Definire lo specismo (Joan Dunayer)

tratto dalla prefazione del libro di J. Dunayer, Speciesism, Ryce Publishing, 2004.

Ogni volta che vedi un uccello in gabbia, un pesce in una vasca o un mammifero non-umano alla catena stai vedendo lo specismo. Se credi che un’ape o una rana abbiano meno diritto alla vita e alla libertà di uno scimpanzé o di un umano o se consideri gli umani superiori agli altri animali, stai approvando lo specismo. Se visiti le acquaprigioni o gli zoo, frequenti circhi che offrono “numeri con gli animali”, indossi pelle o pelo di non-umano, mangi carne, uova, latticini, stai mettendo in pratica lo specismo. Se ti batti per la macellazione più “umana” dei polli o per una prigionia meno crudele dei maiali, stai perpetuando lo specismo. Ma che cos’è esattamente lo specismo? Nel 1970 lo psicologo Richard Ryder coniò il termine specismo in un opuscolo così intitolato. Benché non definisse esplicitamente il termine, indicò che gli specisti tracciano una netta distinzione morale tra gli umani e gli altri animali. Essi non riescono a “estendere l’interesse per i diritti elementari agli animali non-umani”. Con la pubblicazione di Liberazione animale nel 1975, il filosofo Peter Singer portò il concetto di specismo all’attenzione generale. Definì lo specismo

un pregiudizio o un atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli interessi dei membri della propria specie e contro i membri delle altre specie. (Peter Singer, Animal Liberation, New York Review of Books, New York 1975, p. 7)

Questa definizione è insufficiente. La si paragoni con una definizione analoga di razzismo:

un pregiudizio o un atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli interessi dei membri della propria razza e contro i membri delle altre razze.

Certo, il pregiudizio dei bianchi contro tutte le altre razze è razzista. Ma anche il pregiudizio dei bianchi verso qualsiasi altra razza lo è. Costituisce razzismo il solo pregiudizio contro i semiti, quello contro gli africani o i nativi americani o gli aborigeni australiani, così come il pregiudizio verso tutte le razze tranne i bianchi e gli asiatici. Analogamente, il pregiudizio in favore degli umani e contro alcune altre specie (ad es., i ratti e i topi) è specista, così come l’atteggiamento favorevole ai soli umani e verso alcune altre specie (ad es., gli scimpanzé e i gorilla). In un articolo del 2003, Singer definì lo specismo in modo più ristretto che in Liberazione animale:

l’idea che sia giustificabile accordare una preferenza ad esseri semplicemente per il fatto che sono membri della specie Homo sapiens. (Peter Singer, “Animal Liberation at 30”, in New York Review of Books, 15 maggio 2003, p. 23.)

