Soutine e quei corpi straziati
di Nujud Qitta
Uno schiaffo in faccia, una domenica mattina dedicata a una mostra d’arte. In mezzo ai quadri dell’esposizione Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter saltano agli occhi due corpi straziati d’animali. Non che una rassegna con tale titolo si proponga di essere rassicurante, ma una riflessione antispecista proprio non ce la si sarebbe aspettata. Una sola lepre, appesa a testa in giù, con i muscoli una volta scattanti fatti per correre nei prati, lasciata lì nel buio per la putrefazione che la renderà improbabile leccornia. E poi un quarto di bue, nudo e crudo, con tutti i colori del disfacimento della carne, che sembra di sentirne l’odore attraverso la tela. Innegabilmente abile come pittore Chaïm Soutine.
Chaïm Soutine nasce nel 1893 a Smiloviči, un villaggio russo, oggi in territorio bielorusso, in una famiglia ebraica povera, di origine lituana. Dopo un’infanzia difficile, nel 1913 si trasferì a Parigi, dove conobbe alcuni degli artisti più importanti del tempo, tra cui Marc Chagall, Fernand Léger e Amedeo Modigliani, di cui divenne grande amico. Artisticamente vicino all’espressionismo, a Parigi si distingueva per la sua stravaganza: dipingeva spesso animali morti. Nel 1925, nel suo studio di Rue du Mont St Gothard porta i resti di un manzo macellato, ne fa diverse tele mentre il corpo si decompone. Da qui nascono alcune leggende: una modella pagata per allontanare le mosche mentre Soutine ritrae il soggetto; un paiolo di sangue che il pittore acquista da un macellaio per ridare colore alla carne ormai putrefatta; la polizia – chiamata dai coinquilini per il cattivo odore – cui l’artista spiega quanto l’arte sia più importante dell’igiene e degli aromi gradevoli.
A differenza di Modigliani, Soutine ha successo in vita, diventa famoso e i suoi quadri vengono pagati bene. Il suo punto di vista sul mondo tra le due guerre piace, colpisce, in qualche modo ne incarna l’inquietudine e la violenza sotterranea. La sua carcassa di bue s’ispira a quella di Rembrandt esposta al Louvre, ma poi se ne distacca. Le sue nature morte, i suoi animali morti ammazzati non si rassegnano e, forse superando la consapevolezza del pittore stesso, puntano il dito su una società che annulla cinicamente la dignità delle sue vittime. Nel periodo della completa affermazione del capitalismo in Occidente, dell’ascesa dei regimi totalitari e dei nazionalismi più cupi, l’artista coglie la drammaticità dei corpi ridotti a merce, ne rappresenta esteticamente la sofferenza e la silenziosa ribellione. Forse senza rendersene conto fino in fondo, ma sicuramente avvalendosi di quel gran lavoro di rielaborazione che l’arte sa fare per cogliere l’essenza della realtà. Parigi in quegli anni era un’autentica fucina culturale e Soutine ne respirava l’aria, ne assorbiva gli stimoli. Svuota di qualsiasi senso di pietà i suoi quadri di animali morti, ma così facendo li presenta come capi d’accusa ancora più potenti contro un sistema che di pietà non ne ha affatto.
Racconta la biografia di Soutine che quel corpo di bue, una volta immortalato sulla tela, viene portato via dallo stesso pittore con l’aiuto di Modigliani, e finisce in un qualsiasi angolo buio e nascosto, tra i rifiuti della metropoli scintillante, anonimo come tutti gli altri resti di animali straziati venduti nei mercati di tutto il mondo. Il lavoro di Soutine lo rende però viva testimonianza del tormento di quegli anni, anni di grande sviluppo per l’industria della carne, anni in cui l’inganno delle proteine nobili e del latte come “alimento più completo” prepara il campo alla gestione dei gusti alimentari delle masse. Anni in cui il capitalismo arriva a manipolare le coscienze per attivare il consenso a regimi contorti e crudeli.
Per approfondire http://www.andrewgrahamdixon.com/archive/readArticle/153