Verso un antivivisezionismo politico

di Marco Maurizi

La posta in gioco nel dibattito tra antivivisezionismo etico e scientifico [1] non è solo una lotta per una corretta impostazione etica. Esso rientra dentro una battaglia più ampia che riguarda il modo in cui occorre comprendere e cambiare i rapporti sociali nel loro complesso poiché la scienza è un fenomeno sociale come tutti gli altri. L’antispecismo non può infatti credere allo “scientismo”, ovvero alla fantasia oggi dominante secondo cui la scienza è un’impresa autonoma, indipendente dalla società e dai suoi interessi, che costituirebbe – proprio per questo – il metro e la misura di ogni verità. Tutto il resto, si ritiene, sono parole senza rigore, “mera” filosofia (nel senso deteriore del termine), opinioni e desideri, al limite posizioni morali soggettive che non sarebbe possibile discutere razionalmente. A ciò si può rispondere sia seguendo il discorso scientista nel suo delirio oggettivistico (secondo cui sarebbe necessario, per accedere alla verità, “depurare” gli asserti da ogni partecipazione del soggetto), sia mostrando il nesso tra scienza e società e il dibattito sulla vivisezione può aiutare a fare chiarezza in tal senso [2].

In effetti, lungi dall’essere un’impresa a-morale, la ricerca scientifica è già oggi guidata da principi etici (tabù della sperimentazione sull’uomo) ed economici (gli interessi delle multinazionali); da questa semplice constatazione deriva che l’opposizione tra antivivisezionismo etico e scientifico deve essere superata. L’antivivisezionismo etico e quello scientifico possono infatti trovare un terreno di convergenza nell’idea politica di una società non specista. Una società non specista allargherà il principio etico anche alla vita non umana e farà in modo che la scienza persegua gli interessi di questa comunità “allargata” e non di singoli umani a scapito di altri umani, di animali e dell’ambiente. Anche l’attività scientifica deve quindi essere sottratta agli interessi dei privati e alla folle lotta dei ricercatori per l’accaparramento di risorse che produce falsificazioni scientifiche, moltiplica inutilmente gli esperimenti ecc. Non c’è bisogno di essere scienziati per riconoscere questo effetto “distorsivo” sulla ricerca dell’attuale sistema economico: è un segreto di Pulcinella.

È tuttavia assolutamente centrale prima distinguere antivivisezionismo etico e scientifico per poter superare effettivamente la loro opposizione. Occorre cioè sottolineare che l’opposizione etica alla sperimentazione è, per così dire, “esterna” all’argomentazione strettamente scientifica e che, dunque, c’è in prima istanza un’alternativa secca tra le due prospettive. Inoltre, per motivi epistemologici e storici, è ovvio che la seconda – oltre ad essere l’unica prospettiva antispecista – è anche l’unica teoricamente corretta e anche praticamente utile al cambiamento auspicato (il pragmatismo degli antivivisezionisti scientifici che sperano di “fare presa” sul pubblico usando il linguaggio scientifico è del tutto illusorio: chi ha in mano le chiavi della ricerca ha anche il potere mediatico ed economico di apparire “più scientifico” degli antivivisezionisti e il grande pubblico non ha gli strumenti adeguati per giudicare la questione nel merito). La posizione coerentemente etica degli antispecisti non è, in tal senso, una “fissazione” o un estremismo.

Certo è che giungere ad una visione antispecista della sperimentazione occorrerebbe collocare tale fenomeno dentro una visione politica più ampia posto che l’antispecismo non si prefigga semplicemente di “salvare singoli animali” ma di decostruire la società specista nel suo complesso.

Occorrerebbe dunque saper ricostruire in modo fedele e critico (critico a 360°, quindi anche rispetto al metodo sperimentale in quanto tale) la storia della scienza e il rapporto tra scienza e società [3]. Occorrerebbe mettere in crisi un dibattito ormai irrigidito e viziato da incomprensioni di fondo (vera scienza/falsa scienza; l’antivivisezionismo etico come “chiacchiere” non scientifiche etc.) e di aprire a nuove prospettive di ricerca.

