La pena di morte (per gli animali)
di Jean Baudrillard
Fino al XVIII secolo, s’impiccavano, dopo una condanna formale, gli animali colpevoli d’aver causato la morte d’un uomo. Si impiccavano anche i cavalli. (Autore anonimo)
Ci deve essere una ragione ben particolare della repulsione che c’ispirano le punizioni di animali, perché dovrebbe essere più grave condannare un uomo che un animale, e più odioso farlo soffrire. Ora, in un modo o nell’altro, l’impiccagione di un cavallo o d’un porco ci sembra più odiosa, come quella d’un pazzo o d’un bambino, perché essi sono “irresponsabili”. Questa segreta eguaglianza delle coscienze nella giustizia, che fa sì che il condannato conservi sempre il privilegio di negare il diritto dell’altro a giudicarlo, la possibilità di questa sfida, che è cosa diversa dal diritto alla difesa, e che ristabilisce un minimo di contropartita simbolica, non esiste più assolutamente nel caso dell’animale o del pazzo. E proprio l’applicazione d’un rituale simbolico a una situazione che esclude qualsiasi possibilità di risposta simbolica costituisce il carattere particolarmente odioso di questo tipo di punizione.
A differenza dalla liquidazione fisica, la giustizia è un atto sociale, morale e rituale. Il carattere odioso della punizione di un bambino o di un folle proviene dall’aspetto morale della giustizia: se l’“altro” deve essere convinto di essere colpevole e condannato in quanto tale, la punizione perde ogni senso, poiché in questi “criminali” non è possibile né la coscienza della colpa, e nemmeno l’umiliazione. E quindi altrettanto stupido che crocifiggere dei leoni. Ma nella punizione d’un animale c’e un’altra cosa, che viene questa volta dal carattere rituale della giustizia. Più che la morte inflitta, è l’applicazione d’un cerimoniale umano a una bestia ciò che costituisce la stravaganza atroce della scena. Tutti i tentativi di vestire in modo strambo gli animali, di travestirli e di ammaestrarli secondo la commedia umana sono sinistri e malsani – nella morte, ciò diventa francamente insopportabile.
Ma perché questa repulsione a veder trattare l’animale come un essere umano? E che allora l’uomo è trasformato in bestia. Nella bestia che s’impicca, in virtù del segno e del rituale e un uomo che viene impiccato, ma un uomo tramutato in bestia come per magia nera. Una significazione riflessa – venuta dal fondo della reciprocità che opera ovunque, sempre, qualunque cosa ne pensiamo, tra l’uomo e l’animale, tra il carnefice e la sua vittima – si mescola alla rappresentazione visiva in una confusione terribile, e il disgusto nasce da questa ambiguità malefica (come ne La metamorfosi di Kafka). Fine della cultura, fine del sociale, fine della regola del gioco. Uccidere una bestia nelle forme umane scatena una mostruosità equivalente nell’uomo, che diventa vittima del suo stesso rituale. L’istituzione della giustizia, con la quale l’uomo pretende di tracciare una linea tra se stesso e la bestialità, si ritorce contro di lui. Certamente, la bestialità è un mito – linea di cesura che implica un privilegio assoluto dell’umano e respinge l’animale nel “bestiale”. Questa discriminazione, tuttavia, si giustifica relativamente quando implica, contemporaneamente al privilegio, anche tutti i rischi e gli obblighi dell’umano, in particolare quello della giustizia e della morte sociali – nel cui ambito di competenza, invece, secondo la medesima logica, l’animale non entra assolutamente. Imporgli questa forma, significa cancellare il limite tra i due, a abolire di colpo anche l’umano. Allora l’uomo è puramente la caricatura immonda del mito dell’animalità che lui stesso ha istituita.
Nessun bisogno di psicoanalisi, di figura-del-padre, di erotismo sadico e di senso di colpa per spiegare la nausea del supplizio animale Qui tutto è sociale, tutto ha attinto alla linea di demarcazione sociale che l’uomo traccia attorno a se stesso, secondo un codice mitico di differenze – e alla ritorsione che spezza questa linea, secondo la legge che vuole che la reciprocità non cessi mai: tutte le discriminazioni sono sempre e solo immaginarie, e la reciprocità simbolica le attraversa sempre, per il meglio e per il peggio.
Beninteso, questa nausea, legata alla perdita del privilegio dell’umano, è propria quindi anche a un ordine sociale in cui il taglio netto tra l’uomo e l animale, e quindi l’astrazione dell’umano, è definitiva. Questa repulsione ci distingue: segna che la Ragione umana ha fatto dei progressi, il che ci permette di relegare nella barbarie tutto questo “medioevo” di supplizi, umani o animali. “Ancora nel 1906, in Svizzera, un cane è giudicato e giustiziato per aver partecipato a un furto e omicidio”. Nel leggere questa notizia, siamo ben rassicurati: non siamo più a quei tempi. Sottinteso: al giorno d’oggi siamo umani con gli animali, li rispettiamo. Ora, e esattamente l’inverso: il disgusto che ci ispira l’esecuzione di un animale è esattamente proporzionale al disprezzo in cui lo teniamo. È in proporzione alla sua relegazione, propria della nostra cultura, nell’irresponsabilità, nell’inumano, che l’animale diventa indegno del rituale umano: è allora sufficiente che quest’ultimo sia applicato per darci la nausea, non secondo un progresso morale, ma a causa dell’approfondimento del razzismo dell’umano.
Coloro che un tempo sacrificavano ritualmente gli animali non li consideravano delle bestie. E anche la società medievale che li condannava e li puniva secondo le regole ne era più vicina di noi a cui questa pratica fa orrore. Li ritenevano colpevoli: era far loro un onore. L’innocenza in cui noi li releghiamo (di conserva con i pazzi, i ritardati, e i bambini) è significativa della distanza radicale che ci separa da essi, dell’esclusione razziale in cui li mantiene la definizione rigorosa dell’Umano. In un contesto in cui tutti gli esseri viventi sono partecipi dello scambio, gli animali hanno “diritto” al sacrificio e all’espiazione rituale. Il sacrificio primitivo dell’animale è legato al suo statuto sacro ed eccezionale di divinità di totem. Noi non li sacrifichiamo più, non li puniamo nemmeno più, e ne siamo fieri, ma il fatto e semplicemente che li abbiamo addomesticati, che ne abbiamo fatto un mondo razzialmente inferiore, non più degno nemmeno della nostra giustizia; e, così, sono sterminabili, come animali da macello. In altre parole, il pensiero razionale liberale si prende carico di coloro che scomunica: gli animali, i pazzi, i bambini che “non sanno quello che fanno” – quindi nemmeno degni del castigo e della morte, appena appena della carità sociale: protezionismo di ogni genere, società per la protezione degli animali, psichiatria “aperta”, pedagogia moderna – tutte le forme di inferiorizzazione definitiva, ma con delicatezza, in cui si trincera la Ragione liberale. Commiserazione razziale grazie alla quale l’umanesimo raddoppia il suo privilegio sugli “esseri inferiori”.
(tratto da L’Echange symbolique et la mort, 1976, tr. it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 184-187)