Con “preferenza” Singer intende una maggiore considerazione morale. Questa definizione di specismo è più inadeguata di quella precedente. Ora, oltre a limitare lo specismo al pregiudizio in favore di una sola specie (la nostra), Singer lo limita al favore semplicemente basato sull’appartenenza di specie. Si consideri, nuovamente, un’analoga definizione del razzismo: “l’idea che sia giustificabile accordare una preferenza a certi individui semplicemente per il fatto che sono bianchi”. Forse non è razzista accordare maggiore considerazione morale ai bianchi per qualsiasi motivo, ad es. per il fatto di avere una pelle più chiara o un più elevato standard di vita rispetto ai non-bianchi? Un esempio parallelo per il sessismo potrebbe aiutare a chiarire il problema: “l’idea che sia giustificabile accordare una preferenza a certi individui semplicemente per il fatto che sono maschi”. E’ sessista accordare ai maschi una maggiore considerazione morale che alle donne per qualsiasi motivo, ad es. la loro maggiore forza fisica o il fatto di ottenere punteggi più elevati nei test sull’orientamento. Allo stesso modo, è specista accordare agli umani una maggiore considerazione morale che ai non-umani per qualsiasi motivo, ad. es. il fatto che gli umani posseggano un linguaggio scritto o facciano maggiormente uso di strumenti. Appare chiaro come la definizione singeriana di specismo sia eccessivamente ristretta per due ordini di motivi: (1) limita lo specismo al pregiudizio in favore di una sola specie; (2) limita lo specismo al pregiudizio basato sulla sola appartenenza di specie. Al pari di Singer, il filosofo Tom Regan definisce lo specismo l’attribuzione di uno “status morale privilegiato” a tutti gli umani e a nessun non-umano. Di nuovo: è specista anche accordare un privilegio morale a tutti gli umani e a qualche non-umano (Tom Regan, “The Case ofr Animal Rights”, in Carl Cohen – Tom Regan, The Animal Rights Debate, Lanham, Rowman & Littlefield 2001, p. 170.). Considero il privilegio accordato a mammiferi ed uccelli un’ovvia forma di specismo, così come considero razzista privilegiare europei ed asiatici, o considero sessista privilegiare i maschi e le donne dal fisico particolarmente mascolino. Anche Regan definisce ulteriormente lo specismo come “l’attribuzione di un maggiore peso agli interessi degli esseri umani solo perché sono umani” (Ibid., p. 181). Non lo si ripeterà mai abbastanza: a prescindere dalla ragione addotta, accordare maggiore peso agli interessi dei bianchi rispetto ai non-bianchi è razzista, accordare maggiore peso agli interessi dei maschi rispetto alle femmine è sessista, accordare maggiore peso agli interessi degli umani rispetto ai non-umani è specista. Secondo Singer e Regan non si è specisti se si accorda piena considerazione morale a qualche non-umano: ad es., a chi assomiglia maggiormente agli umani per l’aspetto, il comportamento o la conoscenza. Tuttavia, accordare piena considerazione morale a bianchi e a mulatti ma non ai neri, estendere cioè l’uguaglianza ad alcuni non-bianchi, è ancora una forma di razzismo. Accordare piena considerazione morale ai maschi e ad alcune donne particolarmente mascoline, estendere quindi l’eguaglianza ad alcune donne, è ancora una forma di sessismo. Parimenti, accordare piena considerzione morale agli umani e ad alcuni non-umani – come, ad es., gli altri primati – singifica estendere l’eguaglianza ad alcuni non-umani, ma è ancora una forma di specismo. La filosofa Paola Cavalieri osserva che la parola specismo potrebbe “essere usata per descrivere qualsiasi forma di discriminazione basata sulla specie” (Paola Cavalieri, The Animal Question: Why Nonhuman Animals Deserve Human Rights, tr. Catherine Woollard, Oxford University Press, New York 2001, sec. ed., p. 70.). Per le ragioni citate in precedenza, è così che il termine specismo dovrebbe essere essere usato. Sfortunatamente, la Cavalieri adotta la definizione classica di Singer-Regan dandone una giustificazione debole: la linea morale che è stata tracciata tra gli umani e tutti gli altri animali è “così netta” che lo specismo “viene oggi visto come praticamente interscambiabile con il concetto di sciovinismo umano”. In America, all’epoca dello schiavismo, qualcuno avrebbe potuto dire con eguale diritto, “la linea morale che è stata tracciata tra i bianchi e i non bianchi è così netta che il razzismo viene oggi visto come praticamente interscambiabile con la supremazia bianca” (Ivi). Resta il fatto che qualsiasi discriminazione basta sulla razza sia razzista, a prescindere dal fatto che sia rivolta contro tutti i non-bianchi, alcuni non-bianchi, tutti i non-asiatici, tutti i bianchi o qualsiasi altro gruppo etnico. Che lo specismo e lo sciovinismo umano “vengano oggi visti come praticamente interscambiabili” o