La questione che si pone giunti a questo punto, infatti, consegue da questa messa in crisi delle posizioni in campo. Proprio a partire dalla messa in discussione del metodo sperimentale e del rapporto scienza/società, viene da chiedersi se questa “esteriorità” delle argomentazioni etiche e scientifiche non sia vera ma limitatamente al presente assetto della società (e al modo in cui la tecnica si trova intrecciata ai rapporti di produzione attuali) e all’assetto generale delle società classiste (con il loro presupposto implicito, fondato sulla divisione del lavoro, secondo cui il lavoro intellettuale – e la scienza in particolar modo – sarebbe indipendente dalla società e si porrebbe al di sopra di essa). Questi sono due presupposti che la lotta di liberazione umana e animale mette in crisi e tenta di superare.

Recentemente mi è capitato di constatare la difficoltà che un antispecista etico ha nell’affrontare la domanda – banale ma ineludibile – su cosa si farà dopo l’abolizione della vivisezione. Tutte le possibili obiezioni di tipo etico (“perché era ingiusto farlo sugli ebrei?”, “se fosse necessario sperimentare sui bambini lo faresti?” ecc.) ammutoliscono di fronte alla semplice domanda: “sono contro la sperimentazione umana e animale…questo significa che non bisogna più sperimentare?”. Questo è il punctum dolens dell’antivivisezionismo etico. La posizione etica predica e predice l’abolizionismo ma non ha una risposta positiva su cosa ne sarà dell’impresa scientifica come tale. Per essa c’è solo una triangolazione di soggetti/oggetti morali posti al di fuori di ogni contesto sociale: lo sperimentatore – la cavia – i beneficiari della sperimentazione. L’antivivisezionismo scientifico non ha questo problema perché esso accetta il presente rapporto scienza/società e pretende solo purificarlo dalla “falsa scienza” lasciando il resto
immutato. Benché però non analizzi il rapporto scienza/società esso ha il pregio di vedere alcuni elementi del contesto storico e sociale in cui la scienza opera (benché in modo troppo spesso approssimativo e banalizzato). Occorre invece collocare la vivisezione nella dimensione storico-sociale che le è propria (“storia del dominio nella fase capitalista”) e leggere la soluzione al problema della sperimentazione all’interno di un processo globale di liberazione (cioè di uscita dalla storia del dominio).

C’è quindi bisogno di un passaggio ulteriore, dalla prospettiva (bio)etica alla prospettiva (bio)politica. Ora, posti in questa prospettiva, argomenti apparentemente “impuri” da un punto di vista etico (denuncia del rapporto industria/ricerca, la salute umana ecc.) guadagnano un loro diritto in una logica antispecista “allargata” (non “annacquata”, ma determinata e concretizzata in senso storico-politico). Penso, per il momento, ai seguenti punti:

– la ricerca come competizione sovvenzionata da industrie private e finalizzata alla commercializzazione di farmaci

– il paradigma quantificante ed empirista insegnato all’Università come unico paradigma “scientifico”.

– la natura sociale di molte malattie (squilibri alimentari, fumo etc.)

Ora, finché si rimane ancorati all’attuale costellazione di scienza e società non c’è via di uscita e la domanda: “ma allora cosa bisogna fare se si abolisce la sperimentazione animale?” non può ottenere risposta. Occorre cioè pensare l’antivivisezionismo in una prospettiva di liberazione globale (umana e non umana).

Se nel dibattito sulla sperimentazione i tre punti appena visti non vengono toccati (cioè vengono dati per scontati come necessità storiche) è chiaro che le carte sono truccate e che la sperimentazione stessa apparirà una necessità dalla quale non si può uscire. Ciò implica che un antivivisezionismo antispecista rigoroso (che vorrei chiamare “antivivisezionismo politico”) faccia propria metodologicamente la richiesta dei requisiti minimi perché un dibattito razionale sulla sperimentazione sia possibile. È chiaro infatti che non si può discutere seriamente (e in modo davvero libero) di sperimentazione, di abolizione delle cavie ecc. se non vengono prima messi in discussione i seguenti elementi (alcuni dei quali individuati dall’antivivisezionismo scientifico seppure in modo slegato e confuso):

