Uomini e gabbie
di Luca
Oggi alla Facoltà di Giurisprudenza c’era il seminario di diritto penitenziario. Sul carcere. Si son dette un po’ di cose. Riassumendo: il carcere è brutto, sarebbe bello non ci fosse. È seguita una proiezione di interviste, sia a ignari passanti sia a persone che ben conoscono il carcere.
Nel video un ex detenuto diceva che sostanzialmente il carcere serve a far diventare gli uomini animali. Io, entrando nell’auspicato dibattito, ho appena fatto notare che per questo non serve nemmeno il carcere. Perché gli uomini sono animali. E qui un soffio deluso ha sgonfiato le studentesse impalcate di tacchi trucco borsetta iphone scopina rettale pigiate in prima fila.
Il nocciolo del mio intervento era far notare che finché vivremo in una società in cui è considerato normale disporre della vita di un animale, ingenerandone dolore e morte, e nemmeno ce ne rendiamo conto, non potremo liberarci del carcere. Perché sarà comunque considerata una misura meno intollerabile di quella (es. i carcerati non sono uccisi).
Nella video-intervista i passanti, alla domanda “chi sta in carcere”, rispondevano a una voce: «I criminali! E che ci stiano, bisogna costruire più carceri per contenerli tutti». Ciò a dire semplicemente che non rivedevano sé stessi nell’altro. Non erano interessati a sapere le condizioni di un carcere, avendo premesso che dentro c’erano non-persone (i delinquenti).
Il guaio di questo modello è che ognuno di noi troverà sempre qualcuno, più ricco e potente, di fronte al quale l’animale sarà lui stesso. Finché l’ex detenuto non vede l’analogia col cadavere sezionato e rivenduto al supermercato, ci sarà il carcere per lui. Perché se un principio è valido (es. non discriminare, non disporre della vita altrui) lo è sempre, non solo quando serve a noi stessi.
Mentre parlavo, l’ambiente scricchiolava di ostilità. E anche chi dovrebbe essere più sensibile, avendo promosso l’incontro, si è mostrato inamovibile, e spiacente nel dire che non è la stessa cosa. E invece lo è. Finché tutti non ci accorgiamo di come distinguiamo tra cane e mucca, non possiamo fare la morale al tizio per strada che distingue persone e delinquenti. Non è perdita di tempo, è andare alla radice della questione. E forse sarebbe appunto meglio capirlo, prima di sorridere con superiorità davanti all’ingenuità dei passanti. Siamo tutti passanti. Al solito, tutto è relativo.
«Ma queste persone sono private della li-ber-tà, e non sono nemmeno condannati definitivi!»
Capisco. Immagino che i maiali invece siano condannati definitivi.
Chiosava sullo schermo un aforisma secondo cui il progresso di una civiltà si misura dalle condizioni del carcere. Giusto. Opinabile. Gandhi diceva che si misura da come essa tratta gli animali. Da Vinci scrisse che un giorno uccidere un animale sarà considerato come uccidere un uomo.
Ma noi, che «non abbiamo tempo per queste interessantissime questioni filosofiche, dobbiamo restare sul tema», siamo tornati comodi sulle seggioline, ordinatamente pragmatici e intelligenti. Noi tanto tanto contrari al carcere, e quindi tanto tanto buoni.
E naturalmente al seminario, immagino, non è stata dai partecipanti neppure percepita la differenza, non sottile – e qui da te naturalmente data per scontata – per cui il detenuto, per quanto spersonalizzato lo si voglia considerare, è (vabbè, dovrebbe essere) comunque un criminale giudicato colpevole all’esito di un processo con norme e garanzie. Ove invece un animale non umano viene condannato senza aver commesso alcun reato, per la sua sola diversità biologica dalla nostra specie: come se la sua animalità non umana fosse un motivo sufficiente, e una valida giustificazione per noi, per rinchiuderlo dietro le sbarre e disporne com più ci piace.
Sempre sul tema segnalo, anche se non si tocca la questione animale, una conferenza che Passamani ha tenuto qualche tempo fa a Rovereto: http://www.ecn.org/filiarmonici/passamani2000.html