La banalità del dialogo
di Rita Ciatti
Non esistono nemici da abbattere, ma solo animali umani e non umani da liberare. Considerando lo specismo non più come un pregiudizio morale, ma come il risultato effettivo della consolidata prassi dello sfruttamento del vivente che prosegue pressoché indisturbata da migliaia di anni, non avrebbe molto senso imputare al singolo la responsabilità delle proprie scelte individuali (alimentari, di vita ecc.) in quanto queste si formano e consolidano all’interno di un paradigma sociale che ne dirotta in parte o totalmente l’orientamento. Detto in altri termini, è la società che condiziona l’individuo a compiere determinati atti ritenuti più o meno legittimi in seno alla cultura nella quale si viene a trovare, condizione questa che rende vano e persino dannoso l’atteggiamento di chi aggredisce o colpevolizza il singolo il quale, agendo al riparo di consuetudini e leggi consolidate, non si interroga sulla legittimità delle stesse.
Preso atto di ciò, se è pur vero che noi antispecisti dovremmo sforzarci di impostare il dialogo con l’altro (ove per l’altro intendo colui che ancora fatica a comprendere le istanze della liberazione animale) in maniera pacata, non aggressiva, non colpevolizzante, credo che dovremmo altresì fare molta attenzione a scongiurare il rischio di scivolare in un atteggiamento conciliante che reputo assai dannoso. Anzi, credo che sia proprio sbagliato parlare di dialogo, in quanto l’atto del dialogare presuppone uno scambio di idee tra due soggetti parimenti in grado di esprimere e far valere le proprie idee, mentre le discussioni antispeciste mirano a far valere le istanze di libertà di quei soggetti – gli animali – che massimamente continuano a rimanere relegati sullo sfondo, una volta di più quindi calpestati nel loro fondamentale diritto ad esistere, indisturbati.
Si tende infatti a perdere di vista un fatto essenziale, ossia che, oltre i due protagonisti dello scambio dialettico, si viene a configurare una terza parte e che è, in definitiva, il soggetto più importante perché è delle sue condizioni che si sta discettando: esso è l’animale non umano, ossia il topo nel laboratorio, la mucca nell’allevamento, la gallina nella batteria intensiva, il maiale dentro la gabbia, il leone dentro il recinto. Quando ci si trova a discutere di antispecismo, questo è stato ribadito infinite volte, ma fatica evidentemente ad entrare nella testa dei più: che, cioè, non si sta discutendo del diritto mio o dell’altro di compiere delle semplici scelte, bensì del diritto alla vita di una terza parte in gioco, che è poi l’unica parte che dovremmo realmente ascoltare perché è della sua vita o morte che in definitiva si sta decidendo. Per questo reputo pericolosissimi alcuni atteggiamenti concilianti che vorrebbero indulgere ad un’ipotetica via di mezzo in cui, pur avvertendo il dovere di migliore le condizioni degli animali all’interno dei soliti noti luoghi di detenzione, mirerebbero al contempo ad elargire concessioni anche a chi lucra e guadagna sugli stessi, lasciando quindi praticamente inalterata la prassi dello sfruttamento del vivente. In verità, già parlare di una terza parte in gioco è sbagliato e fuorviante in quanto non dà esattamente la misura dell’importanza del soggetto animale non umano. In definitiva io credo che noi antispecisti dovremmo considerarci non già come un vero soggetto, ma come semplici portavoce e che pertanto i soggetti in causa dovrebbero essere solo ridotti a due: gli animali sfruttati che lottano per liberarsi – da una parte; e chi continua a ritenere legittimo sfruttarli (a vario titolo e per vari motivi), dall’altra.
In quest’ottica è evidente che frasi come: “dobbiamo dialogare con i vivisettori, con gli allevatori ecc.” sarebbero assolutamente ridicole, se non fossero tragiche. Non è concepibile infatti il fine di arrivare ad una sintesi conciliante tra due posizioni, quella di chi difende la sperimentazione animale e quella di chi vorrebbe abolirla, semplicemente perché il vero soggetto implicato non potrebbe mai accettare soluzioni che si pongano in una ipotetica via di mezzo.