– ogni discussione e dibattito deve essere informato, bisogna mettere i soggetti in grado di scegliere in modo consapevole: ciò implica una totale trasparenza e pubblicità circa le prassi sperimentali in atto (cosa che gli sperimentatori non vogliono perché sanno bene gli effetti che ciò avrebbe)

– la ricerca deve essere sottratta alla competizione e al sovvenzionamento privato, deve essere cooperativa, solidale. Parte delle energie materiali e intellettuali devono essere investiti nella ricerca “pura”, cioè destinate ad attività di non immediata utilità pratica (tra cui rientra di diritto anche la ricerca di nuovi metodi di ricerca…)

– prima di sperimentare su cavie (umane e non umane) e produrre farmaci occorrerebbe che fossero eliminate le cause sociali delle malattie (ambienti insalubri, stress, propaganda per prodotti nocivi etc.)

Non mi faccio illusioni in proposito. Proprio perché vedo la vivisezione come questione che attiene al processo di liberazione so che essa non potrà essere abolita se non attraverso una trasformazione sociale radicale. Non possono esserci dibattiti liberi, ricerca solidale, lotta contro le malattie sociali in una società capitalista. Ma proprio questo è il punto.

Si pone poi la questione se in una società liberata – una società in cui la scienza sia realmente al servizio degli interessi collettivi (dove la collettività include anche la soggettività animale) – la scienza e la ricerca muterebbero non solo nel rapporto con la società ma anche in sé. Sia Lukács in Storia e coscienza di classe che Marcuse in “Etica e rivoluzione” (da Cultura e società) si spingono a parlare di un cambiamento del metodo scientifico in una società liberata. Marcuse ci tiene a sottolineare però che tale cambiamento – che è un cambiamento che attiene in prima istanza ai fini (quindi esterno alla scienza come disciplina) ma che interviene successivamente anche a livello metodologico (quindi internamente ad essa) – non sarà un ritorno al metodo “qualitativo” pre-galileiano.

Su questo occorrerebbe riflettere, perché mi sembra che proprio la questione del meccanicismo come rifiuto di quello che chiamerei “antropomorfismo cosmico” (che include – ma eccede – l’antropomorfismo in senso stretto, poiché implica la tendenza dell’uomo a riconoscersi in una natura “a misura d’uomo”, dal “volto umano” ecc.) possa ricevere una nuova interpretazione dal punto di vista antispecista. La scienza moderna ha spazzato via l’antropomorfismo in un dato contesto sociale in cui era necessario per lo sfruttamento della natura fare a meno di esso (Marx: “Cartesio vede gli animali con gli occhi del periodo della manifattura”). Per usare un vecchio schema marxista ortodosso si potrebbe forse dire che la nuova Weltanschauung meccanicista era il rivestimento ideologico (e la forza ideale necessaria) ad una trasformazione materiale degli assetti produttivi (intensificazione dello sfruttamento della natura). Ora, l’antispecismo storico non richiede affatto un “ritorno” all’antropomorfismo (e dunque alla scienza “qualitativa” pre-galileiana) poiché non opera primariamente a livello ideologico ma al livello dei rapporti reali tra uomini e animali. Noi vogliamo cambiare questi rapporti e dunque produrre qualcosa che non c’era prima della scienza moderna, poiché la visione “qualitativa” (aristotelico-metafisica) mascherava comunque un rapporto di dominio sulla natura non umana.


[1] Sulla polemica tra AVS e AVE vedi, oltre agli interventi già pubblicati su questa rivista, il dibattito tra Cagno e Filippi apparso su Liberazioni e le relative repliche.

[2] Non posso mostrare in questa sede come tale constatazione circa il carattere socialmente prodotto della scienza non coincida con una forma di relativismo sociologico ma ho ben presente il problema e la mia posizione non coincide affatto con una tale forma di relativismo.

[3] Su questo si vedano gli ottimi articoli di Agnese Pignataro: «Per una critica dell’antivivisezionismo scientifico» e «Per una società senza cavie» prima e seconda parte.

Nota

Tengo a precisare che il presente articolo, cui fa riferimento questa polemica di A. Pignataro contro di me, non intendeva affatto proclamare la nascita di chissà quale “nuova” o “inedita” impostazione filosofica. Nè mi pare che nel testo si dica da qualche parte che solo io e io solo nell’intero universo abbia detto qualcosa di intelligente a proposito dell’antivivsezionismo. Ho solo esplicitato un aspetto che a me sta particolarmente a cuore, per altro sollecitato a farlo da diverse persone.