meno, essi non lo sono. Lo sciovinismo umano è una forma di specismo. Secondo Singer, non è specista ritenere che “ci siano differenze moralmente rilevanti tra gli esseri umani e altri animali che ci danno diritto di attribuire un peso maggiore agli interessi degli umani” (P. Singer, “Animal Liberation at 30″, cit., p. 23). Questo è specista. Non esistono differenze di questo tipo, così come non esistono differenze tra bianchi e non-bianchi, maschi e femmine che ci danno diritto di attribuire un peso maggiore agli interessi dei bianchi o dei maschi. Per avere garantita piena ed eguale considerazione morale, basta essere senzienti, possedere una qualche forma di coscienza. Perché è sbagliato torturare o uccidere degli umani, costringerli a lavorare, sottoporli ad esperimenti cruenti, imprigionarli a vita senza motivo? Perché è sbagliato privare degli umani del benessere o della vita se non in circostanze eccezionali, come ad es. la necessità di autodifendersi? Forse perché la maggior parte degli umani ragionano astrattamente, posseggono un linguaggio verbale, usano la tecnologia e hanno legami sociali? No. In effetti, è sbagliato (e illegale) tormentare o uccidere umani, come gli infanti abbandonati, a cui mancano alcune o tutte queste caratteristiche. Trattare gli umani in certi modi è sbagliato perché gli umani sono senzienti. Hanno esperienze. Far loro del male li fa soffrire. E la stessa cosa è vera di tutti gli altri animali. Come Singer stesso ammetterebbe, è specista negare ai non-umani la considerazione morale. Tuttavia, è specista anche accordare loro meno considerazione morale, così come è razzista e specista accordare ai non-bianchi e alle donne meno considerazione dei bianchi o dei maschi. Singer ammetterebbe anche che è specista accordare un peso maggiore ad interessi umani triviali rispetto agli interessi fondamentali dei non-umani. Tuttavia, è altrettanto specista accordare un peso maggiore agli interessi fondamentali degli umani rispetto ai corrispettivi interessi fondamentali dei non-umani. Al pari dei razzisti e dei sessisti, gli specisti razionalizzano il trattamento discriminatorio. E cos’è il trattamento discriminatorio? Accordare un peso maggiore agli interessi di alcuni rispetto ad altri: precisamente ciò che Singer tenta di razionalizzare. Da un lato, Singer definisce lo specismo un”pregiudizio a favore degli interessi” degli umani. Dall’altro, afferma che non è specista accordare “maggiore peso agli interessi degli umani”. La contraddizione sorge perché Singer stesso tenta di difendere una forma di specismo. Quando difendiamo l’ideologia specista, legittimiamo le azioni che derivano da tale ideologia. Il sociologo David Nibert ha descritto lo specismo come un’ideologia “creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali” (David Nibert, Animal Rights/Human Rights: Entaglements of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield, Lanham 2002, p. 243). La sua definizione include la causa e l’effetto. Nella sua prospettiva, l’oppressione umana dei non-umani è ciò che viene prima; il pregiudizio ne consegue. Si potrebbe però sostenere l’opposto: l’oppressione non sarebbe potuta sorgere senza la sensazione di possedere una qualche prerogativa eslcusiva e che fosse moralmente accettabile sfruttare gli altri animali; tranne quando agiscono in modo irriflesso, gli umani decidono di fare qualcosa prima di farlo. E’ un fatto che è impossibile decidere cosa è venuto prima: l’oppressione o la sua giustificazione psicologica, le azioni speciste gli atteggiamenti specisti. Tuttavia, Nibert fa un’osservazione importante: gli atteggiamenti e le pratiche speciste sono inestricabilmente connesse. Si sostengono vicendevolmente. Lo specismo implica sia l’arroganza che l’ingiustizia: la presunzione umana e una parallela disposizione ad abusare dei non-umani. Gli specisti svalutano gli interessi non-umani perché svalutano i non-umani, che considerano inferiori e meno degni di considerazione. Il nocciolo dello specismo è la convinzione della superiorità umana. L’autocelebrazione umana si manifesta come disprezzo (o rispetto inferiore) nei confronti degli altri animali. Per riassumere: lo specismo è sia un atteggiamento che una forma di oppressione. Poiché considerano gli umani superiori agli altri animali, gli specisti attribuiscono maggiore peso agli interessi umani rispetto ad interessi altrettanto vitali, o al benessere, dei non-umani. E’ specista escludere qualsiasi essere non-umano e per qualasisi motivo dalla piena ed equa considerazione morale.

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  2. […]  tratto dalla prefazione del libro di J. Dunayer, Speciesism, Ryce Publishing, 2004 vedi anche intervista qui: http://asinusnovus.wordpress.com/2012/02/17/definire-lo-specismo-joan-dunayer/ […]