile in un origine, in un fondamento (ripetiamolo, ancora, con le parole del primo Heidegger: «il con-essere è la determinazione metafisica fondamentale della disseminazione»[48], essendo già al di là della metafisica). E allora da questo colloquio, in tempo di povertà, si deve ripartire, senza inaugurare, ma ripetere differenziando. Se infatti l’essere άλογον dei non umani si rivela come una determinazione storico-destinale che nega il loro λόγος, che nega loro il λόγος è un destino comune a legarci, a con-involgerci, dato che noi umani «Siamo un segno non significante./ indolore, quasi abbiamo perduto/ nell’esilio del linguaggio».[49] Ma insieme, il nostro essere Ab-Wesen e quel loro essere àlogon ci con-in-volgono verso un capovolgimento – che è una capovolta, un capitombolo – del mondo a partire dall’abisso (Ab-grund) «tutto ritenente»[50]. Eraclito diceva:
ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει
I confini della ψυχῆ [anima, ma prima ancora respiro, soffio vitale, quindi per metonimia: il mondo, l’essere] vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: tanto è profondo [abissale] il suo λόγος [legge, essenza, ma anche discorso: colloquio?] [51]
Se il λόγος dell’essere è tanto βαθὺς da non avere confini, allora non sarà tale λόγος, infine, privato abissalmente di se stesso? E quindi άλογον? Un άλογος che è άβυθος? E come potrebbe, tale άλογος, non stare in relazione con l’ άλγος di questo tempo di povertà, dell’immensa sofferenza animale, ma anche umana? Attraverso cui chiama la nost-algia, la stessa con cui comincia I concetti fondamentali della metafisica, la heimweh? Ma non abbiamo già fatto, ormai, quel capitombolo, quella capriola, piroetta? Che, diversamente da un capovolgimento, ci ha riportato allo stesso punto, nella stessa posizione? Non ci ha portato questo che forse è stato un gioco-vertigine, un ilinx, un girare o un capovolgersi su se stessi fino a uno smarrimento, a una modificazione dello stato di coscienza, nello stesso punto, che però è completamente diverso? Il mondo è lo stesso di prima, ma non lo è più. Si è insinuata una differenza impercettibile e insieme abissale, dal momento che chi prima ci teneva “solo” compagnia, ora esiste con noi.[52] S’è insinuata una sottile differenza che si spalanca in un’apertura abissale non richiudibile. L’abisso “tutto ritenente” si è sventagliato fuori da se stesso. La ricchezza di apertura dei non umani ripiegata nella povertà di mondo si è spalancata mutando il mondo, da cima a fondo, abissalmente, dispiegando una βαθὺτές, che insieme a profondità abissale è anche abbondanza. La heimweh che ci ha fatto giocare ebbramente ci ha aperto un futuro possibile. Nessuna regressione, il «desiderio [che è la filosofia, in quanto essenzialmente nostalgia, heimweh ] di sentirsi dovunque a casa propria»[53] si realizza in maniera paradossale: ci sentiamo a casa perché ovunque è spaesamento, ed essendo essenzialmente forestieri, vagabondi, erranti, apolidi, è in tale spaesamento (Unheimlickeit) che ci sentiamo, siamo, a casa (Heim). La nostra dimora è il mistero (Geheimniss).
Il mondo è cambiato. Ma per chi? Per pochi? Per me e per te, lettore? Quanti lettori siete? In quanti leggono mentre tu leggi? Han letto o leggeranno quel che stai leggendo? In quanti siamo? In quanti saremo? In quanti, in ritardo e in anticipo sull’appuntamento?
Eppure
Lungo è il tempo
ma il vero accade[54]
Intanto, volgendoci insieme all’eco, noi abbiamo, senza neanche accorgercene, cessato di esitare, e proprio andando nel gioco abissale, abbiamo varcato quell’oscurità in cui λόγος non rimanda solo al linguaggio, linguaggio umano, ma a uno plurale, modulazione vocale secondo le specie – e i singoli. E quindi: voce. ma anche mimica e linguaggio corporei, gesto, sguardo. Con-tatto. Se ad andare in gioco, nel gioco del fanciullo, è l’essenza di umani e non umani, allora, in questo gioco della coesistenza, radicalizzando Vincianne Despret, umani e non umani possono darsi la possibilità di mutare fin nella propria essenza permettendo in una relazione reciproca che trasformi entrambi in una reciproca trasformazione, in direzione non tanto di una forma, quanto di una trasformazione incessante. Andando in questo gioco, si entra in esso come giocatori mortali, in cui la morte come alterità inappropriabile si relaziona all’alterità che l’altro è – e all’altro che si è a se stesso come al proprio altro – nella precipua e singolare relazione del morire gli uni agli altri. Mortalità che non segna solo alla morte, ma alla stessa vulnerabilità e debolezza dell’esistenza: è la corda che si può spezzare a suonare, il cristallo che può infrangersi a risuonare: la pelle che può ferirsi, a sentire.[55]
In quella pioggia di attimi singolari («tutti […]/ gli eventi del minuto […]/ disgiungersi in un crollo»[56]) strappati a un tempo necessitante, che somiglia tanto a un ritorno gnostico, ma all’inverso: in cui il rogo originario dell’Uno, proprio come nella sua perdita e disseminazione, piove in una cascata di faville, in una notte del mondo che già contiene la sua aurora[57] – forse l’enigmatica “notte salva” di Benjamin, la mondana “eternità di un tramonto” – come non pensare a un singolare abyssus abyssum invocat, quello degli sguardi incrociati di umani e non umani, di tutti gli esistenti singolari in quanto tali – fuori, liberati, dai vincoli tassonomici – in sguardi reciproci, in cui il salto, il tuffo nell’abisso giocoso e nottilucente dell’essere in cui l’esistenza non si appropria di sé ma è transpropriata[58] alla sua stessa finitezza – nella sua povertà e abbondanza – è il tuffo reciproco nell’abisso dello sguardo altrui, forse del bacio, persino dello sbadiglio, certo della voce – e perfino del silenzio –, certo di un con-tatto reciproco in cui la reciprocità si fa circolo abissale: toccare l’altro sentendolo, e così sentirsi sentire, e sentirsi toccare sentendo l’altro sentire – l’altro che a lui si è – e così via. Sentendosi così echeggiare l’un l’altro, l’uno nell’altro, in un’echeggiare abissale di abissi, che è chiamata e ri-chiamo, sonoro e silenzioso. Petites mortes reciproche, non solo sessuali ma certo sempre erotiche, in cui si muore gli uni agli altri. Un abissale canto polifonico – sonoro e silenzioso – di abissi echeggianti, l’echeggiare di questo canto e il canto di queste eco – di nuovo: sonore e silenziose[59]. L’abbandono degli esistenti gli uni agli altri – in cui l’essere, abbandonato, si abbandona finalmente alla propria finitezza – che scioglie il legame del bando, im-bandendo, in una corte a bando, un banchetto dell’essere in gli esistenti versano e si porgono vicenda calici di luce scura odorosi versati dalla brocca attorno a cui mondeggia il mondo nell’abissalità del gioco delle relazioni[60]. In una festa per la fuga degli dèi, in cui il divino tra-passa – in tutta l’ambiguità del questo termine – nel mortale, e la redenzione in beatitudo[61]. Una festa sul cui invito cui si può giungere in ritardo e in anticipo Una Fuga, questa festa, questo canto, nel senso musicale, ma anche di punto e linea di fuga, e di liberazione da una prigionia in cui i significati tra-passo l’uno nell’altro. Fuga dell’essere singolare con infinite variazioni in chiave, che sono altrettante chiavi della liberazione delle esistenze nella loro singolarità.