Si tratta, come ognun vede, di un breve intervento senza alcuna pretesa di scientificità o esaustività. Proprio per questo motivo non avevo aggiunto all’inizio alcuna nota, pensandolo come una semplice presa di posizione all’interno di un dibattito che si era sviluppato nelle settimane precedenti sul blog Asinus Novus.

Mi risulta quindi del tutto incomprensibile la polemica di A. Pignataro. Poiché le sue tesi sull’antivivisezionismo sono oggettivamente interessanti, sarebbe stato molto più utile, come le fu chiesto, provare a dire qualcosa di positivo sul tema, piuttosto che riempire nuove pagine web con ennesime critiche al sottoscritto. Non è stato così, peccato. 

Sul contenuto della polemica non entro poiché risulta evidente a chiunque la sproporzione mostruosa tra il mio misero post su Asinus Novus e le implicazioni epocali che Pignataro prentede ricavarne. Ad ogni modo, le tesi essenziali di questo intervento (riassunte nel primo paragrafo di questo testo) risalgono al maggio 2005, quando A. Pignataro aveva pubblicato solo il primo dei suoi “famosi” testi. Se non ha gridato al plagio allora non capisco perché debba farlo adesso.

Infine, spero di poter scrivere quanto prima un articolo su Teletabis e antispecismo in modo da permettere ad A. Pignataro o chi per lei di pubblicare un’invettiva di risposta in cui si afferma solennemente che i miei sforzi sono inutili perché “i Teletabis sono già politici”.

Comments
8 Responses to “Verso un antivivisezionismo politico”
  1. stopthatrain ha detto:

    non sono d’accordo sui paletti etici che la ricerca scientifica avrebbe oggi. I farmaci vengono tuttora testati sui malati anche a loro insaputa o sulla base di informazioni false (ne ho testimonianze dirette) e sui poveri
    (l’ultima: http://ilserpentedigaleno.blogosfere.it/2012/01/vaccini-testati-su-neonati-la-gsk-condannata-in-argentina.html).
    Il business farmaceutico non si basa solo sulla ricerca della cura delle malattie, ma sopratutto, al contrario, nella ricerca di “malattie” di cui monopolizzare le “cure”. Penso al caso, clamoroso, del disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, i cui rimedi, psicofarmaci somministrati a bambini ed adolescenti, ha portato negli Stati Uniti a un’infinità di suicidi di minorenni. (http://www.metamorfosi-aliene.it/argomenti-scientifici/medicina-e-rimedi-naturali/psicologia/312-psicofarmaci-ai-bambini-storia-di-un-suicidio-annunciato.html.)
    E guarda caso ben più si investe nella redditizia “cura” che nella prevenzione (nella riduzione reale degli inquinanti cui siamo esposti continuamente ecc.) e c’è chi si chiede se l’eventuale risoluzione delle malattie che affliggono gli umani potrà mai essere economicamente vantaggiosa come lo studio potenzialmente infinito su di esse.
    In quest’ottica la critica, indissolubilmente etica e scientifica, della sperimentazione animale, da intendersi come cifra emblematica della violazione della vita da parte di QUESTO modello, a sua volta indissolubilmente economico e scientifico – e non sono poche le voci all’interno della comunità scientifica che affermano che MAI i dati riscontrati su una specie diversa dall’uomo possano essere trasferiti sulla nostra con certezza, e che quando i risultati corrispondono si tratta di coincidenze che rientrano nella statistica – non potrebbe essere, allora, l’elemento fondante di una delegittimazione a tutti i livelli del modello dominante, oltre che esserne una parte?

  2. pasquale75321 ha detto:

    Anche questo è un articolo coraggioso.

    E su ricerca scientifica e scienziati:
    “[…] La stupidità collettiva dei tecnici degli istituti di ricerca non è semplicemente assenza o regressione della facoltà intellettiva, ma un cancro, una moltiplicazione di quella facoltà, che la divora con la sua stessa energia. […]” Adorno, Minima moralia, af. 80.
    Per comprendere meglio la brutale citazione, meglio rileggere l’intero aforisma, ancora più brutale: è attualissimo, benché Adorno si riferisca alla ricerca della Germania hitleriana.

