Il maiale non fa la rivoluzione (ma neanche il borghese): una critica a Caffo
di Serena Contardi
«Posso essere solo più amoralmente indignato», scriveva Karl Kraus sulle pagine del Fackel in risposta ai moralisti che lo rimproveravano di minare, col suo rifiuto spassionato di valori assoluti e universalmente validi, la stabilità delle istituzioni. Kraus, sempre sul Fackel, aveva definito la morale «una malattia venerea», un morbo «che paralizza, monta al cervello, acceca, asciuga le linfe vitali, indurisce le arterie» [1]. Un manganello ghirlandato di fiori, che della sua suasività fa strumento di potere. Eppure Kraus non era certo un immoralista, o almeno non un immoralista della stessa ghisa di Nietzsche e Sade, «gli scrittori neri della borghesia» [2], che celebrarono, di contro alla mollezza dei costumi contemporanei, prevaricazione e assassinio. Kraus non aveva in spregio la compassione, neppure quella verso i più miseri. Non la considerò mai sintomo di fiacchezza. Tutti ricorderanno l’incandescente replica alla lettrice «non-sentimentale» del Fackel che offese nella maniera più dolorosa e volgare la delicatezza con cui Rosa Luxemburg raccontava all’amica Sonja dei bufali rumeni percossi a sangue dai suoi carcerieri: Kraus, che sebbene anti-comunista convinto sapeva commuoversi delle parole della rivoluzionaria «che non possedeva altri beni se non il proprio cuore e voleva guardare a un bufalo come a un fratello, lei (che) avrebbe ben volentieri predicato la rivoluzione ai bufali» [3].
Kraus, come il suo discepolo Adorno, pensava che si potesse agire moralmente senza voler individuare una volta per tutte un Bene assoluto, una Norma assoluta, e che porre in modo astratto e irrelato il dover essere dell’uomo potesse rivelarsi estremamente violento. D’altronde, ciò che il filosofo francofortese rimproverava a sette e partiti eccentrici, pur meritori di non arrendersi alla tirannia del semplicemente esistente, era proprio di non saper tenere fermo all’«inflessibilità senza dottrina» [4], di contrapporre agli imperativi dominanti, per contrastarli, precetti ancor più chiusi e autoritari.
Non stupisce dunque che ancora ad oggi chi si adopera per il modesto fine di cambiare il mondo avverta il bisogno non celato di ricercare la massima stringenza e sostanziare le proprie tesi con il ricorso a principi che risultino immediatamente vincolanti per tutti. Nell’ambito del dibattito sulla questione animale, l’ultima fatica del giovanissimo filosofo Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole (Sonda, 2013), si scaglia contro il cosiddetto antispecismo politico proprio perché teoria che gli appare poco rigorosa (leggi: scientifizzata), e quindi si propone di ribadire con forza l’«assoluta giustizia della battaglia animalista» [5]. Secondo Caffo, che si riconosce in una visione platonista in cui il Bene e il Male esistono di per sé, ci sarebbero certezze etiche del tutto equivalenti alle certezze matematiche («Che ‘2+2’ sia uguale a ‘4’ non è opinione, e in questo senso si cerca il parallelo con l’etica e con la non opinabilità di ‘è sbagliato mangiare gli animali’» [6]), e solo allacciandosi a queste un antispecismo finalmente genuino dovrebbe condurre la sua battaglia per liberare gli animali non umani – e solo quelli: per Caffo, e ci tiene a precisarlo, è valido lo slogan «gli animali prima di tutto».
La disinvoltura con la quale Caffo adopera il concetto di “assoluto” (absolutus vuol dire sciolto da ogni legame, e cioè da ogni condizionamento) per riferirsi a un ipotetico universo morale che se ne starebbe al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli è totale. Totalitaria? D’altro canto, il richiamo a un «mondo dietro il mondo» che garantirebbe in eterno la bontà del veganismo è costante, senza però venire accompagnato da un’adeguata riflessione su come la sfera dell’esperienza e la sfera dell’idea si rapportino tra loro. Sembra che a Caffo, per dimostrare l’esattezza del suo realismo, basti confutare le teorie che ne insidiano le fondamenta: relativismo, scetticismo e nichilismo.
