Ecologia e potere: l’ambientalismo antiautoritario di Murray Bookchin in un saggio di Ermanno Castanò
Ermanno Castanò, Ecologia e potere – Un saggio su Murray Bookchin, Mimesis, Milano 2011
Recensione di Leonora Pigliucci
Far luce sulla “cassetta degli attrezzi” concettuali che, consapevolmente e inconsapevolmente, sono alla base delle scelte etiche individuali e delle azioni politiche che prospettano una liberazione radicale della natura è l’intento di Castanò in Ecologia e potere. La scelta è muovere a partire dai testi del più rilevante teorico dell’ecologia sociale, Murray Bookchin, pensatore anarchico che (pur essendo semisconosciuto in Italia) è con Noam Chomsky uno degli esponenti maggiormente di spicco della controcultura americana degli anni ‘60.
Bookchin raccoglie l’eredità della corrente filosofica di critica della modernità della scuola di Francoforte e di Hannah Arendt, che lo portano a liquidare socialismo e capitalismo come forme dello stesso paradigma di dominio sul vivente, e contemporaneamente attribuisce un primato alla molteplicità e alla potenzialità creatrice che vede nella natura rispetto alla possibilità della filosofia di creare categorie, il che lo avvicina anche al pensiero della differenza di Derrida e Nietzsche.
Notevole per profondità filosofica e contrassegnato da una costante attenzione per la pratica politica, il pensiero di Bookchin si caratterizza per radicalità e originalità. Muove critiche alle correnti maggiormente in voga negli anni ‘80 nell’ambito dell’ecologismo radicale: sia all’approccio dell’ecologia profonda, agito da movimenti come Earth First!, che alla strenua difesa della vita selvaggia contrappongono atteggiamenti ostili verso la difesa dei diritti umani; che al biocentrismo, che nel tentativo di conferire valore all’altro in quanto tale, a tutti i soggetti-di-vita, non ammette specificità, ma spinge invece verso una zoologizzazione indifferenziata degli esseri umani che non rende giustizia alla complessità che invece li caratterizza. Nella critica di Bookchin, il biocentrismo, contrariamente alle sue intenzioni, mantiene anche i tratti dell’antropocentrismo del pensiero occidentale che vuol combattere: solo apparentemente fuori dalle maglie dell’impostura razionale, che ha fondato il predominio del concettuale sul reale, il biocentrismo non fa a meno di stabilire un centro da cui origina il valore. Seppur esso sia l’indefinitezza del bios, la sua affermazione mantiene in piedi l’impianto gerarchico logocentrico che ha il suo punto focale nel pensiero umano, del quale implicitamente si riafferma una centralità che resta sospesa, poiché non la si indaga. L’ecologia sociale parte al contrario da questa peculiarità, da rimodulare in termini non gerarchici. Mentre l’ecologia profonda tenta allora di restringere la problematica del rapporto uomo/natura nella categoria della sovrappopolazione, muovendo sul pericoloso crinale del riduzionismo biologico, Bookchin pone perciò l’accento sulla “seconda natura” culturale che l’essere umano produce, sulla “naturalità” di un atteggiamento culturale che si caratterizza per un’infinita capacità di modificare l’ambiente quanto con l’assenza di un habitat proprio dell’uomo.
Il suo approccio è olistico, il “tutto” è una struttura articolati dagli scambi tra il sociale e il naturale, «l’ecologia sociale fornisce ben più di una semplice critica della frattura tra uomo e natura, essa pone l’esigenza di trascendere radicalmente l’una e l’altra categoria» (pag.51).
Dove si gioca una partita cruciale è allora nel rapporto con l’animale, che per Bookchin ha a che fare con la problematica centrale di tutta la filosofia occidentale: essa è la questione dell’Altro in quanto tale, il banco di prova di rapporti da giocarsi in senso non gerarchico, la possibilità stessa dell’etica, della politica e dell’ontologia che per Bookchin deve trovare nuova fondazione.
Nel raccogliere l’eredità nietzschiana affermando l’animalità di un uomo dotato di specificità cruciale (e Bookchin ritiene che la “rivoluzione copernica” di questa nuova consapevolezza non abbia ancora espresso a pieno i suoi frutti), uno dei nodi cruciali dell’analisi dell’ecologia sociale è la questione della tecnica, che l’autore, portatore in questo di un’eredità heideggeriana, considera dimensione essenziale e propria dell’uomo: l’agire tecnologico è infatti, secondo Bookchin, talmente implicato nel processo antropogenetico da potersi affermare che è “naturale” per l’uomo essere un animale tecnologico. Un concetto espresso anche da Merleau Ponty, cui Castanò spesso accosta la filosofia di Bookchin: non si può parlare di natura senza parlare di cibernetica, il cyborg esiste da quando esiste l’umano, da quando un animale antropomorfo ha guardato a una pietra come a uno strumento, ovvero a un’espansione della propria dimensione fisica. In questo senso l’idea di una natura umana oppressa dalla tecnologia è superficiale, e non descrive la realtà, né hanno senso le pretese di ritorno ad un’ipotetica naturalità precedente la civiltà espresse ad esempio da primitivisti come John Zerzan, cui Bookchin muove dure critiche.