Ora, se è vero, come è vero per quanto sopra detto, che noi che ci battiamo per porre fine allo sfruttamento degli animali non apriamo bocca per parlare di noi stessi, bensì per dare voce a chi non ce l’ha, più che dialogare dovremmo semplicemente opporci e contestare lo specismo con modi estremamente fermi e decisi (anche se mai in maniera aggressiva, verbalmente violenta o colpevolizzante; anche perché, a mio avviso, l’antispecismo non può contemplare la violenza, altrimenti diverrebbe esso stesso specista, con un corto circuito logico ed infauste conseguenze), difendere strenuamente le nostre posizioni senza indulgere in concessioni o divenire accondiscendenti: e questo perché, semplicemente, il maiale, il topo, la gallina pur di uscire da quelle gabbie entro le quali sono rinchiusi non indulgerebbero mai a compromessi, né si soffermerebbero a dialogare ma – semplicemente – lotterebbero per veder riconosciuto e rispettato il loro diritto a vivere. Quello che deve essere chiaro ai detrattori dell’antispecismo è che noi non vogliamo imporre una visione nostra, ma vogliamo bensì render liberi gli animali dalle loro infami prigioni perché loro è la vita e il diritto alla stessa. È la visione degli animali non umani – così come anche di tutti quelli umani ancora calpestati – che stiamo diffondendo, una visione della realtà non più antropocentrica o votata alla sopraffazione, una visione infine ed una volte per tutte inclusiva dei diritti di ogni “altro”.
Non si tratta quindi di far dialogare due parti per poi stabilire chi ha ragione, se noi o chi sfrutta agli animali, ma semplicemente di dare libertà a chi non ce l’ha, di impedire che miliardi di esseri senzienti vengano massacrati. E si tratta di un fine talmente definito, così chiaro e preciso, da non necessitare nemmeno di essere discusso ulteriormente. Niente “se” e niente “ma”. Noi, o almeno io, non sono più disposta a discutere dell’opportunità o meno di aprire le gabbie, così come il leone o il maiale in gabbia non esiterebbero un attimo se fosse loro data una scelta: tutto il mio impegno, i miei sforzi dovranno essere mirati ad aprirle quelle gabbie. Mentali e fisiche. Non è più tempo di esitare ancora o di domandarsi se sia lecito o meno attribuire diritti agli animali, essi di fatto posseggono un diritto fondamentale, quello alla vita, e l’hanno visto validificato nel momento in cui pure la scienza ha confermato che sono esseri senzienti, perché hanno soddisfatto quelle condizioni biologiche basilari per potersi definire tali.
Mi fanno sorridere coloro che non vorrebbero estendere il diritto alla vita libera agli animali perché, secondo costoro, essi poi non parteciperebbero pure dei nostri doveri.
Noi abbiamo dei precisi doveri sociali perché siamo animali sociali e culturali che hanno elaborato determinate sovrastrutture. Agli animali delle nostre agevolazioni o complicazioni burocratiche e civili importa poco, ovvio che non saranno soggetti civili e che non pagheranno le tasse, per esempio, ma rimangono però soggetti di una vita, la loro, espressa nelle modalità conformi alle loro caratteristiche di specie.
Non chiedono tanto, mica chiedono di sedersi in Parlamento, chiedono solo ed unicamente di vivere in pace la loro vita.
Quindi non è più tempo di dialogare in quanto non siamo noi antispecisti che dobbiamo fornire delle giustificazioni, ma semmai è chi sfrutta gli animali che dovrebbe spiegarci perché lo fa. Probabilmente la risposta sarà: per un utile economico. Ma può questo essere una giustificazione valida? In questo modo ogni cosa diviene predicabile: con il discorso dell’utilità economica si potrebbe giungere a giustificare qualsiasi sopraffazione, fino allo sfruttamento degli operai, dei minori, delle donne, fino alla schiavitù umana insomma.
Ieri mi ha fermato (ancora, mi fermano sempre!) un “dialogatore” di Greenpeace e quando ho spiegato l’inconciliabilità delle mie posizioni antispeciste con le loro ecologiste mi ha risposto che non sarebbe giusto abolire del tutto la pesca (secondo Greenpeace va abolita solo quella selvaggia e quelle delle specie in via d’estinzione come le balene, ad esempio) poiché ci sono alcuni popoli la cui economia si basa proprio sulla pesca. Ora, mi pare ovvio che un discorso del genere funziona solo all’interno di una logica rigorosamente antropocentrica ove l’utile economico di un popolo sarebbe più importante della vita di miliardi di pesci e altre creature marine. In una prospettiva antispecista invece questo ragionamento non è ammissibile, la vita vale sempre comunque di più di qualsiasi utile economico.
Qualcuno mi spieghi perché il vantaggio economico dovrebbe significare ed avere più valore della vita di un essere senziente.