È da notare che questo avviene rimasticando uno degli argomenti favoriti dai fini intellettuali della Lega Padana: se il giusto è relativo, si deve essere relativisti anche nei confronti delle mutilazioni genitali femminili?
Già nel porre un interrogativo simile si palesa la vocazione civilizzatrice/colonizzatrice dell’etica borghese liberale, che senza calarsi in un determinato sistema simbolico per decifrarne le logiche immanenti, lo aggredisce dall’esterno col suo finto universalismo e implicitamente consolida il dogma della superiorità culturale e morale occidentale; ma nella falsa polarizzazione tra realismo e relativismo, ciò che il new-realist Caffo vorrebbe liquidare è anzitutto il pensiero dialettico, l’unico in grado di passare attraverso i due estremi, mostrandone l’intrinseca falsità. Esso non assume come sua bussola né i crudi rapporti materiali né la Verità sradicata, ma penetra nel tutto sociale, smascherandolo in base alla sua propria idea: una società che punisce per legge chi uccide animali senza necessità, e senza necessità moltiplica il loro massacro.
Caffo cita una frase di Kurt Godel, che dice così: «In realtà sarebbe facile produrre un’etica rigorosa, o almeno non sarebbe più difficile che affrontare altri problemi scientifici basilari. Soltanto il risultato sarebbe sgradevole, ma è una cosa che non si vuole vedere e che si cerca di evitare, in qualche misura anche in modo cosciente» [8]. Ma Godel parla di produrre un’etica, non di dischiudere innanzi ai nostri occhi un cosmo noetico di conio platonico in cui le forme pure possono essere contemplate per modellare il retto agire. E i concetti che abbiamo a disposizione per farlo sono materiali storicamente divenuti: usi linguistici, non datità originarie; così che l’unica universalità cui possiamo approdare per mezzo loro è, a ben guardare, un ben modesto universalismo particolare.
Caffo sembra non capire fino in fondo il diffuso timore nei confronti dell’idea di un’etica assoluta, e ne dà un’interpretazione psicologista, mettendolo in relazione con l’oscuro presagio di quanto in realtà ci troviamo lontani da essa. Non lo sfiora il dubbio che tale purismo morale, comunque carico di elementi empirici non sufficientemente elaborati, venga da molti associato al pericolo di innescare un ottuso fondamentalismo della virtù. Lo sport preferito degli animalisti, in effetti, deleterio per la loro stessa causa, è sempre consistito nella colpevolizzazione iperbolica del carnivoro. Se l’antispecismo politico si sforzava di invertire questa tendenza, surrogando le astratte teorie pratiche di Singer e il suo esasperato individualismo metodologico con l’indagine puntuale dei fasci di potere in cui i singoli sono irrimediabilmente presi, l’antispecismo debole finisce per promuovere una nuova, potenziata iper-responsabilizzazione del consumatore, corroborando le peggiori tare dell’animalismo contemporaneo: la chiusura identitaria e il narcisismo morale.
E allora sia concessa anche a noi una lettura in senso psicologista di questa furiosa pretesa di fondare una Regola oggettiva: edificare l’intero proprio discorso sulla netta bipartizione umano/non-umano per paura che esso possa perdere forza normativa significa ereditare tale e quale il proton pseudos di quella cultura affermativa che ha fatto dell’animale un inessenziale. Dell’animale e di ogni altro termine plasmato su quell’opposizione fondamentale: della natura, del corpo, della femmina… della sensibilità. A dispetto del tono sentimentale col quale si apre il primo capitolo, nella filosofia di Caffo non c’è alcuno spazio per motivi come compassione, desiderio, dono: vezzosi volant sullo sfondo, letteralmente sacrificati all’ideale di una giustizia autonoma, sovrana, razionale. Insomma Caffo non vuol rischiare. Nemmeno quella «frattura virtuale» che sola potrebbe aprire uno spazio di libertà, lo spazio del possibile.
[1] K. Kraus, Essere uomini è uno sbaglio, Einaudi, Torino 2012, p. 17.
[2] M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 123.
[3] AAVV, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007, p. 32.