La prospettiva di Bookchin si concentra sugli effetti di potere che sono determinati dalla tecnologia: quelli attuali sono effetti di controllo e di concentramento che possono essere rovesciati in effetti di differenziazione e dispersione. Quando la tecnica agisce in quest’ultimo modo, essa è disassoggettante, poiché va in direzione contraria alla funzione precipua del potere che, nel razionalizzare e oggettivare il vivente, lo imbriglia in un’unificazione semplificatrice. L’uso proprio della tecnica agisce nella direzione di una molteplicità non riducibile.
Qui si gioca un’altra partita che smuove i fondamenti stessi del pensiero occidentale: laddove la tecnica esprime al massimo la sua potenzialità filosofica è nel delegittimare la lettura dicotomica della realtà divisa tra corpo e spirito, natura inerme e cultura umana, che fin dalle origini ha costituito la cifra fondamentale del pensiero dell’occidente e ha fondato la legittimità dell’assoggettamento della natura da parte del soggetto conoscente che, dotato di ragione e di volontà propria, rende oggetto della conoscenza il reale e così facendo ne fa il campo del proprio dominio. Al suo posto si afferma una triangolazione: la sfida che la questione della tecnica oppone al binomio ragione/natura disattiva la matrice che nel pensiero occidentale accomuna dogma religioso e pensiero scientifico, fuori da ogni solo apparente opposizione. La stessa contrapposizione binaria è fondante infatti tanto del monoteismo ebraico cristiano – dove un Dio, Natura naturans, principio creatore, trascende la natura naturata, che è nuda vita gettata nel mondo e al di fuori dell’Essere – che del paradigma della scienza moderna, che a partire da Galilei descrive la natura come materia inerte, caduca e insensata, priva di valore in sé ma retta da leggi esterne che vi si contrappongono, quelli sì, eterne ed immutabili. E lo stesso schema arriva al suo massimo compimento nel positivismo, dove gli elementi naturali sono letti attraverso una lente che li riduce a “fatti”, “dati”,”elementi numerabili” nella linearità di un progresso univoco che si afferma come inarrestabile.
La scrittura di Bookchin, che trae origine dalle pratiche di lotta di cui egli fu protagonista in prima persona va al concreto: «è necessario operare una decentralizzazione dell’agricoltura su vasta scala […] allo sfruttamento dei grandi appezzamenti si dovrà sostituire il giardinaggio, l’ortocultura […] i campi dovrebbero essere coltivati come fossero giardini; occorre diversificare la flora, averne cura scrupolosa, ripristinare il suo equilibrio con la fauna e badare che la coltre protettiva di alberi e piante sia adatta alle esigenze di ogni singolo territorio […]. Pensare ecologicamente significa includere nei processi tecnici non solo il lavoro umano ma anche il “lavoro” della natura. L’uso di sistemi organici al posto delle macchine […] è una cosa buona in sé. Ma, a parte la loro vantaggiosità economica, questi sistemi servono anche a sensibilizzare la mente e lo spirito ai poteri generativi della natura.» (pag.48 e pag.392).
Si gioca in questo modo una disputa sulla libertà. La struttura metafisica della tecnica moderna che presenta a se stessa i suoi oggetti come strumenti “a portata di mano” e la natura come un fondo utilizzabile a piacimento (fuori dalla normatività di qualsiasi etica) trasforma anche l’uomo in una vittima di un potere incontrollato: prova ne è il biocidio generalizzato, che minaccia l’esistenza stessa della vita sulla terra.
E posta l’attenzione sul rapporto indistricabile tra potere e vita, che emerge dalla semplice osservazione della realtà attuale, il pensiero corre alla filosofia di Foucault: il potere della ragione sul corpo, che “conosce” razionalmente e attraverso la conoscenza della medicina, della biologia, delle scienze positive alimenta e mantiene la vita, ha l’autorità di decidere quando e come farla cessare. In quest’ottica, di cui anche Bookchin è debitore, si pone la questione della libertà del soggetto che, in quanto razionale, si afferma per separazione tra un aspetto sensibile, oggetto del potere, e uno sovrasensibile, detentore del potere, che creano una tensione infinita e irrisolvibile, facendo sì che l’ “umanità” dell’uomo sia un’astrazione, un progetto da realizzare che mai è presente nell’uomo concreto. In questi termini la libertà è impossibile e l’etica non ha dimensione che le sia propria.
