Troppo comodo parlare di istinto, gli animali sentono come gli umani

di Leonora Pigliucci
pubblicato su Gli altri

Le frontiere delle scienze sugli animali, biologia evoluzionistica, etologia cognitiva, psicologia comparata svelano un’inedita complessità interiore nei non umani e la loro appartenenza di facoltà elevate, come il senso morale e l’autoconsapevolezza, ritenute sino ad oggi appannaggio esclusivo del genere umano. Su che basi si legittima, allora, oggi, il loro sfruttamento, se crolla definitivamente la visione meccanicista cartesiana dell’animale macchina? Come spiega Alma Massaro, presidente di Minding animals Italy – associazione che propugna la liberazione animale attraverso la conoscenza scientifica e interdisciplinare – le basi del behaviourismo che riducevano ogni comportamento animale al concetto tappabuchi di “istinto” sono ormai sgretolate, sebbene la stessa visione continui a valere per l’opinione pubblica e, quel che è più grave, come base del progresso scientifico. E se allora liberare gli animali fosse anche aprire lo sguardo del mondo scientifico a un universo di risposte negate?

La vostra associazione ha organizzato a maggio il primo convegno nazionale sulla vita emotiva degli animali, quali i contributi più interessanti?

Ci si è focalizzati sul mettere in campo i risultati di numerosissimi ambiti di studio che convergono sulla necessità di cambiare l’intero paradigma della considerazione animale. Tantissimi scoperte sono state fatte con l’osservazione rispettosa e non invadente di comunità animali allo stato brado e perciò abbiamo approfondito i vari aspetti della situazione di sfruttamento attuale che vi si contrappone. Emerge una contraddizione insanabile tra il riconoscimento degli animali come essere senzienti, che oggi avviene anche a livello legislativo, e la realtà di uno sfruttamento che, nello stesso quadro normativo, e per i fini della stessa scienza che ne individua la complessità interiore, li riduce poi strumentalmente ad oggetti. Una dicotomia inconciliabile che va risolta d’urgenza per il bene non solo degli animali, ma anche della ricerca. La presunta “superiorità” dell’uomo e il confine netto tra noi e gli altri animali è un mito, un pregiudizio, nulla più che una chimera che ingabbia la conoscenza.

Una diversa concezione dell’animale è allora una questione prevalentemente etica o scientifica?

E’ chiaro che il motore che porta tanti attivisti e un numero sempre maggiore di specialisti di materie scientifiche ad appoggiare la causa della fine dello sfruttamento animale sia innanzitutto etica, e in tanti casi anche religiosa. Nella Bibbia, e di conseguenza questo vale per tutte le religione monoteiste, l’uomo del paradiso terrestre è vegetariano ed è indicato come il custode di una natura che Dio ha creato con un atto d’amore. Laicamente invece è la tradizione dell’antispecismo iniziata coi filosofi Peter Singer e Tom Regan a porre con decisione l’insostenibilità etica dell’attuale trattamento che viene riservato ai non umani. Posti questi paletti, che chiariscono i termini filosofici del discorso, e che sono alla base del cambiamento più profondo, penso che oggi la scienza abbia una quantità tale di informazioni che vanno in direzione di un radicale ripensamento della natura degli umani e degli animali che è doveroso far fruttare a vantaggio di questi ultimi.

Quali i campi più promettenti?