[4] M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit., p. 255.
[5] L. Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale Monferrato (Al) 2013, p. 102.
[6] Ibidem, p. 97.
[7] Citato in Barbara De Mori, Che cos’è la bioetica animale, Carocci 2007, p. 11.
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[…] Il maiale non fa la rivoluzione (ma neanche il borghese): una critica a Caffo | Asinus Novus. […]
Uno degli effetti pratici deleteri del libro di Caffo, che va probabilmente aldilà delle intenzioni dell’autore anche se è troppo intelligente per non averlo previsto, è proprio il fornire giustificazione teorica al narcisismo morale e alla chiusura identitaria. “Io sono vegano. Io sono vegano. Io sono vegano”. And so what? (Giovanna)
Non condivido minimamente: l’assoluto inteso come affermazione del valore di tutti i viventi, soggettività da rispettare in quanto Altre, persino se lontanissime ed incomprensibili, è l’unica barriera che può neutralizzare l’arbitrio del più forte di turno. Nel relativismo culturale e morale qui decantato, invece, soccombono tanto l’animale, che la bambina africana infibulata: ancora una volta è la voce del potere che sottilmente si impone, suggerendo una liceità possibile di ogni tipo di violenza e abuso attraverso l’affermazione di opportune contestualizzazioni e interpretazioni concilianti, giustificate dal timore libertario dell’imporsi della “Verità”. Ma se nulla è da riconoscersi come il “Bene”, nemmeno il rispetto per tutte le creature senzienti, ovvero l’opposizione radicale ad ogni violenza e prevaricazione – che in quanto negazione assoluta del potere è vuota anche della potenzialità di trasformarsi in esso – allora nulla è “Male”, e tutto può essere giustificato.
E ciò che è funzionale a chi? Solo ed esclusivamente a chi opprime!
Che 2 + 2 = 4 non è opinabile non vuol dire che è una verità assoluta:
è un’operazione valida solo in sistemi numerici dal quinario in su,
ma non è valida in un sistema binario, ternario o quaternario, dove 2 + 2 = rispettivamente 11, 100 e 10.
L’affermazione di Gödel su una fondazione di un’etica rigorosa al pari delle scienze empiriche
è valida per qualsiasi sistema formale di assiomi, definizioni, termini di un linguaggio, di un metalinguaggio, dimostrazioni, ecc.
Tutti sistemi che lo stesso Gödel ha dimostrato esposti ad antinomie, con i teoremi di incompletezza.
Che poi avesse una concezione platonica dei numeri al pari di Frege e Russell,
era ben consapevole che essa è indimostrabile.
Ma il sogno non solo hilbertiano di fondare almeno un’aritmetica completa e priva di contraddizioni e tanto meno una scienza empirica, o, peggio, etica era svanito definitivamente.
Sarei curioso di sapere da dove proviene la citazione di Barbara De Mori, se da uno dei pochissimi suoi scritti, dagli scritti postumi, da conversazioni o da testimonianze.
oops, dove 2 + 2 = rispettivamente 100, 11 e 10.
Leonardo Caffo cita anche la definizione di verità di Tarski,
che è un ottimo tentativo di formalizzarla in un sistema logico predicativo:
La proposizione “Il tempo piove” è vera se e solo se il tempo piove.
Ma applicare tale schema ai concetti etici porta a contraddizioni ben più penose
dell’antinomia del mentitore.
Così l’unico assoluto che ci resta è Dio.
Ma dillo a chi ci crede.
Già Kant si era accorto che un’etica assoluta non si può fondare
che su una ragion pratica inventata allo scopo,
e non, come pretende Leonardo Caffo, hmm, sulla ragion pura.
Già un neopositivista se la riderebbe.
Per il quale le uniche affermazioni accettabili
sono quelle protocollari (piove, il sole splende, ho freddo,
l’acqua bolle a 100 gradi centigradi a livello del mare…)
e per il quale la proposizione “è sbagliato mangiare animali” è una proposizione normativa
né più né meno come “non desiderare la donna d’altri”.
Accusare qualcuno di relativismo, Stopthatrein, è accusarlo di non credere
in un Assoluto, in una Verità…, ah ah, maligno che sono, la tua.