Ovvio che un atteggiamento conciliante, diciamo pure “dialogante”, nei confronti dello sfruttamento degli animali e che tiene conto degli interessi economici risulterà più simpatico, più accattivante, ci farà apparire come personcine di buon senso, ma, sinceramente, visto la posta in gioco (la vita di miliardi di esseri senzienti) non credo che sia più il caso di dover concedere alcunché; ritengo invece necessario continuare a protestare e contestare ad oltranza: e questo non contro un presunto “nemico” da abbattere, ma per l’ideale di una nuova società libera da costruire.
D’accordo con quanto dici, con due specificazioni: 1) l’essere concilianti con i carnivori, per noi antispecisti, non significa essere aperti ad accogliere le loro ragioni (che, detto brevemente e banalmente, non esistono!), ma riconoscere che la liberazione degli animali non passa attraverso la conversione del singolo. Sinceramente piuttosto che sfinirmi fino all’inverosimile a cercare di convertire un amico carnivoro preferisco parlare con lui di cinema e al contempo battermi per abolire gli allevamenti intensivi e far sì che quel mio amico un bel giorno entri in un supermercato e non ci trovi più la carne 🙂
2) a proposito dell’utile economico, occhio che però alcune comunità basano la propria sopravvivenza su caccia e pesca, quindi non confondiamo utile economico con sussistenza.
Ciao Giovanna,
d’accordo col tuo punto 1, nella premessa infatti ho specificato che il nostro “nemico” non è il singolo, in quanto egli agisce all’interno di quei valori che la sua cultura definisce e che sfinirsi a dialogarci per convertirlo sarebbe inutile finché intanto le strutture di sfruttamento su cui si regge la società rimangono inalterate. Con queste persone si devono portare i nostri ideali (ossia degli animali) in maniera ferma, decisa, senza timore di apparire estremisti o esaltati, mantenendo la posizione, ma appunto senza cercare di discuterci o litigarci. Come dici tu, se proprio l’altro insiste (ché a volte sono i carnivori a volerci convincere della “giustezza” della loro posizione), bisogna ribadire ciò per cui lottiamo e passare a parlare d’altro. Per esempio tempo addietro sono uscita con una ragazza con cui condivido alcuni interessi (per l’appunto uno di questi è il cinema :-)), parlando è capitato che le dicessi che sono vegana e alla sua richiesta di chiarimenti le ho spiegato perché, lei ha replicato affermando che non potrebbe mai diventare anche solo vegetariana perché ama troppo mangiare certi sapori, a quel punto io non ho insistito, ho chiuso la discussione, cioè, relativamente a questo aspetto ho chiuso il dialogo, magari invece tempo addietro avrei insistito con lo scambio dialettico. Ora ho capito che dialogare in questo senso è inutile, faticoso. Informo (tipo come ho fatto al presidio), spiego cosa significhi antispecismo, quali i nostri ideali, cosa vogliamo per gli animali e basta.
Sul punto 2, sì, certo, la questione riguardo quelle comunità che sopravvivono esclusivamente grazie allo sfruttamento degli animali è molto problematica, non so se ti ricordi una volta tramite email avevo ad esempio parlato dei pastori Borana, nomadi, i quali vivono di allevamento e pastorizia.
Certamente dovremmo prima risolvere il problema dello sfruttamento animale nelle società occidentali.
Concordo al 100% e sono stesse premesse da cui partivo nei commenti che ho lasciato al pezzo di Barbara 🙂 Decentrare rispetto alla drammaticità e alla crudezza della sofferenza animale è fallimentare, anche perché tutto il nostro sforzo nasce dall’empatia con chi non può esprimere il proprio dolore direttamente ai suoi aguzzini materiali o indiretti, se quello va sullo sfondo tutto decade.
Infatti Leonora.
Non ce ne rendiamo conto, ma quando mettiamo le nostre, pure legittime, discussioni in primo piano, ancora una volta dimentichiamo gli animali.
Ultimamente ogni volta che mi capita di discutere con qualcuno rispondo che io ho intenzione di parlare SOLO degli animali e non delle mie scelte o valori. Il punto non sono “io”. Io, come soggetto, devo sparire e devo lasciar emergere il soggetto animale non umano che in quel preciso momento rappresento.
Anche perché noto che tanti ci accusano di superiorità morale perché abbiamo rinunciato alla violenza, nel momento in cui invece io divengo simbolicamente il topo o mucca che rappresento, quest’accusa verrebbe a cadere.
Ciao carissima, un abbraccio. 🙂