L’etologia cognitiva e la biologia evoluzionista, di cui apripista di una lettura in senso non antropocentrico è il professore americano Marc Bekoff, che è stato ospite d’onore al convegno e ha tenuto due lectio magistralis sul senso di giustizia degli animali e sulla necessità di riscoprire la parte selvaggia di noi umani come dimensione autentica in cui albergano i sentimenti più nobili della compassione e l’empatia. L’idea più forte che emerge da questo campo di studi è che l’evoluzione non fa dei salti e dunque le caratteristiche che credevano proprie solo degli esseri umani sono presenti con modalità e gradazioni diverse in tantissimi specie, poiché hanno una specifica funzione naturale. Bekoff ha citato l’empatia dei topi, l’amicizia interspecifica possibile addirittura tra serpenti e criceti che vengono loro dati in pasto, la sofferenza muta, e perciò ancora più drammatica, dei pesci. Fino alle manifestazioni più misteriose e affascinanti, come i funerali di elefanti e delfini e quello che assomiglia tanto a un senso religioso manifestato dagli scimpanzé, che come testimoniato dalla famosissima primatologa Jane Goodall (co-fondatrice con Bekoff dell’Ethologistsfortheethicaltreatementofanimals, n.d.R.) compiono degli emozionanti riti danzanti di fronte alle cascate delle foreste. Bekoff ha raccolto molte di queste storie in Wild Justice, un testo illuminante che mette anche in crisi il concetto di evoluzione valido fino ad oggi: la morale e la collaborazione reciproca giocano un ruolo fondamentale in tutte le specie, la cosiddetta legge della giungla è qualcosa di più raffinato di una banale “legge del più forte”.

Come scardinare praticamente uno sfruttamento che ha percorso la storia dell’uomo sin dalle sue fasi più primitive?

Proprio perché un arbitrio su esseri senzienti che soffrono terribilmente a causa nostra è così radicato, l’elemento fondamentale per cambiare le cose oggi è innanzitutto il suo riconoscimento, fuori dalla scontatezza data dall’abitudine. E’ appena uscito in Italia un libro molto importante in questo senso che con Paola Sobbrio ho tradotto per la casa editrice Sonda, che si chiama Perché mangiamo i maiali, amiamo i cani e mangiamo le mucche, scritto dalla psicologa sociale Melanie Joy. Penso sia un nodo cruciale nella discussione sull’antispecismo perché introduce il concetto, inedito, di carnismo. Fino ad oggi si è parlato di vegetarismo come alternativa a qualcosa di riconosciuto come normale, mentre Joy argomenta che non è così e che oggi, che le condizioni sociali ed economiche offrono delle valide alternative a quella di cibarsi di animali, continuare farlo è una vera e propria propria scelta che va quantomeno compiuta con consapevolezza.

Come può avvenire questa presa di coscienza?
Intanto riconoscendo come il nostro comportamento sia tutt’altro che coerente. Qualche anno fa c’è stato molto clamore da parte delle associazioni animaliste intorno all’abitudine degli orientali di cibarsi di cani e di confezionare pellicce con il loro manto e con quello dei gatti. Beh, noi ci cibiamo di maiali che hanno una psiche ancora più complessa rispetto ai cani! Come giustificarci? E’ possibile convivere serenamente con quest’idea? Se ci indigna il pensiero che qualcuno si cibi dei nostri amati cani, di cui riconosciamo facilmente la capacità di provare piacere e dolore, dovremmo riconoscere che il comportamento che abbiamo non è plausibile eticamente e nemmeno indispensabile, ma deriva da un insieme di contingenze sociali ed economiche che cozzano anche con la sostenibilità ambientale, poiché sappiamo che gli allevamenti sono una delle maggiori fonti di inquinamento.

Altra questione scottante: che dire delle ragioni ecologiste per smettere di cibarsi di carne?

Il libro di Melanie Roy dedica ampio spazio a questo aspetto, sottolineando come a naturalizzare il nostro mangiar carne, che non è più necessario come avveniva nel passato quando il cibo scarseggiava, contribuisca una potente macchina propagandistica che fa gli interessi economici delle multinazionali. Campagne promozionali studiate ad hoc e incentivi economici all’acquisto di prodotti di origine animale tengono in piedi un’industria che negli Stati Uniti fa sì che il 99% della carne provenga da immensi allevamenti intensivi, con tutto quello che ciò comporta a livello ambientale. Etica dell’ambiente ed etica degli animali sono intrecciate, la conoscenza dello spreco di risorse e dal devastante impatto sull’ecosistema che si nascondono dietro la bistecca non possono più essere nascoste e impongono una riflessione profonda.

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