“A ognuno sarò dato secondo la propria fede” (Bulgakov).
Caro Pasquale, non credo si tratti di dover credere in una verità, quanto di postulare un principio irremovibile a protezione di chi non afferma principi, non li discute, né li relativizza, ma muore e basta. Senza l’affermazione dell’ inviolabilità dell’animale non umano, non sacra – perché ancora la definizione stessa di sacro è cosa umana – ma anche solo conseguente al riconoscimento della sua ontologica impossibilità di dominare (e quindi di reagire al dominio che gli viene imposto), e quindi del suo essere esterno all’alterarsi dei ruoli nelle dinamiche del potere, la liberazione animale è semplicemente impossibile: è solo uno spazio che momentaneamente e illusoriamente può aprirsi in seguito a cortesi concessioni umane, ed altrettanto arbitrariamente poi richiudersi. Il solo e unico che può stabilire quelle aperture e chiusure è l’umano, che lo fa in base a principi contingenti, tanto il filosofo che lo scienziato. Lo stesso uomo che nella Genesi nomina le creature di Dio e così le possiede tutte. Non stiamo facendo nulla di diverso, nemmeno noi qua.
Cara Stopthatrein (bello il nick che ti sei scelto, Leonora),
volevo solo puntualizzare l’uso che Leonardo Caffo fa dei concetti logici
come quello di verità di Tarski ed la debolezza dei presupposti logici
su cui vorrebbe fondare un’etica rigorosa, nella quale si potrà anche
“postulare un principio irremovibile a protezione di chi non afferma principi”, ecc.
Avrei dovuto scriverglielo in privato,
non qui, in mezzo a un fuoco incrociato
che riesplode alla minima scintilla.
Così ho finito con lo schierarmi pure io.
Ma questa contrapposizione non mi piace.
Il cosiddetto “antispecismo” non può essere proprietà di qualcuno,
né il nome di un partito o di un movimento.
È il capovolgimento di tutte le precedenti concezioni e immagini del mondo, che sta iniziando a travolgere il pensiero filosofico, artistico e religioso di secoli e millenni precedenti.
Qualcosa di mastodontico rispetto alla stessa rivoluzione neolitica, alla cultura antica, alla stessa buona novella… che è già presente in nuce in alcuni pensatori del passato (Lucrezio, Plutarco, San Francesco d’Assisi, Montaigne…) e che appare, ironia della sorte, al culmine dell’espansione umana sul pianeta e del suo sfruttamento di risorse, piante e animali.
Non è riduttivo usarlo come vessillo dei movimenti animalisti?
O come spartiacque per distinguere comportamenti alimentari?
Ben venga chi se ne sbarazza cambiandone il nome, biosofia, biofilia, zoosofia… nuovo pensiero.
Intanto il vero nemico è lo specismo, non le rappresentazioni che si hanno dell’antispecismo, a cominciare dalla mia.
È lo specismo ciò su cui dovrebbe concentrarsi l’intelletto,
smascherarne le ragioni filosofiche e scientifiche,
le origini storiche, le forme che assume nelle società umane,
i tipi di sfruttamento che deturpano la terra, i metodi di utilizzo degli animali
per il tornaconto dell’economia di mercato.
Si può essere antispecisti e mangiare animali?
Io mi chiedo anche: si può essere antispecisti e accettare il reale così com’è?
Ah ah, se non fosse per lo sfruttamento animale, il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili.
Pasquale, ti stimo
ich auch 🙂
Serena, leggerti è sempre un vero piacere!
Prima o poi spero ci sia anche l’occasione per conoscerci di persona.
Ancora complimenti!
Concordo su quasi tutto, Serena. La voce del più forte sta negli assunti morali delle comunità organiche, che come ho ripetuto alla nausea si generano su base mitopoietica-sacrificale. E quella capitalista non è meno comunità né meno organica del folk del III Reich (la legge dell’equivalenza universale – degli in-dividui – come fondamento che fonde gli esistenti nell’Uno del Noi). Ma spesso neanche quelle (comunità) che lo combattono, anche solo nel segmento “antispecista”.
