Banksy: quello specista!

di Serena Contardi

Il plauso che la recente, felice trovata di Banksy ha ottenuto presso diverse realtà animaliste e antispeciste ha come suo contraltare la severa disapprovazione di una parte della comunità vegan, che alle numerose lodi nei confronti di quest’iniziativa “contro la macellazione” ha replicato con una repentina presa di distanza dall’artista (e indirettamente da chi considera la sua “arte”), ricordando a tutti quanti che in passato il nostro non si astenne dal pitturare animali vivi, esibendo con ciò tutto il suo specismo.

Chi ha ragione? Nessuno, credo. Vediamo perché.

Innazitutto, salta subito all’occhio come entrambi i contendenti siano interamente concentrati sull’artista-uomo Banksy anziché sulla sua opera, generando così il tragicomico cortocircuito per cui ora, prima di alzarci in piedi ad applaudire, abbiamo urgenza di sapere chi ha architettato quella performance che pure istintivamente suscita tutta la nostra approvazione.
L’impostazione moral-proselitistica è talmente radicata e diffusa (talvolta a livello inconsapevole) nel mondo animalista, da inglobare anche l’esterno con modalità di tipo proiettivo. Tutto viene letto attraverso la lente attraverso cui noi guardiamo alla realtà, anche se evidentemente il nostro non è l’unico sguardo possibile. Banksy sta davvero protestando contro la macellazione? Per quanto mi piaccia pensarlo, io dubito che possiamo spingerci così oltre. Quello che gli interessa fare come artista, è prima di tutto portare alle loro estreme conseguenze le contraddizioni della società in cui viviamo, fino a materializzarle davanti ai nostri occhi: che non possono più rifiutarsi di vederle. Per inciso, è qualcosa che gli riesce benissimo, soprattutto per quanto riguarda quello che Carol Adams chiama “referente assente”, la dissociazione animale-carne e la scomparsa dell’animale come essere senziente.
Non è neppure la prima volta che Banksy mette in scena operazioni di questo tipo. È del 2008 il progetto The Village Pet Store and Charcoal Grill, un finto negozietto nel West Village di New York City in cui i corpi animali che non sappiamo-possiamo più riconoscere come tali riprendono letteralmente vita, in uno scenario tanto grottesco quanto commovente: hot dog che si trascinano come cavie in piccole teche, abbeverandosi o copulando; Chicken McNuggets di McDonald’s che piluccano salsa barbecue sotto la supervisione di mamma chioccia; bastoncini di pesce impanati che nuotano a coppie in un’ampolla d’acqua…





Certo di fronte a una quinta così acuta ed eloquente, la tentazione di farne “uno di noi” è forte, e non c’è da stupirsi che la PeTA ci abbia già pensato, dando risalto alle sue installazioni pro-animali (sono davvero tante e belle, consiglio una veloce ricerca su web), e tacendo tutte le altre. Ma se nel caso di PeTA, per cui l’ideale vegano e animalista rappresenta semplicemente un brand tra gli altri, da vendere come e più degli altri, l’interesse sullo stile di vita di Banksy risponde al bisogno continuo di produrre idoli-feticcio da gettare in pasto al grande pubblico, per quanto riguarda le piccole realtà animaliste l’ossessione per la sua storia personale si spiega con quello che non sa riconoscersi come un piccolo integralismo. Dopo aver deciso – per Banksy – che la sua è una critica radicale del mattatoio, ci si scandalizza nell’apprendere che ritenne i corpi animali tutto fuorché intoccabili: tanto da colorarli (con quale spirito, a quanto pare, non è essenziale sapere). E voi, avete applaudito? Forse recitando insieme un actus contritionis potremo correre ai ripari, ed essere riammessi nel consorzio degli antispecisti-antispecisti: quelli che non ridono, non si entusiasmano, non si scompongono: non prima di averti chiesto di favorire il curriculum.

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