[1] Questo testo è parte di un articolo inedito troppo voluminoso per essere pubblicato sul un blog senza comprometterne la leggibilità. Il testo riporta interamente e integralmente il paragrafo omonimo, a cui è stato aggiunto solamente il sottotitolo in corsivo e questa nota. Trovo altresì importante avvisare che, volutamente, il testo contiene ripetizioni, ridondanze, variazioni sul tema, diversioni, questioni lasciate in sospeso, e forse contraddizioni. Tutte interferenze, che, a mio avviso, piuttosto di nuocere al suo rigore, rendono il pensiero possibile come tale. Al lettore la libertà di sciogliere le ambiguità nella direzione che meglio crede. Sarei anzi onorato di accogliere le interpretazioni che il testo suscita, o apre.
[2] Eraclito, D-K 22. Eraclito. I frammenti e le testimonianze. A cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra. Mondadori. Milano 2001 p 24
[3] Ibidem p25. Mi sono permesso di modificare la versione di Diano.
[4] Martin Heidegger. Il Principio di ragione. Adelphi. Milano 1991.
[5]. Ivi, pag 192, come per i virgolettati seguenti
[6] Ibidem, pagg 192-193. Il testo tedesco, come sempre in Heidegger, è saturo di rimandi lessicali, fonetici e semantici a cui la traduzione può solo alludere. Ci limitiamo qui a far notare il richiamo fra Spielen come giocare e Spielen come suonare. (Heidegger usa spesso il termine Fuge – Fuga musicale – parlando dell’essere: vedi in particolare i Contributi alla filosofia, suddivisi programmaticamente proprio in quattro fughe). E fra Spiel e Zurpiel, passaggio – nel senso in cui si dice “passare la palla” – ma anche allusione.
[7] Che non è né un segreto né un arcano, né un velo che nasconda qualcosa, da rivelare. Il mistero è piuttosto quel ritiro dell’essere che donandosi come apertura, si sottrae. Eraclito stesso lo dice bene: «si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana.» DK 91 ub Eraclito. I frammenti e le testimonianze. A cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra. Mondadori, cit. p 13 si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana. “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana
[8] Mi riferisco a chi, non comprendendolo, lo travisa in “buona fede”, sia a chi lo comprende e lo travisa volutamente
[9] Vedi Gianni Vattimo. La fine della modernità. Garzanti. Milano 1991. In particolare il primo capitolo Apologia del nichilismo.
[10] Martin Heidegger. Contributi alla filosofia. Adelphi. Milano 2007. pp. 363-370
[11] Mi permetto l’immodestia di notare che, circa quello che chiamo gioco abissale, nelle mie giovani pellegrinazioni dilettantistiche raccolte in diari, ben prima di leggere Il principio di ragione e avendo letto solo in parte Il gioco come simbolo del mondo di Fink, fossi arrivato a conclusioni, perfino nella formulazione, simili, in modo impressionante, a quelle di Heidegger. Dunque o Heidegger è un gene, oppure le formule “compimento della metafisica” e “fine dell’onto-teo-logia”, hanno davvero un significato. Un significato che ci investe tutti. Spero che tale considerazione giustifichi, almeno in parte, questa mia, almeno apparentemente, immodesta e molesta nota autobiografica. Il cui spirito è in realtà del tutto… ludico
[12] Se prendiamo la visione del cosmo di eraclitea a partire dal gioco, potremmo dire che la lotta fra i contrari è quel gioco in cui l’altro e l’altro dell’altro stanno in una relazione di in-contro, che li oppone e tiene insieme contemporaneamente, nel modo della con-divisione
[13] Giorgio Agamben. Profanazioni. Nottetempo. 2005 Roma. Pp. 86-87. Già Benveniste, nel un passaggio di un articolo scritto nel per, sosteneva: «Mentre il sacro eleva l’uomo al divino, che è un “dato” e che è la fonte di ogni realtà, il gioco riporta […] il divino al livello dell’uomo […] e glielo rende […] accessibile. Dunque il gioco non è nient’altro che un’operazione desacralizzante. Il gioco è un sacro invertito, e le regole del gioco servono esclusivamente ad assicurare questa inversione» Emile Benveniste, Il gioco come struttura. In Aut Aut n° 337, marzo 2008. Il Saggiatore. Milano.
[14] In cui il senso della definzione di Sholem viene rovesciato “si separa e si aduna, e sorge e vien meno, si avvicina e si allontana
[15] Il gioco denuncia l’origine in quanto ripetizione: è solo nella ripetizione che l’origine si può costituire come tale, ma allora essa non è altro che una ripetizione retroattiva. L’origine si decostituisce in quanto tale e si svela come ripetizione.
[16] Eugenio Montale I limoni, in Ossi di seppia,. Mondadori, Milano 1990. pp 11-12. Ibidem le due virgolettate seguenti. «Il punto morto del mondo» non può non rimandare alla morte stessa come inappropriabile da parte dell’organizzazione totale del mondo.
[17] Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, Eugenio Montale, ivi, p 59. Ibidem la virgolettata seguente.
[18] Micheal Serres. Meteore. In Iride. Anno VIII, N.15 – Agosto 1995. Il Mulino Firenze
[19] A parte gli ovvi riferimenti a Prigogine e Serres, non si possono non citare come esempi almeno i biologi Lewontin e Goodwin, il “neurofilosofo” Alva Noë, l’etologa e filosofa Vinciane Despet. E naturalmente Massimo Filippi ed Enrico Giannetto, il primo neuroscienziato, il secondo fisico, entrambi pensatori antispecisti
[20] Martin Heidegger. In cammino verso il linguaggio. Mursia. Milano 1973 p. 70. Crsivi miei
[21] Martin Heidegger. Saggi e discorsi. Mursia. Milano 1976 pp. 119-120
[22] Ibidem. p. 119
[23] Ibidem.