Solo un paio di appunti: la dialettica non è l’unico metodo di passare per gli opposti ed entrare nella *concretezza* delle relazioni sociali :-). Ma questo appunto te l’aspettavi. Avremo tempo di parlarne. Non è (per me) l’ora, né forse il luogo.
L’altra è che devi fare pace con Nietzsche, e comprendere la sua genealogia della morale – ma anche della “natura delle cose” -, perché sennò ti perdi uno strumento di pensiero insostituibile.
Prova a cominciare (faccio il pastore d’anime :-D) con verità e menzogna in senso extramorale.
Sarà una sorpresa.
Comunque non è per farti i soliti appiccicosi applausi: solo una constatazione. Il tuo stile, soprattutto quando non fai la “reporter” delle nefandezze dei pro-SA :-), si sta affinando come un pennello di Picasso e affilando come la lama di un bisturi.
Vivisettrice! 🙂
“con verità e menzogna in senso extramorale.”
Già. Mi piace Anton. 😉
Perché quando si parla di verità si deve sempre pensare che si voglia imporre un moralismo, una morale? Non è così.
Se dico che strappare le ali a una farfalla è una cosa ingiusta, non sto facendo del moralismo, né bacchettare chi lo fa, solo affermando che il fatto rimane ingiusto. Cosa fa la giustezza di una cosa? Non dovrebbe essere solo la morale corrente (che poi di fatto lo sia è un altro conto, e non piace nemmeno a me), ma dire questo non significa nemmeno fare appello a un bene o male assoluti, solo riconoscere l’evidenza di un torto, di un inganno, di una violenza.
In effetti, Rita, quel testo è antispecisticamente utilissimo. Ma extramorale lì sta per una una critica della morale a partire dalla lotta per la verità. E’ un preludio alla Genealogia.
Sicuramente Nietzsche condividerebbe la nostra visione della caduta della distinzione fra uomo e altre specie, ma, credo, non le nostre battaglie etiche. Le considererebbe morale per decadenti, umanismo compassionevole allargato, che della potenza della vita non ha compreso alcunché. Ma è indispensabile ugualmente leggerlo, anche per trovare quel “dovere senza obbligo” di cui parla Derrida. E’ incontestabile che noi stiamo inventando un nuovo disciplinamento, proprio mentre lavoriamo ad uno smontaggio dell’opposizione binaria e gerarchica uomo-animale.
Si può pensare un’etica che non produca un disciplinamento di corpi e anime?
Contro questo sbatte di continuo il pensiero,
Come hanno fatto notare quelli di Liberazioni, seppure con toni un po’ polemici, la moltiplicazione dei discorsi sull’animale rischiano di somigliare a quello che in Foucault era la moltiplicazione dei discorsi sulla sessualità, che al contrario di quello che sarebbe ovvio immaginare, è stato il modo in cui essa è stata imbrigliata e direzionata dal potere.
Per questo ci serve ancora e ancora la decostruzione, per questo ci servono Foucault, Deleuze e Derrida – e non escludo Adorno, ci mancherebbe
Bisogna attraversare contraddizioni, e deserti, e desolazioni per arrivare a un incontro, per lasciar sbocciare la rosa spinosa dell’evento. O persino – azzardo questo lessico teologico secolarizzato – di un miracolo.
Bisogna svuotarci della nostra coscienza, perché in noi voli una farfalla.
Leonora, tu scrivi: “Senza l’affermazione dell’ inviolabilità dell’animale non umano, non sacra – perché ancora la definizione stessa di sacro è cosa umana – ma anche solo conseguente al riconoscimento della sua ontologica impossibilità di dominare (e quindi di reagire al dominio che gli viene imposto).”