L’obiettivo di Bookchin è allora quello di fondare una filosofia della natura che si presenti come una vera e propria ontologia etica, connessa al movimento differenziale che l’autore attribuisce alla natura che, in direzione contraria all’idealismo platonico da cui originano tutte le forme di dualismo, rimanda al piano dell’immanenza della concezione della natura espressa dalla Fisica di Aristotele. In contrapposizione ad essa, che attribuisce direzionalità e finalismo agli elementi naturali in quanto tali, si è sviluppata tutta la scienza moderna: il meccanicismo ha presentato gli oggetti come privi di scopo (e di valore) intrinseco e con il teleologismo ha esiliato dal mondo anche il senso.
Ma è proprio dalla scienza che arriva il segnale per un cambio di rotta: le frontiere della biologia e della fisica quantistica svelano a poco a poco un principio generatore immanente alla natura, evidenza inaggirabile, che per Bookchin costituisce la sostanza di una nuova ontologia: «a mio avviso, la ragione esiste in natura come facoltà d’auto-organizzarsi della sostanza; è la latente soggettività dei livelli organici e inorganici della realtà che rivela una tendenza immanente verso la consapevolezza. Nell’umanità, questa soggettività si rivela come auto-coscienza. Io non pretendo che il mio approccio sia unico nel suo genere; la stessa comunità scientifica ha prodotto una vasta letteratura in merito, che sostiene nella natura l’esistenza di un logòs intrinseco […] l’evoluzione dovrebbe essere considerata come un fenomeno partecipativo, non come darwinistica “selezione naturale” di una singola specie sulla base della sua “idoneità” alla sopravvivenza […] la natura non è semplicemente un “regno della necessità”, come direbbe Marx, ma un regno di libertà nascente e potenzialità che potrebbe trovare la sua espressione in una società ecologica creata da esseri umani pienamente realizzati» (p.15).
La natura in questi termini appare come il campo di una continua produzione di differenza, dove la materia è tutt’altro che pura estensione, in senso cartesiano. Fuori da ogni rapporto gerarchico, invece, il passaggio dalle forme di vita più semplici alle più complesse nasce da un’attività creatrice espressione di un logòs immanente che opera alla differenziazione secondo un modello che ricorda quello dei frattali.
E’ in quest’ottica che la tecnologia mostra una potenzialità cruciale: in quanto agire che Bookchin sottolinea essere naturale per l’essere umano, se essa è stata fino ad oggi utilizzata per fini di dominio, un suo utilizzo autentico a fini libertari ed ecologici rappresenta una via di fuga fuori dal movimento autonomo dell’economia, dall’uso inautentico che ha prodotto (e non è ne è il frutto, come credono i primitivisti) il predominio della ragione strumentale e l’assoggettamento della natura esterna e dell’animalità dell’uomo. L’uso autentico, generatore di molteplicità che potrebbe al contrario creare la possibilità di incontri orizzontali e non gerarchici con l’animalità fuori dall’uomo ha a che fare con l’ontologia che, esiliata con la metafisica tradizionale e la morte di Dio nietzschiana, si agita sotto la politica e le scienze contemporanee.
In Ecologia e potere i concetti espressi qui a grandi linee sono discussi in un’appassionante disamina che approfondisce il quadro di riferimento nel quale il pensiero di Bookchin è sorto, in relazione alla filosofia dei pensatori che lo hanno influenzato e alla storia dei movimenti ecologisti. L’autore osserva l’emergenza di una visione inedita della natura che fa i conti con le frontiere avanzate delle scienze contemporanee, cui anche nel libro è concesso un certo spazio. Confrontarsi con tali prospettive apre interrogativi che danno spaesamento, tanto alla filosofia che alla scienza. Difficilmente potranno prescinderne i movimenti e le consapevolezze politiche che di qui innanzi sorgeranno, mossi uno spirito di fratellanza per l’altro animale che non ha precedenti nella storia e condizionati dallo schiudersi di una ancor più nuova, e ancora timida, apertura a un dialogo, dai toni avveniristici, con quella natura misteriosa che appare sempre meno come il fondo e lo sfondo, muto, dell’agire razionale umano, e invece come soggettività vibrante cui brutalmente è stato fino ad oggi imposto il silenzio.
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One Response to “Ecologia e potere: l’ambientalismo antiautoritario di Murray Bookchin in un saggio di Ermanno Castanò”Trackbacks
Check out what others are saying...[…] so, taglio con l’accetta. E già so che Ermanno Castanò e Munus Umanus solleveranno delle obiezioni. Ma a me sembra evidente che qui ci sia un’aporia. […]