[24] Ibidem
[25] Per che i poeti?, in Martin Heidegger. Sentieri interrotti. Trad. it. Pietro Chiodi. La Nuova Italia. Firenze 1984. Continuo a preferire questa versione a quella di perché, benché non sempre cor-risponda adeguatamente al pensiero del filosofo di Meßkirch, resta comunque più chiaro e “dialogante”. Mi sono permesso infatti alcune “correzioni”.
[26]Ibidem
[27] Per che i poeti?, in Heidegger. Sentieri interrotti, cit, p. 249
[28] Friedrich Hölderlin. Mnemosyne, in Le liriche, trad. italiana di Enzo Mandruzzato, Adelphi. Milano 1993 p 695
[29] Ibidem. Immaginiamo questo capovolgimento più come una giocosa capovolta che come un movimento dialettico
[30] Herder Idee per una storia dell’umanità, WW., Sufhan, XIII, p 140. Citato in Per che i poeti?, in Heidegger. Sentieri interrotti, cit, p. 294
[31] Martin Heidegger. I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine. Il Melangolo. Genova 1999
[32] Jaques Derrida. L’animale che dunque sono. Jaca Book. Milano 2006
[33] Martin Heidegger. I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine. Cit. p 252-253
[34] Ibidem, p. 27. Uso però la traduzione di Agamben. L’aperto. L’uomo e l’animale. Cit. p. È qui chiara una vicinanza di questa lettura quella di Enrico Giannetto, come ne sono chiare le divergenze. Cfr Enrico Giannetto. Heidegger e il carnofallologocentrismo. In Nell’albergo di Adamo. AAVV, a cura di Massimo Filippi e Filippo Trasatti. Mimesis. Milano-Udine 2010
[35] Martin Heidegger. Essere e Tempo. Longanesi. Milano 2005 p 149
[36] Cito da Derrida.L’animale che dunque sono. Jaca Book. Milano 2006 p 220
[37] Ibidem, p 220
[38] Nancy. Un pensiero finito. Cit p 258
[39] Woyzzek.
[40] Derrida. L’animale che dunque sono p. 48
[41] Ibidem, p. 49
[42] Ibidem, p 46
[43] «[…] l’unicità singolare, esprimendo appunto la massima concretezza dell’esistente, ha sempre un volto, una voce, uno sguardo, un sesso, (un’anima potremmo dire, se non temessimo il suo significato tradizionale di invisibilità e di sostanzialità). Non è una persona, sei tu» Adriana Cavarero. Nascita, orgasmo, politica. In Micromega, Almanacco di Filosofia ’96. Roma 1996 p 143
[44] Come direbbe Mattew Calarco, a priori tutto può avere un volto, nel senso di Levinas, e tutti i confini che abbiamo tracciato nella storia, si sono rivelati disastrosi. Vedi Di fronte al volto animale, in Nell’albergo di Adamo. Mimesis.
[45] E come si potrebbe immaginare una Lichtung boscosa, e il bosco stesso, se non popolati, abitati da esistenti animali, non umani, che il bosco e la sua densità/rarefazione formano e trasformano? Questo è un ennesimo punto, linea, di fuga di decostruzione che qui non ho lo spazio di seguire. E’ però necessaria una notazione aggiuntiva: perché insistere – ancora – tanto sull’essere, invece di rivolgerci a un pensiero del vivente, come suggerisce Derrida? La risposta è che non è affatto evidente e scontato, anzi resta assai dubbio anche dopo le decostruzioni derriadiane, che un pensiero del vivente (e della vita) aggiri o demolisca meglio l’antropologocentrismo di un pensiero dell’esistenza (e dell’essere). Bìos e Zoé potrebbero essere al contrario i più “originari” (uso ovviamente questa formula con cautela) dispositivi della cattura dell’esistenza, umana e non umana; e di ciò come φύσις, e λόγος, prima che εἶναι, la grecità ha nominato – ha chiamato – l’essere.
[46] Jean-Luc Nancy. La comunità inoperosa. Cit. pp . «La comunità si rivela nella morte d’altri: essa si rivela così sempre ad altri. La comunità è ciò che ha luogo sempre attraverso altri e per altri. Non è lo spazio di ‘Io’ – soggetti e sostanze in fondo immortali – ma quello di ‘io’ che sono sempre altri […] La morte non è una comunione che fonde gli io in un Io o in un Noi superiore. E’ la comunità d’altri. La vera comunità degli esseri mortali, o la morte in quanto comunità, è la loro comunione impossibile […] La comunità assume e iscive in qualche modo […] l’impossibilità della comunità. Una comunità non è il progetto di una fusione né in generale un progetto produttivo o operativo – essa non è affatto un progetto. E più avanti «La partizione risponde a questo: ciò che la comunità mi rivela, presentandomi la mia nascita e la mia morte, è la mia esistenza fuori di me. Non la mia esistenza reinvesita nella o dalla comunità, come se questa fosse un altro soggetto pronto a togliermi nel modo della dialettica o della comunione. La comunità non toglie la finitezza che espone. Essa stessa, insomma, non è che questa esposizione. La comunità è la comunità degli esseri finiti e, come tale, essa stessa è comunità finita. Essa non è, dunque, comunità limitata rispetto a una comunità infinita o assoluta, ma comunità della finitezza, perché la finitezza, ed essa soltanto, ‘è’ comunitaria […] La comunità significa, quindi, che non c’è essere singolare e che esiste dunque ciò che impropriamente si potrebbe chiamare una ‘socialità’ originaria o ontologica, la quale, nel suo principio [Ungrund piuttosto che Abgrund, ma no per questo meno vertiginoso] va ben oltre il semplice motivo dell’esser-sociale dell’uomo (lo zôon politikón è secondo rispetto alla comunità) […] infatti non è certo che la comunità si limiti all’’uomo’ escludendo per esempio l’’animale’» pp 63-66
[47] Martin Heidegger. La poesia di Hölderlin. Adelphi. Milano 1993 p 47
[48] Martin Heidegger. Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz. Citato in Roberto Esposito. Communitas. Einaudi. 1998 Torino. p. 100
[49] Friedrich Hölderlin. Menosyne. Cit.
[50] Friedrich Hölderlin. I Titani. In Le liriche. Cit p
[51] Eraclito D.K. 45 . Eraclito. I frammenti e le testimonianze. A cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra. Mondadori. Milano 2001 p 21
[52] Vale la pena di far notare ancora che questa è proprio la rivoluzione del con. Il mondo è possibile (è accessibile, si potrebbe dire un po’ impropriamente) a partire dal con. Un anarco-principio, o un (non) principio di disseminazione.