  3. derridiilgambo ha detto:

    Consiglio vivamente la lettura di un libello a cui mi sto dedicando oggi: L’industria della depressione, Philippe Pignarre.
    A cui aggiungo, per chi ne fosse a digiuno, i libri di Lewontin (in particolare l’indispendabile Biologia come ideologia).

    Di mio aggiungo che immaginarsi la Ricerca, non solo biomedica, come il trionfo della Ragione e del Progresso, va bene fino ai 14 anni. Non solo perché la scienza non è asociale, astorica e apolitica (e quella della Scienza come Via al Progresso è una religione) ma anche perché sono rari i programmi di ricerca in cui i dati non siati “trattati”, o se volete “filtrati” per far reggere le teorie. Insomma, anche quello dell’induzione è un po’ un mito. La scienza è ampiamente deduttiva: e i dati che “giustificano”, p es, la teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione, o la relatività generale einstainiana, contemporanemente aprono la possibilità ad interpretazioni opposte delle medesime teorie.
    Si risolverà tutto attraverso i mitologici “dati”? Stiamo a vedere.

    Per ora proprio il darwinismo ci insegnerebbe che a “sopravvivere” non sono le teorie più “vere”, ma quelle più “adatte”. A tenere insieme i dati, ma anche a rafforzare visioni del mondo e poteri.

    Grazie Marco

  4. Marco Reggio ha detto:

    Ho trovato l’articolo interessante, anche se alcune cose mi lasciano perplesso. Qui c’è una risposta pubblicata da Antispecismo.net: http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=154:avesuperamentipignataro secondo me centra bene un punto che – appunto – mi lasciava perplesso, e cioè come in questo contributo non sia chiaro cosa si intenda per antivivisezionismo scientifico. naturalmente con “avs” si può intendere di tutto: l’uso di argomenti scientifici contro la vivisezione accanto a quelli etici, la non distinzione fra i due tipi di argomenti, il collegamento fra temi scientifici ed etici nella lotta, ecc.. Ma storicamente l’avvio del dibattito che ha messo in discussione (nonostante la censura e comportamente davvero spiacevoli) le tesi avs prendeva di mira l’antivivisezionismo scientifico in una sua accezione precisa: la tesi secondo cui il modello animale è sempre sbagliato (data l’attuale pratica scientifica e indipendentemente dalla volontà o meno di criticarla e dal merito di tali eventuali critiche), unita alla tesi che questa presunta ovvietà (che tale non è) fosse l’arma argomentativa principale contro la vivisezione, o almeno una delle armi plausibili. Cominciare a dire di no a questa impostazione mi pare già, in effetti, un superamento in senso politico di una discussione che era – quella sì – tutta “tecnica” e perdente. Perdente sia per il motivo che dice Maurizi (chi ha in mano i media, la propaganda, ecc.), ma anche perchè debole sul piano epistemologico, nel momento in cui si pone DENTRO al contesto scientifico attuale.

  5. Mi dispiace dissentire, ma l’antivivisezionismo, o meglio l’opposizione ai modelli animali, in quanto problema metodologico ancora prima che etico, deve necessariamente tenere in primo piano la critica scientifica a questa pratica.
    Questo perchè lo scopo degli stessi esperimenti è la protezione della salute umana, pertanto il primo punto in cui essi falliscono è nell’obiettivo che si sono preposti.
    Solo successivamente è possibile analizzare i motivi etici, che possono sussistere o non sussistere. Mettiamo il caso di una risonanza magnetica funzionale su di una specie diversa da noi, essa è scientificamente insensata ma è certamente etica se dietro non vi è sofferenza di alcun tipo, inclusa la prigionia.
    Senza contare poi che parliamo di un’analisi oggettiva (mancanza di predittività del modello animale) che non include necessariamente un pensiero soggettivo (l’uso degli animali non è eticamente accettabile a priori), il che quindi può tradursi in un cambiamento puramente metodologico senza creare un “nuovo modo di relazionarsi con gli animali sia umani che non-umani”.

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