In gabbia

di Nujud Qitta

uccello

Tutte le mattine devo varcare sette cancelli. Lavoro in un luogo di segregazione fisica e morale. Perfezionato nell’Ottocento un po’ come il mattatoio e il manicomio, il penitenziario è uno di quei luoghi simbolo che basta nominare per suscitare una reazione nel proprio interlocutore. Sì perché quando dico “lavoro in un carcere” non è come dire “lavoro in una banca, in un supermercato, in una scuola….” Scatena curiosità: com’è? cosa si prova? non hai paura? Chissà se suscita compassione, repulsione o anche solo visioni gotiche. Comunque, difficile immaginare come si vive dietro a quei muri; in questo sono un po’ avvantaggiata. In realtà non ho una tesi da dimostrare, non voglio ribadire che la prigione è il posto dove la società nasconde l’impresentabile, non voglio sottolineare le analogie che accomunano tutte le gabbie, soprattutto non voglio dimostrare come un umano in prigione sia nella stessa condizione di un animale in un allevamento intensivo. A questo proposito forse ci si aspetterebbe una manifesta solidarietà verso gli animali da parte degli umani prigionieri in luoghi come questi. Ma la realtà è molto più complessa di quello che potrebbe sembrare. Quindi mi limiterò a raccontare, a raccontare qualcosa che ho visto dietro le sbarre e che mi ha fatto riflettere.

Oltre le sbarre

Una volta entrati in carcere i detenuti non possono uscire. La sensazione immediata la prima volta che ci si lascia alle spalle l’ultimo cancello o blindo o vetrata verso la strada – lo spazio aperto – è di libertà, potersi dirigere a nord oppure a sud, poter correre o camminare o prendere un autobus. Si sente il sole sulla pelle, si alza la testa e c’è il cielo. Dentro non si può, ed è una situazione molto più pesante di quello che si possa immaginare in modo astratto. Dentro gli spazi sono definiti e i tempi anche. E le due dimensioni s’intrecciano in modo indissolubile e perverso. Fuori il mio tempo libero è, appunto libero. In carcere c’è tanto tempo, ma non è libero, è vuoto.  Si dice che in carcere c’è poco spazio e tanto tempo. Ma è una semplificazione. In carcere ci sono immensi spazi delimitati, non destinati però ai detenuti. Sembrano bolle d’aria di sicurezza, terre di nessuno popolate da telecamere, e quando va bene da corvi e gatti. In certi spazi i detenuti possono stare solo in certi orari. Gli orari definiscono gli spazi e la vita di chi passa in galera mesi e anni. Gli orari sono imposti e spesso per niente razionali: così le notti diventano interminabili e i momenti di colloquio con i familiari brevi come un soffio.

Di pari passo con la privazione della libertà vanno la limitazione dell’affettività e la negazione della possibilità di scelta. I detenuti hanno i colloqui poche volte al mese; attualmente in Italia non sono possibili incontri privati e intimi con i relativi partner. Il tempo di stare insieme è una goccia nel mare di interminabili giornate vuote.

Le persone in prigione sono costantemente controllate in forma più o meno evidente. Non possono scegliere cosa tenere in cella: perquisizioni nel cuore della notte scoraggiano l’idea di crearsi una specie di camera da letto, uno spazio in qualche modo personale. I detenuti non possono fare scelte relative alla propria salute – tutti i problemi si risolvono con l’assunzione di pillole misteriose – chi dice che sia sempre lo stesso tipo di medicina, chi dice che sia uno psicofarmaco, e nemmeno tanto leggero.

Vedere il mare

La natura non ha costruito limiti invalicabili – mari montagne e deserti non fermano la vita e l’espansione dei viventi.

Il carcere è un limite invalicabile, formato, chiuso e quasi protetto da alti muri. L’orizzonte è limitato per forza di cose. Non ci avevo pensato. Anni fa lavoravo in una redazione e il mio computer era in un angolo tra due pareti, è vero che guardavo per ore un muro, ma avevo quasi sempre da fare, e lo facevo con gioia; quello era il mio mondo con le mie cose professionali e personali che nessuno metteva a soquadro alle quattro del mattino; poi da lì io uscivo ogni sera e il week end vedevo altro. In prigione si vedono solo superfici lisce, dove lo sguardo si ferma e scivola senza trovare una via di fuga. Me lo ha fatto notare un detenuto. “Sai qual è la prima cosa che faccio appena esco libero? Vado a vedere il mare”. Molti penseranno alla mucca incatenata davanti a un muro per cinque o sei lunghi anni. Però avevo promesso di non tracciare linee di collegamento.

Una famiglia di falchi

“Eccoli! Vieni a vederli, sono padre madre e due piccoli che imparano a volare. Sono bellissimi”. Per mesi un detenuto ha vegliato amorevolmente su una famiglia di falchi che ha nidificato sotto il tetto di una garritta in disuso – la ronda è stata sostituita da telecamere e allarmi elettronici. Attraverso le sbarre e la rete gli occhi avidi di novità di un umano recluso hanno individuato una vita animale, libera e felice. E quegli occhi brillano di soddisfazione seguendo i primi voli verso il cielo aperto. Un riscatto? Una speranza? Degli amici che non possono essere vietati per legge? Una presenza che non conosce catene?

Ma anche i gatti vanno e vengono liberi, in carcere. Con i loro corpi discreti e flessibili, spesso attraversano le sbarre e s’infilano fin nelle celle di chi li può tenere caldi, dare cibo e affetto. Alcuni detenuti sono matti per i gatti. Quasi tutti hanno con i piccoli felini un ottimo rapporto e grande rispetto. Per inciso, la violenza sugli animali è considerata dai criminali comuni ignobile e vigliacca come quella sulle donne e i bambini.

La tristezza del canarino

I detenuti sono particolarmente sensibili alle sofferenze degli animali in gabbia? No, i detenuti sono come le altre persone. Non sono una categoria. Di fronte alla questione animale ognuno ha la sua posizione, oppure non si pone nemmeno il problema. Una volta, ingenuamente, ho fatto presente proprio in carcere la necessità di non imporre prigionia e dolore. Mi è stato risposto, più o meno all’unisono, che come detenuti hanno già troppi guai e frustrazioni per occuparsi anche di questo, e fare magari delle rinunce. Poi però presi singolarmente ci riflettono e arrivano quasi sempre a esprimere giudizi più articolati.

“Non ci piacciono le gabbie. Nessuno deve stare in gabbia. Tempo fa un impiegato qui dentro teneva dei canarini dietro le sbarre. Vergogna! Che tristezza! Glielo abbiamo detto”. Così parla un boss della malavita romana. E l’indignazione serpeggia tra i duri che possono aver visto il vicino di cella massacrato di botte o il compagno impiccato nella doccia.

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