[53] Novalis. Frammenti. Bur. 1997 Milano p.41
[54] Friedrich Hölderlin Mnemosyne. Cit.
[55] «Toccando il limite – che è esso stesso il contatto, gli amanti lo differiscono […] La gioia ha luogo differendosi. Gli amanti godono di sprofondare nell’istante dell’intimità, ma, poiché questo naufragio è anche la loro partizione, poiché non è né la morte, né la comunione, bensì la gioia, anche questa è una singolarità che li espone al fuori ». Jean-Luc Nancy. La comunità inoperosa. Cit. p85 e prima «La passione che si scatena non è altro che la passione della comunità e questa passione si fa riconoscere come la desoggettivizzazione della passione della morte […] Essa non cerca di appropriarsi l’immanenza soggettiva, ma è ciò che viene designato da quel doppio della parola ‘godimento’ (jouissance) che è la parola ‘gioia’ (joie). La “gioia di fronte alla morte” […] è il rapimento [..] dell’essere singolare che non supera la morte (non si tratta della gioia della resurrezione che è la mediazione più intima del soggetto; non è un trionfo, è uno splendore […] ma uno splendore notturno) e che raggiunge invece, fino aa toccarlo ma senza mai appropriarselo, l’estremo della propria singolarità, la fine della sua finitezza, i confini su cui ha luogo, senza posa, la comparizione con l’altro e davanti a lui. La gioia è possibile, ha senso ed esistenza solo attraverso la comunità e in quanto sua comunicazione » p. 76
[56] Eugenio Montale. I limoni. Cit.
[57] Boreale? Northern Lights? Ai tropici?
[58] Questa transpropriazione non è, appunto, una appropriazione all’/dell’infinità: non è un’appropriazione in generale, neppure dialettica secondo il movimento espropriazione-riappropriazione. Si potrebbe parlare piuttosto di depropriazione, o ancora meglio di impropriazione
[59] Non può non venire alla memoria il canto delle balene, che può apparire un soliloquio solo a chi non sa più aspettare il ritorno dell’eco. Le megattere modulano un canto che, riverberandosi, dilatandosi, producendo innumerabili echi e risonanze e così armonizzandosi, attraversa interi oceani da una parte all’altra per comunicare coi propri simili. Il “soliloquio”, la canzone, dura fino a dieci minuti ed è ripetuto diverse volte di seguito, per veicolare la maggior quantità di note possibili. Ci vogliono infatti due ore solo perché il canto attraversi anche solo l’Atlantico. Ma, appunto, non è un monologo, né un soliloquio. È un appello, una chiamata, che attende un ritorno, una risposta. Quindi un dialogo, un duetto, o un coro differito. Pare che lo stesso canto, se emesso ad una certa profondità, possa essere udito, nel suo riverberarsi e riecheggiare, in tutti gli oceani e mari del mondo.
[60] Il riferimento è al verso di Hölderlin «e qualcuno mi porga il calice di luce scura odoroso». Nella poesia Andenken. In Hölderlin, Le liriche, cit., p 563. Per Heidegger l’ebbrezza di questo “vino” fa cominciare il pensiero. La «luce scura» rimanda ovviamente alla chiaroscuralità della Lichtung. Ma si tratta anche di un offrire: invito alla coesistenza, diremmo noi. Vedi Heidegger. La poesia di Hölderlin. Adelphi. 1988 Milano. E alla brocca – un altro offrire – del saggio su La cosa. In Saggi e discorsi. Mursia. Cit.
[61] In effetti questa festa fa pensare un po’ alla celebrazione dei misteri dionisiaci, benché senza rito e senza iniziazione, né tantomeno mistagoghi. E in effetti Dioniso, dio-uomo che muore più volte, è la figura esatta di un tra-passo che è una fuga e una vacanza. Similmente Cristo, che per liberare gli umani alla loro libertà, li abbandona: ma insieme, abbandonandoli, li abbandona al lo Spirito Santo, che è il divino vacante, la vacanza di Dio.
Certo qui i bambini-lupo di Girard non si farebbero più rubare le pelli animali. O la madre stessa desisterebbe dal farlo, e comincerebbe pure lei a travestirsi e abitare il confine. Vedi Massimo Filippi. Ai confini dell’umano. Ombre Corte. Verona 2010. pp 58-62
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[…] “teoretico” Interludio: preludio giocoso-evenemenziale. L’abissale gioco dei coesistenti (http://asinusnovus.wordpress.com/2012/05/02/interludio/ […]
La prospettiva che proponi, Antonio, è affascinante. E mi auguro che si possa discuterla, anche con gli altri testi su cui so hai lavorato e stai lavorando, perché rappresentano davvero un salto di qualità notevole nel tipo di dibattiti che in ambito antispecista solitamente troviamo.
Ci sarebbero mille cose di cui discutere. Inizierò, banalmente, da considerazioni di metodo, cercando di non essere solo banalmente formale ma di andare anche alla cosa stessa.
Non ti nascondo infatti un certo disagio teorico nel tentare di “dialogare” con te su questi temi. In effetti uno dei problemi che ho con la prospettiva heideggeriana è proprio la difficoltà che si incontra nel cercare di entrarci in relazione adeguata poiché essa si sottrae – temo programmaticamente – tanto ad una critica “dall’esterno”, quanto ad una “dall’interno”. Ciò che banalmente si dice del tono “oracolare” di Heidegger non va banalizzato a sua volta. Prendiamo ad esempio il “concetto” di “gioco” (già…è un “concetto”? un’immagine? un’intuizione? è al tempo stesso “ciò di cui” parli e il “modo” in cui ne parli…già questo pone problemi…su cui magari ci interrogheremo la prossima volta :D). Come deve essere intesa la tesi secondo cui il gioco è “senza perché” perché le sue “regole” non sono “pre-scritte” ma si danno “nel gioco stesso” e però sono in relazione con “l’assenza di regole” che lo “pone”?
Se io ora tentassi una critica estrinseca (e non lo farei mai in quanto hegeliano…) dovrei chiedere “da dove viene” questo concetto di gioco, cosa “autorizza” il suo uso visto che non indichi un “contesto” che possa giustificarlo. Ma saltiamo tutto ciò e proviamo a ragionarne “teoreticamente”. Perché non posso affermare, con la medesima cogenza, che la regola del gioco è già sempre iscritta nella sua origine, che l’origine stessa è il gioco in cui si danno tanto l’assenza-di-fondamento che il fondamento? E, dunque, che l’essere e il nulla sono dati fin dall’origine come conciliati pur nell’irrequietezza del gioco che li pone?