Sancire l’inviolabilità dell’animale non umano come conseguente al riconoscimento della sua ontologica impossibilità di dominare ha come conseguenza che la vittima umana, debole a volte quanto l’animale non umano (ché anche il bambino africano che morirà di fame o sotto le bombe domani mi risulta che non affermi principi, non li discuta, né li relativizzi, non sia molto in grado di reagire al dominio che gli viene imposto ma muoia e basta) in base al tuo principio è vittima due volte, in quanto afflitta anche da un’ontologica (di specie) attitudine al dominio che la renderebbe meno meritevole di essere salvata. Mi sembra tu proponga quindi una netta distinzione tra i criteri in base ai quali imporre la liberazione del non umano e quelli che dovrebbero portare alla liberazione (semmai) dell’umano, e dei secondi mi sembri fondamentalmente disinteressarti. Sbaglio? (Giovanna)
Quello che mi lascia francamente sempre un po’ sgomenta quando ti leggo, Leonora, è questo voler ribadire sempre la demarcazione netta umano/non umano, il sostenere che anche tra l’ultima vittima umana e la penultima vittima animale vi sia un abisso ontologico. Abisso che io proprio non riesco a vedere. Credo che, se nel nostro sistema solare ci fossero due pianeti abitabili, tu sosterresti anche l’opportunità della separazione fisica tra umani e non umani. E allora, però, non capisco, perché quest’ostinazione a volersi definire antispecisti? A me sembra, il tuo, quello che qualcuno (credo forse Schillaci) ha chiamato specismo speculare, anche se non sono sicura che Schillaci volesse con quel termine definire quello di cui sto parlando io. Non ci vedo nulla di male, non ritengo “specista” un insulto (e non mi capacito del fatto che qualcuno lo ritenga tale) né mi sogno di pensare che tu ti auguri l’estinzione del genere umano o che tu sia indifferente alle umane sofferenze. Ma forse aiuterebbe a fare chiarezza (Giovanna)
ma no Giovanna, dire che il dominio è appannaggio solo della nostra specie non svilisce le vittime umane né tantomeno le deve far considerare meno degne di essere salvate, perché mai individualmente dovrebbero essere riconosciute colpevoli, se non lo sono? Saremmo al calvinismo. Al contrario, io credo che da qui si dovrebbe partire: dall’analisi di questa attitudine perenne che ci contraddistingue come specie, in tutte le culture sopravvissute fino ad oggi (e dunque fino a prova contraria), e su quella attitudine speculare ad obbedire in massa anche a imperativi crudeli da parte di un’autorità riconosciuta (pensa all’esperimento carcerario di Stanford e ai vari sull’autorità).
Si dovrebbe prendere le mosse da qui per indagare su chi siamo, con umiltà e onestà, per mettere a punto dei dispositivi che liberino noi e gli altri animali dal dominio, anziché pensare, come si fa sempre, che quelli cattivi siano sempre altri, i nazisti, gli amerricani, gli uomini che picchiamo le donne, quelli che violentano i bambini ecc. ecc.
Siamo una specie che tende al dominio e di tutto ciò patiscono in modo contingente altri umani ed in modo strutturale tutti gli altri animali.
Maurizi risolve la questione spalmando la responsabilità su tutta la natura, dicendo che l’uomo è natura che parla, attraverso l’uomo la natura esprimerebbe il conflitto interno a se stessa e contro tutte le sue parti e dunque solo attraverso di esso, l’uomo, la manifestazione più cosciente e potente della natura, essa potrebbe finalmente risolvere il contrasto perenne e scegliere la pace.
Io trovo che questa visione ci ponga implicitamente al vertice, alimenti quell’autocompiacimento che offusca uno sguardo obiettivo sulla nostra storia e, di nuovo, tenda a farci rappresentare migliori, almeno in potenza, di quello che realmente siamo (o fino ad oggi abbiamo dimostrato di essere). Oltre a non spiegare perché nel resto della natura esista la predazione ma non il dominio: chi lo dice che quest’ultimo è una manifestazione estrema del primo e non qualcos’altro, di specificamente umano?
Non concordano perciò in questo con Maurizi, e non considerando irrilevante che le vittime appartengano a tutte le specie, ma al potere ci sia sempre l’umano, dico semplicemente che questo elemento va tenuto sempre al centro per scongiurare il rischio che la liberazione degli animali si trasformi in qualcos’altro, che si traduca in una nuova dominazione, poiché loro non denunciano e non testimoniano. Le minoranze oppresse umane, una volta liberate, invece, hanno gli strumenti per difendere i propri diritti.