Perché, in altri termini, devo scegliere il gioco di Heidegger e non quello di Hegel? 🙂
Premessa: sai che questo testo è un punto di partenza e non di arrivo. E’ stato scritto parallelamente ad altri testi, fra i quali uno solo (Tanatonauti) è stato fin ora pubblicato (senza contare, come sai bene, che questo testo è “parte” di un testo ben più ampio che lo contestualizza e lo articola). Spero intanto, fra guai e tempus fugit, di riuscire a pubblicare presto gli altri testi, decisamente più genealogici e “di smontaggio” (decostruttivi?),
Dopo aver ripetuto la parola “testo” compulsivamente – 5 volte in due frasi: si può uscire dal “testo”, magari a partire dal “testo” stesso, o siamo definitivamente inchiodati? Da cosa? Da chi? Quando Derrida parla della sua gatta o dell’evidenza innegabile dell’immensa sofferenza animale: si fa un giro fuori dal “testo”? Si dice in molti modi, il “testo”, o solo tautologicamente? – insomma, alla fine di questa compulsioe tourettiana, ti rispondo:
Intanto: come dirrebbe il buon Jaques: quello su cui getti lo sguardo è un campo immenso e abissale. Ma un campo di battaglia o un campo agricolo? Un campo agricolo, nella violenza del suo essere “posto”, della manipolazione del vivente, è *già* campo di battaglia? E anche: l’agro-tecnia è gemella inseparabile della zoo-tecnia, e quindi della domesticazione dispiegata in sfruttamento intensivo – di un’intensità che irrompe in manipolazione della procreazione e del genoma? E: ci può essere qualcosa come un campo incolto che non sia già guardato come da-coltivare, non-ancora-coltivato? Un campo *inviolabile*, non in nome del sacro, ma della compassione, dell’amore mi vien perrsino da dire? Amore come originario lasciar-essere? questo lasciar-essere sarebbe davvero originario, non nel senso della posizione di un’origine, ma in quello del “fin dall’inizio”? Oppure il lasciar-essere è sempre un “mollare-la-presa”, l’inversione di una violenza “inizialmente” inaggirabile, che innerva tutto? Ci può essere un lògos senza violenza, senza Herrshaft? Oppure tale violenza è cooriginaria al lògos e tutto ciò che si può fare è: nasconderla? Fingere che violenza e delicatezza possano congiungersi, addirittura coincidere, in un gioco delle tre carte in cui fra “gioco” e “delicatezza”, “violenza” è la carta che non esce mai, ma domina sempre (vince)? Cosa dovremmo cercare? Una sorta di compromesso? Additare magari la violenza del lògos, denunciare l’immensità innegabile del dolore, proporre una comune compassione dei viventi a partire dalla comune vulnerabilità e im-potenza, e poi ammettere che non si può far altro che ridurre, quell’immenso dolore, erogando qualche legge “compassionevole” (le parole non cadono a caso, o non dovrebbero)?
La pretesa bella, “bellanimista”, di un lasciar-essere o di una comune compassione è in realtà il punto di accesso per il “campo” di Agamben? Una trappola per – verso, che apre a, fa cadere in – uno stato d’eccezione permanente e panotticale che *prelude* allo sterminio, alla scatenata, incondizionata, furia distruttiva del sacro? Uno Shiva in forma di macchina – macchinazione totale – del giudizio universale? (La tecnica ‘è’ il sacro?).
Insomma: proporre un gioco che non è una partita, in cui non si tratta di vincere o perdere, sconfiggere o essere sconfitti; nel quale non si tratta di manipolare al meglio il dispiegamento dell’autorità (le “regole”); in cui se l’essenza del mortale “va in gioco”, questa e quello non giocano in vista di una una *posta*, e non sono, nell’essere *posti in gioco*, *la posta* stessa, sacrificale, del gioco che si rivela, infine, sempre una partita, una guerra; proporre *questo* gioco è porre, in fondo, sempre, la fondazione di una violenza, la violenza di una fondazione? Porre l’origine, la Herrschaft di un lògos, ripetere una mitopoiesi? Nel parlare con meraviglia e fiducia della coesistenza, invece di disseminare una comunità inoperosa stiamo facendo, di nuovo, opera di comunità? Insomma il “gioco della coesistenza” sarebbe di nuovo una fondazione d’origine-fusione di comunità: la poiesis del gioco ancora e sempre un mythos che “im-pone” un mondo, un cosmos, agli esistenti singolari? Un fondazione che nella pretesa di rivelare l’abisso rimosso del fondamento, finisce per fondare abissalmente, nel senso di “infinitamente”? Questo abisso celerebbe – ancora – il segreto del fondo di una profondità senza fondo?
Ok, ho le vertigini. Ma forse va bene.
Davvero, a questo punto, la pretesa di sfondare il fondamento con un gioco che si pretende differente da una battaglia e dalla posizione di un’autorità, di un principio, si rivelerebbe la peggiore delle pretese, dei sogni (che generano mostri)? E quindi tanto varrebbe il “gioco” di una dialettica sacrificale, di una dialettica-ovvero-il-sacrificio dell’erigersi (dell’erezione) di una soggettività assoluta, perché tanto gli esistenti cadranno sempre sotto a un’autorità, un principe-principio (un principio principe), una sovranità dello sterminio della finitezza? E dunque, tanto vale smascherarsi, smettere con gli scacchi e ammettere la guerra? Ammettere che il potere, che la violenza (naturale? inaggirabile?), non finirà mai di dialettizzare (sacrificare) il finito? E quindi stare in questa battaglia, in cui dell’essere (finito) dell’ente, dell’essere dell’esistente (finito) non può non essere, alla fine del gioco, nulla, niente? Dato che essere e nulla coincidono, essendo semplicemente i concetti più generali e vuoti che possono essere pensati? E non la dif-ferenza, il dif-ferire “originario”, indiffereribile, dell’essere, che si dif-ferisce in esistenza finita, negli esistenti esposti nel con-tatto, nell’evento dell’esistenza che non può far altro che accadere, aver-luogo prima di ogni localizzazione?
Sai che non lo so?
Però credo che il gioco valga la candela, dato che dall’altra parte resta solo la furia del dileguare nascosta dietro la fabula del governo del divenire, del governo della finitezza, la fabula della libertà come autoposizione di un soggetto super-ultra-ipertrofico, in cui la potenza del negativo non può che risolversi in devastazione dell’esistenza, o, se vuoi, della vita. Perché c’è chi “autoafferma” l’univeristà tedesca, ma anche chi chiama la polizia per sgomberare l’università – perché la “rivoluzione non è ancora pronta”…
Chissà se ti ho un pochettino risposto
Ci sono un mucchio di cose, in questo scritto, che mi com-muovono. Più dottamente, vi ritrovo molte parole evocatrici che m’incantano da sempre — il gioco, l’abisso, l’eco, la fuga, gli dèi, la luce nera (modifico copiando il titolo di un testo affascinante e per me
fondamentale di Luigi Lombardi Vallauri)… Per non dire di Eraclito il grandissimo.
Ma restiamo sul gioco — sulla sua sacralità e sul suo mistero, a proposito dei quali hanno scritto in tanti.
Io credo che soltanto gli innocenti possano giocare davvero: dunque giocano davvero soltanto gli animali, i bambini e gli dèi. Tutte categorie per le quali l’essere stesso, essendo dato e non pensato — mancando cioè di progettualità — è gioco. Così mi sembra, almeno.
Il gioco può costituire un punto d’incontro fra umani e non-umani, allora, soltanto a patto che si verifichi almeno una di queste tre condizioni:
1) che l’uomo recuperi il non-umano che è in lui e si faccia di nuovo animale — «non tutto l’uomo è nell’animale, ma tutto l’animale è nell’uomo» (Lao-Tze)
2) che l’uomo riscopra il bambino (troppo spesso dimenticato, umiliato, rimosso) che è in lui — «Nell’uomo autentico si nasconde un bambino: che vuole giocare» (Nietzsche)
3) che l’uomo riaccenda la “scintilla divina” che è in lui (troppo spesso soffocata o annacquata) imparando a conoscere se stesso e con questa conoscenza diventando (oh quanto rischiosamente!) simile a un dio — alla rinfusa, Meister Eckhart, l’Oracolo di Delfi e il meraviglioso più-che-divino Serpente.
Succedesse questo, non potrei che dirmi felice di aver vissuto.
E’ molto bello questo tuo commento, e apprezzo moltissimo che tu ti sia sentita in qualche modo “toccata” da quel che ho scritto.
Le tue parole mi permettono però anche di fare una serie di precisazioni a cui tengo, e che in qualche modo erano da un po’ necessarie.
Innanzitutto: l’innocenza e l’”essere l’essere”.
E’ una prospettiva che mi affascina, ma di cui diffido.
Al contrario: “pensare l’essere”, perché noi *non* siamo l’essere, ma siamo in relazione con esso, e questa relazione è il pensiero.
Ma, intendiamoci: come una volta mi è già capitato di dirti: il pensiero non è la razionalità, e non è neppure qualcosa che “stia” in testa. Certo *non* sta, ma piuttosto accade, e questo accadere avviene nella forma di ciò che chiamiamo emozione (Heidegger direbbe: tonalità affettiva fondamentale). E’ nell’emozione che l’essere *viene* al pensiero (Heidegger ha sondato l’angoscia, la noia, la nostalgia, lo sgomento, ha solo accennato alla gioia, ma non ha mai detto che la gioia o la felicità NON potessero essere tonalità affettive fondamentali: a parte l’attenzione per i sentimenti che indicassero a una *differenza* e un’*assenza* – dicendo così della differenza e della finitezza ontologiche – credo che giocasse un certo ruolo un pudore, lo stesso che ebbe verso l’amore, di cui parlò rarissimamente). Questo è, proprio in Heidegger, il secondo punto (di cui non ho parlato per ragioni di spazio) di interruzione del (la metafisica del) soggetto nel suo pensiero: smettendo di essere qualcosa che accade nello spazio “arbitrario” del soggetto, l’emozione scalza qualsiasi forma di razionalità dalla sua pretesa (per di più esclusiva) di dirci qualcosa sul mondo. Il pensiero non è razionalità empirica o inferenziale, né intuizione, ma apertura al fenomeno, e tale apertura si dà solo nello stato emozionale. Questo faceva, ovviamente, incazzare come delle bestie gli empiristi logici. E giustamente, aggiungo io, dato che il pensiero non può essere schiacciato sulla logica, se non a condizione di ucciderlo come pensiero. Insomma l’esserci è un con-esserci (primo versante della rottura col soggetto) e l’esserci è nel mondo *affettivamente* (secondo versante della rottura).
Quindi questo rapporto (l’esserci e l’essere) non è quello fra un soggetto e un oggetto, ma neppure una coincidenza. Questo vuol dire, per la seconda volta, che l’essere e l’esistenza sono pensati a partire da una relazione di coappartenenza ma distinzione. Questa logica rompe sia con quella dicotomica-disgiuntiva che confluisce nella logica scientifica, sia con quella logica che chiamerei dialettica-sacrificale, per cui la distinzione può essere risolta in una coincidentia oppositorum (come, per lo più – ma è materia molto complessa – nella teologia negativa e nella mistica in generale).
Qualcuno obietterebbe che in Heidegger la tonalità affettiva fondamentale è solo la pre-condizione della comprensione fenomenica, a cui seguirebbe una *riflessione* coscienzalista mascherata. Beh, per pensarla così si deve proprio essere dei *coscienzialisti* o degli irrazionalisti. Muoversi nel circolo ermeneutico della comprensione non è tornare sul pre-compreso come in una riflessone razionale che riprende e razionalizza l’emozione. Ma un articolare il pre-compreso seguendo la *via* che riportandolo a sé in un circolo, lo dif-ferenzia in linguaggio. Anche dopo la svolta, quando “ermeneutica” significa – alla faccia di una filologia scientista – essere interpellati da una chiamata (Hermes è il portatore di messaggio) silenziosa (quella dell’essere) che l’uomo porta al linguaggio in cui si la chiamata si accasa (solo in questo senso si può comprendere l’altrimenti bizzarra affermazione ). Questo rapporto (di nuovo una relazione) fra chiamata silenziosa dell’essere (non potrebbe essere che silenziosa per un essere che è ni-ente) e risposta umana, genera quella Saga in cui l’essere di dissemina in epoche.
Qui il Denken come An-Denken (rammemorazione della differenza ontologica, ma anche della “tradizione” come “tras-missione”) si rivela un Danken, un ringraziare: ancora un rapporto, ancora un coinvolgimento emotivo.