Eppure, nonostante questo, si continua a coniare termini come femminicidio, si sottolinea la specificità dell’oppressione femminile, e non si parla solo di sessismo, quando è ovvio che la società patriarcale opprime sia i maschi che le femmine. Dunque se la liberazione animale è specifica, la liberazione è LORO, altrimenti slegarli dalle catene non è che una forma estrema e velleitaria di liberazione umana, che si estende persino fuori dai confini della specie. Se ci pensi la differenza è molto significativa e riguarda l’effettivo riconoscimento degli animali come soggetti.
Serena, rileggendo meglio il tuo scritto ho da farti una contestazione.
Ritengo che tu utilizzi un linguaggio troppo esclusivo.
Se la contestazione ai puristi vegan è quella di essere settari, l’utilizzazione di un linguaggio elitario produce altrettanto settarismo: ci si parla solo tra di noi che ci capiamo…
@ Pasquale “si può essere antispecisti e accettare il reale così com’è?”
No, non lo accettiamo infatti il reale così com’è. Per questo non mangio animali perché il reale presuppone che li si mangi e li si sfrutti, ci vorrebbe inquadrare in binari già prestabiliti. Ma non come normativa, non è che non li si dovrebbe mangiare come prescrizione etica, bensì appunto come ribellione, come gesto che esula fuori dagli schemi, come forma di disobbedienza civile.
Per il resto concordo con te, noi stiamo proponendo una rivoluzione di pensiero talmente nuova che è ovvio che là fuori si incontrino tantissime resistenze, cribbio, stiamo mettendo in discussione gli assunti base della storia della nostra civiltà, appunto fondata sul dominio indiscusso del pianeta, viventi e non viventi compresi.
Il veganismo non è importante come prescrizione, ma come messa in discussione di quanto a noi ci appare come profondamente ingiusto. Ma spero si sia capito.
E allora rispondi, Rita, anche a quest’altra:
Se non fosse per lo sfruttamento animale,
il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili?
🙂
Appunto: è ‘na mmerda pure se non si mangiano animali, figuramose se ci mettiamo pure quello.
L’idea che il realismo sia accettare la realtà deriva da una sola cosa: non avete mai aperto un libro di filosofia. Perché se lo avete aperto, e non capite la differenza tra accettare ed accertare, allora è meglio che ritentiate con la lettura. Sarete più fortunati.
“si può essere antispecisti e accettare il reale così com’è?”
Hai ragione, Leonardo, è colpa del mio linguaggio terra terra.
Correggo:
“si può essere antispecisti e accettare il Sistema BorgoCapitalista così com’è?”
e come sembri accettarlo tu?
Quanto ai libri di filosofia ne ho chiusi sicuramente più di te. 😉
Il migliore dei mondi possibile no, Pasquale. Rimane la tragedia che si deve morire, l’inaccettabilità della morte.
Però certamente se non fosse mai esistita l’idea che ci siano esseri di cui si può abusare, sarebbe un mondo migliore, per tutti.
Leo, ma il realismo – il neorealismo – non prescive un nucleo duro del reale che sfugge perfino alle nostre concettualizzazioni? Non ci dice che l’ordine delle cose può essere mutato solo in direzione di una maggiore aderenza ai fondamenti?
Gli scherzetti di Ferraris su Vattimo e Berlusconi non stanno a dire: solo la realtà (dei fatti, giuridici, in questo caso) ci salverà?
Ma questa che diavolo di apertura al possibile sarebbe?
Perché il mondo, se esiste, dovrebbe essere immobile? Perché dovrebbe essere distinto dal soggetto che lo guarda? Non sto parlando neanche di costruttivismo, sto dicendo che non è necessario per riconoscere che il mondo esiste immaginare che il soggetto lo guardi, a volte sbattendoci contro, se il soggetto è già gettato in esso.
Ferraris gira a vuoto in questa separazione, pretende che solo una realtà fissa sia realtà, e non è per nulla convincente in questo. Tantomeno lo è quando pretende che il neorealismo non sia una corrente di pensiero, ma una fotografia di uno stato di cose, come se la fine dell’ermeneutica, dello scetticismo, del costruzionismo, fosse di più di un suo desiderio (la realtà? Di nuovo: quale realtà, la realtà di chi?). E questo, oltre che autoritario, a me pare comico.