Ora, qui si pongono una serie di questioni inaggirabili, rispetto all’animale. Heidegger nega fin da sùbito che gli animali possano stare in rapporto all’essere come sta l’uomo. Quando dice che all’animale è impossibile l’”in quanto tale” sta già dicendo questo. L’animale non può relazionarsi all’ente “in quanto tale”, “lasciando essere” così l’ente, accedendo infine alla differenza ontologica (a un rapporto con’essere dell’ente). Da come leggo io i testi heideggeriani (e: nessuno legge Heidegger allo stesso modo, si potrebbe dire con Derrida), l’ostacolo contro cui urta, fino ad arrendersi, il pensiero heideggeriano dell’animale, non è né il linguaggio né il morire. La negazione della morte in quanto morte e del linguaggio all’animale avviene a partire da un’insufficienza del pensiero *relazionale* (che pensa la relazione, e che pensa a partire dalla relazione) che in Heidegger stesso ha, se non il suo gesto inaugurale (Derrida ci ammonirebbe col ditino puntato, come ha fatto con Agamben: non c’è inizio), almeno una svolta inaggirabile. Heidegger pensa l’esserci, l’uomo, come disseminato originariamente nel cum della relazione con altri: quando di trova davanti all’animale si chiede invece cosa sia l’animale, senza partire dalle relazioni che umani e non umani hanno fra di loro al di là di presunte linee di confine e tassonomizzazioni. Pensa l’animale a partire dall’identità. Sciaguratamente (certo questa non è la sola sciagura di quell'”incoerenza” verso il proprio pensiero, di Heidegger: si pensi alla comunità di popolo con compito storico che lo renderà, per un certo periodo, non-pensatore al servizio del Reich).
E’ un peccato, proprio perché la desoggettivizzazione-depsicologizzazione delle emozioni avrebbe potuto condurlo a un colpo mortale per lo specismo.
Il linguaggio non può essere solo quello umano, metafonico: si deve pure pensare che non sia, il linguaggio, il solo modo di “rispondere” all’essere.
Ciononostante Heidegger non è un pensatore né antropocentrico né umanista. Il decentramento che egli opera dell’uomo rispetto al Senso (Nancy chiama così, a volte, qualcosa di molto simile all’essere heideggeriano) è ciò che indicherà la strada a tutto il pensiero seguente (da Derrida a Nancy) per un pensiero non-appropriativo.
Quindi, tornando a noi 🙂 : il pensiero è il nostro rapporto coll’essere, ma questo pensiero non è razionale, non sta in testa. E’ pensiero “emotivo”: di più: ne La lettera sull’umanismo Heidegger scrive, contro a chi vorrebbe mantenere agganciato il pensiero a una qualche terra ferma, che “sarebbe solo una fortuna, per il pensiero, il naufragio”. Un pensiero che comincia, quindi, con un disorientamento, quello che può far apparire la differenza ontologica, quindi l’essere come nulla, come ni-ente (non ente).
La questione, allora non è tanto “essere l’essere”, ma farsi investire da, fino a immergersi in, questo nulla. Qui resta forte un certo legame con la teologia negativa, che non nega però la finitezza e la mortalità. Questo non significa negare l’Attimo come momento eterno, significa però non strapparlo dalla relazione col tempo (e in effetti, come direbbe Derrida, è pensarci eterni che ci può far pensar mortali, come ci vedessimo *dopo* la morte).
D’altra parte di ciò che *fa essere* non si può dire che *sia*. L’essere “accade”: che significa sì che “si dà” temporalmente, ma anche che dandosi si ritira abissalmente. Proprio perché infinitamente finito, esso è, indisponibile, imprendibile: mistero, nulla.
Detto questo – dunque – rispetto alle tue “condizioni”, mi permetto di rispondere:
1) io manterrei la prima proposizione della frase di Lao-Tzu e la renderei biunivoca: “non tutto l’uomo è nell’animale, non tutto l’animale è nell’uomo”. Perché l’uomo non contiene l’immensità delle specie animali, e proprio *questa differenza* lo apre a un ignoto, a un vuoto, a un’accadere imprevedibile del tempo e dell’incontro con l’altro. Neanche ciò che chiamiamo “animale” contiene tale immensità, e non solo perché la parola “animale” è la compressione di una pluralità incalcolabile, ma anche perché quella pluralità non è la totalità dell’avvenuto e dell’avvenire. Miliardi di miliardi di specie sono scomparse, chissà quante si daranno prima della fine della vita sulla terra (e magari anche altrove si danno, si son date, si daranno, magari senza che noi le si incontri mai, o magari in modo che noi incontreremo le loro tracce, traccia della loro estinzione, come facciamo con alcune delle specie estinte sulla terra). E mai si darà la totalità infinita del possibile.
E: non cercherei il fondamento dell’umanità in un’animalità perduta – o in alcun modo un fondamento animale per un uomo non più umano. Ricordare l’animalità (come l’essere in Heidegger) non è ricordare qualcosa di perduto nella forma di un fondamento prensile. Come l’essere in Heidegger viene rammemorato *non* come oggetto, ente, arcano sepolto, ma come nulla o mistero, o ritiro, o differenza (è a partire da questo che si può dare un oblio), l’animalità dell’uomo andrebbe ricordata essa stessa come differenza dalle altre specie, su un piano però orizzontale e relazionale e non più verticale e gerarchico.
Considera che questa tesi del “recupero dell’animale” nell’uomo mi ha convinto da molto poco (dalla presentazione del libro di Marco Maurizi, in un clima, per di più, alquanto surreale :-).
2) il fanciullo nell’uomo (adulto): anche qui non si tratta di ritrovare un’origine, un fondamento (Ur-Grund, direbbe un tedesco), ma di rammemorare un tratto rimosso fra gli altri, in modo (questo sì) da far divenir bambino l’uomo, che è diventato uomo dal bambino, però dimenticandosi ciò che è stato. Ciò che è stato è insieme *per sempre perduto* e *mai perduto*: perché è vero che divenendo, noi perdiamo e *ci perdiamo*, ma è anche vero che nel pro-gettarci noi gettiamo in avanti il passato, tornando in qualche modo a esso. E’ per questo che da tempo credo ormai che la nostalgia, lungi dall’essere un sentimento “regressivo”, sia, per così dire, una “struttura” (o un evento?) della nostra temporalità e quindi della nostra esistenza, che apre al futuro. Io uso un motto, che può essere articolato diversamente a seconda di dove si voglia far cadere l’accento: “tutto torna, tutto si trasforma” oppure “tutto si trasforma, tutto torna”.
Certo, il bambino è, come l’animale, rimosso, e, soprattutto, come tu dici “umiliato”. Perché il giocare si è “obliato” in favore del lavoro e della guerra. E mentre un fanciullo gioca anche col lavoro e la guerra, noi adulti virili e machisti (anche alcune donne lo sono, mi sembra) anche quando giochiamo lo facciamo nel modo del lavoro E della guerra (dove la congiunzione indica un’indistinzione).
Si tratta perciò di divenire “adulti per davvero”, se per adulti intendiamo quello che scriveva Nietzsche, sempre sul gioco (cito a memoria): “Si diventa davvero adulti quando si mette nelle cose che si fanno la stessa serietà dei bambini quando giocano”.
E però, ancora, anche all’inverso: si ri-diventa bambini quando le cose che facciamo diventano “leggere” come in un gioco: quindi senza fondamento, senza presa, senza dominio. Perché dal gioco non è forse esclusa la violenza (“Il gioco va dalle bambole alla tragedia” diceva Fink), ma è forse esclusa la violenza del dominio, del controllo, della fondazione.
3) Uhhh… questione cruciale: l’uomo che si avvicina a dio. Sì, vero, animali bambini e dèi hanno in comune di giocare (di ricordare il gioco, di ricordarsi di giocare). Ma da che si darebbe, questo “comune”? Dall’oblio della morte, dall’eternità (un’aeternitas, una sempiternitas, o un *come se* si fosse eterni, una sospensione del tempo)? Grande problema, perché io penso che il gioco sia in relazione profonda e (forse) ineludibile con la morte e la mortalità. Tanto che potrei dire che l’uomo che smette di giocare lo fa per *sfuggire* alla morte: mettendosi cioè e perciò a lavorare (per meritarsi l’al di là col “sudore della fronte”, o per non pensare alla morte, o per costruire un muro tecnologico contro di essa: un antidoto). Sono tanto convinto di questa parentela, che credo dovrebbe darsi qualcosa come una mortalità nel divino per accedere al gioco: non a caso nell’articolo parlo di Dioniso e Cristo come dèi che muoiono, figure-limite di dio e della divinità. Dovremmo concepire dio o la divinità in questo modo? Anche il dio di Eckhart ha qualcosa che fa pensare alla morte: silenzio, abissalità, deserto, oscurità. Forse quando Eckhart parla dell’essere (in) dio non vuole togliere la mortalità dell’uomo. Forse sta dicendo: si è mortali da immortali, cioè si vive (e si sa) la propria condizione di mortalità senza paura della morte: come se la morte non ci fosse. O come se: finché si muore si è immortali, si è dio, perché si è in dio. Non ricordo chi (Marco aiutoooo) diceva che se l’eternità (quella del paradiso, della vita eterna, della redenzione) è tale, noi siamo già là, perché siamo già morti, già stati giudicati e già eterni. Quindi saremmo contemporaneamente temporali/mortali ed eterni.
Perché il gioco avrebbe a che fare con la morte? Perché è senza fondamento, come lo siamo noi mortali. L’essere “gioca” perché è temporale e quindi finito. aperto sull’abisso del non-essere – e quindi del tempo.
Quindi quando giochiamo – e non facciamo la guerra: modo di eternarsi; e non lavoriamo – siamo massimamente vicini alla morte: nel modo di una rivelazione (magari come nel niente heideggeriano) o meno. Ci coglie la morte (la mortalità), oppure no, ma noi siamo nei suoi pressi.
Perché il gioco avrebbe a che fare con la morte? Perché è senza fondamento, come lo siamo noi mortali. L’essere “gioca” perché è temporale e quindi finito. aperto sull’abisso del non-essere – e quindi del tempo.
Quindi quando giochiamo – e non facciamo la guerra: modo di eternarsi; e non lavoriamo – siamo massimamente vicini alla morte: nel modo di una rivelazione (magari come nel niente heideggeriano) o meno. Ci coglie la morte (la mortalità), oppure no, ma noi siamo nei suoi pressi. D’altra parte per Heidegger l’angoscia per il niente è “incantata quiete”. Forse la magia del gioco sta nell’abisso di fondamento cui ci espone: e qui sta (nei pressi della morte) l’incanto o l’ebbrezza. Ma l’ebbrezza e l’incanto stanno anche nel con del gioco: commortalità, quindi? La coabissalità di “morire gli-uni-agli altri”? Ma questo l’ho già detto.
Certo è che l’incanto del gioco sta anche nel dimenticare il tempo, un contrarsi del tempo in eternità: attimo eterno del gioco (oasi di gioia, diceva Fink). Forse da questa “eternità” è possibile guardare alla morte, immaginarci (vederci?) morti, come se si durasse dopo la nostra fine (forse è questo entrare in rapporto con la morte?). E’ immaginazione o una sorta di estensione del futuro nel senso dell’estasi temporale di Heidegger? Noi cadiamo oltre la nostra fine, con lo sguardo?
Oppure, come la notte di Novalis: il gioco spazia il tempo: come la notte, il gioco, pur avvicinandoci alla morte, è eterno. E’ in quest’altro tipo di sospensione che possiamo intenderci mortali? La sospensione sospende il fondamento, spalanca l’abisso? O sospende il tempo lineare e continuo, facendoci apparire la morte come la sua più radicale sospensione-interruzione? O ci rinvia all’Aiòn, a quel fanciullo che (forse) come lo Stesso in Heidegger (identità/differenza-essere/nulla) presiede al tempo? E’ già tempo, questo Stesso?
Oppure giocano fra loro, come amici, divini e mortali, tutti a loro modo esistenti singolari in relazione
Ma mi hai posto così tante domande? 🙂
Eh, no, caro il mio affabulatore. Non ti avevo posto non solo “così tante domande”, ma forse nemmeno una 🙂
Ma l’uomo non è soltanto un animale sociale o un animale politico: è anche un animale interrogante…
Sono sincera: io mi perdo, in mezzo a tutti questi filosofi. Non riesco a esprimermi attraverso il loro dire, e cerco invece il modo migliore per comunicare quello che penso, struttura monadica permettendo. Oltretutto, mi tocca pure confessare che Heidegger non figura nel mio orizzonte di pensiero. Cioè sì, ci è passato, ma senza far piovere meteoriti che modificassero radicalmente la mia geografia. Quindi, se permetti, giro attorno ai frammenti.
1) Mi sembra chiaro che l’uomo non contenga l’immensità delle specie animali, né che la contenga l’animale. E altrettanto chiaro mi sembra che non si debba cercare “il fondamento dell’umanità in un’animalità perduta – o in alcun modo un fondamento animale per un uomo non più umano”. Direi piuttosto che la frase di Lao-tze pone l’accento su di un legame fra uomo e animale assai più stretto e profondo e antico di quanto non si pensi — parecchio tempo prima di Darwin. Il che a mio avviso rende ragione dell’attrazione fatale che incatena tanti esseri umani a quelli animali, in un rapporto “personale” che scandalizza soltanto i superficiali e gli aridi. E qui sì, ti dò pienamente ragione: “l’animalità dell’uomo andrebbe ricordata essa stessa come differenza dalle altre specie, su un piano però orizzontale e relazionale e non più verticale e gerarchico”.
Chiudo qui per ora, e rimando a un futuro spero prossimo il seguito della chiacchierata 😉
Caro Antonio, ho letto solo ora il tuo intervento, che, in massima parte, condivido. Sarei curioso quindi di leggere il tuo testo nella sua completezza, se me lo mandi all’indirizzo personale, e di capire quali sono le divergenze fra i nstri punti di vista. enrico giannetto