Infine, non comprendo affatto il tuo atteggiamento sprezzante, Qui mi pare che tutti, o quasi, aprano libri ogni giorno. Magari non sono i tuoi, ma questo non implica che le critiche alle tue posizioni siano vuote,
Caro Antonio. Le critiche a me non sono vuote, io sono il primo a criticarmi. Ogni volta che finisco un libro vorrei averlo scritto diversamente, ed è anche questo caso. Quanto al realismo, sarò breve. Il mondo sociale, che è esattamente quello che dovremmo cambiare, di cui non accetto assolutamente il sistema capitalista (ho scritto due libri contro, soprattutto “azioni e natura umana” (2011), è nel mio caso concettualizzabile (e anche per Ferraris – che è, lo dico senza problemi, non il mio accademico di riferimento ma il mio FILOSOFO di riferimento) solo con un forte antirealismo (il nulla esiste fuori testo di Derrida), che prevede proprio una volontà di cambiamento, e una dipendenza mente-mondo, sui cui siamo perfettamente concordi. Un abbraccio.
“Il migliore dei mondi possibile no, Pasquale. Rimane la tragedia che si deve morire, l’inaccettabilità della morte.”
Non avrei dovuto scriverlo, ma non resisto, Rita.
Hai riassunto Ceronetti.
In un mondo che adesso è giunto al limite della sopportabilità per abissi marini, cime di monti e pianure, viscere della terra, sorgenti, mari che raccolgono la nostra monnezza, per licheni e funghi, erbe e arbusti, per siepi e foreste, per amebe e meduse, per pesci e quanto striscia sulla terra, per la tartaruga che arranca sulla riva del mare, per non parlar di carne da macello e di aragoste legate con lo skotch,
il brevissimo arco di tempo in cui vive ogni generazione umana nel massimo trionfo della scienza e della tecnologia, coi suoi sogni di pace universale, giustizia sociale, i sogni stessi della liberazione animale,
lo fanno ridere amaro, malato com’è di pessimismo e di misantropia.
Ma mai ho visto uno sguardo così triste sulla sofferenza animale.
Ti devo mandare il libro.
… eppure apprezza Adorno, non è una speranza, l’ultima ad abbandonare la terra?
riaprili. Pure il mio. Ti fa bene.
perché, invece di appellarti alla paroletta ‘reale’, non rispondi in merito all’uso che fai, poveracci, dei nobili Tarski e Gödel?
@ Leonora
Il tuo ultimo commento: ecco, non avrei saputo dirlo meglio.
Un piccolo commento, fuori tempo massimo, su di una frase scritta da Stopthatrain quando dice: “Eppure, nonostante questo, si continua a coniare termini come femminicidio, si sottolinea la specificità dell’oppressione femminile, e non si parla solo di sessismo, quando è ovvio che la società patriarcale opprime sia i maschi che le femmine.” Sarà anche ovvio che la società patriarcale ci opprime tutt*, ma non certo in egual misura – come non sfrutta e opprime allo stesso modo animali non umani maschi e femmine, i primi spesso “pura carne da macello”, le seconde sottoposte a torture sessuali ed emotive attraverso lo sfruttamento delle capacità riproduttive come l’inseminazione artificiale, l’allontanamento dai piccoli immediatamente seguente al parto, insomma stupri umani e tortura emozionale che si aggiungono al macello a fine corsa. In contesto umano il femminicidio esprime la peculiarità di omicidi compiuti sulle donne in quanto donne, messi in atto da uomini – spesso compagni, mariti, parenti – che negano l’autodeterminazione di una donna che concepiscono come “proprietà”, e che viene uccisa nel momento in cui viene meno a tale aspettativa e rivendica le proprie scelte e la propria vita. Perciò sottolineare questo non significa dire che “il femminicidio è peggio dell’ omicidio” ma che il femminicidio esiste, e si verifica con tale frequenza, perché è sostenuto da una cultura patriarcale che definisce questi assassini “raptus” e perciò li derubrica a momenti di follia, mentre sono la logica conseguenza dell’impostazione di base della nostra società.