La disputa sugli argomenti indiretti: un falso problema

di Marco Maurizi

Ho sempre considerato il dibattito tra i sostenitori dei cosiddetti argomenti “diretti” ed “indiretti” in ambito antispecista poco interessante. Esso mi sembra del tutto interno alla prospettiva astrattamente morale che caratterizza il pensiero antispecista di “prima generazione”, quello cioè che considera lo specismo un’idea morale che si tratta di demolire attraverso l’argomentazione filosofica piuttosto che una forma reale di sfruttamento che ha la propria base in determinate strutture storiche di dominio del vivente umano e non umano.[1] Ciononostante, e proprio al fine di contribuire ad un superamento di questa impostazione, ritengo sia utile affrontare la questione provando ad osservare il problema da un punto di vista diverso.

Il dibattito

Il dibattito tra la Perlo[2] e Stzybel[3] ospitato sulle pagine di Liberazioni, così come il tentativo di bilancio di Aldo Sottofattori[4] apparso sull’ultimo numero della rivista, mi pare circoscrivano abbastanza bene le posizioni in campo e le difficoltà che si frappongono ad una possibile soluzione del dibattito in un senso o nell’altro.

Da una parte (Perlo), si sostiene che l’uso degli argomenti indiretti (AI) sia moralmente contraddittorio e controproducente all’affermarsi dell’antispecismo; dall’altra (Stzybel), pur ammettendo che l’antispecismo deve preferibilmente usare argomenti diretti (AD), si afferma che gli AI possano in alcuni casi e a determinate condizioni entrare coerentemente a far parte di una strategia a più ampio raggio di affermazione della causa antispecista.

Il contributo di Sottofattori cerca di mostrare il limite di questo dibattito analizzando la natura dei soggetti che esso presuppone: a differenza di quanto sembrano credere sia la Perlo che Stzybel, osserva Sottofattori, il problema è risolvibile concretamente se si delineano in modo più preciso l’emittente e il destinatario del “messaggio antispecista”, laddove invece solitamente questi due soggetti rimangono indistinti (un generico “movimento”, da un lato, e un’altrettanto generica “opinione pubblica”, dall’altro). L’intervento di Sottofattori si segnala quindi soprattutto per il tentativo di proporre uno schema interpretativo più articolato del contesto in cui viene emesso e recepito il messaggio antispecista. Nella prospettiva di Sottofattori, se non erro, l’esigenza posta di ridurre tale messaggio ai soli AD si giustifica in funzione di una certa coerenza “strategica” che deve caratterizzare il movimento antispecista quando si fa carico di rappresentare le proprie istanze presso/contro le istituzioni.

Affronterò prima quelle che mi sembrano le insufficienze del dibattito Perlo/Stzybel e farò poi alcune osservazioni sulla posizione di Sottofattori. In sintesi, la posizione di Sottofattori mi sembra nel complesso condivisibile ma ritengo che accetti ancora troppi presupposti del dibattito da cui prende le mosse con esiti contraddittori o poco chiari. Nella parte finale di questo articolo, infine, proverò a mostrare in che modo penso che la disputa tra AD e AI vada “superata”.

 

Gli AD e l’etica “dell’intenzione”

Ritengo che il dibattito sull’etica antispecista potrebbe trarre qualche motivo di chiarimento interno se facesse riferimento alla importante distinzione tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità proposta da Max Weber.[5]

L’etica dell’intenzione è quella che ci ingiunge di fare solo ciò che è giusto e coerente con il principio che la definisce. Se si agisce in accordo all’etica dell’intenzione, quindi, il contesto in cui l’azione interviene e le sue possibili conseguenze sono secondarie: gli effetti dell’azione non possono intaccare il principio dell’azione stessa che è assoluto, cioè non ammette deroghe. Se ritengo che è ingiusto uccidere un feto, un uomo o un altro animale difenderò questo principio a prescindere dalle conseguenze che il rifiuto comporta (e ciò a prescindere anche dagli effetti che il mio rifiuto intransigente può comportare in situazioni problematiche).

L’etica della responsabilità, al contrario, insegna ad agire partendo dal contesto in cui ci si muove e, dunque, “relativizza”, “smussa” i principi etici considerando che il senso di un’azione non sta solo nei valori che la sorreggono ma anche negli effetti che essa produce.

Nel primo caso, dunque, l’agente non si ritiene moralmente responsabile delle conseguenze indesiderate delle sue azioni poiché non può agire altrimenti. Nel secondo caso, al contrario, egli deve sempre “calcolare” gli effetti delle sue azioni e queste ultime saranno giuste solo se produrranno certi effetti (indiretti) piuttosto che altri.

È abbastanza evidente che l’antispecismo, almeno laddove viene teorizzato e praticato in modo radicale, tende a qualificarsi come etica dell’intenzione e la disputa tra AD e AI mi sembra possa essere, almeno in parte, ricondotta a quella tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. Ad ogni modo, questa distinzione può essere utile a chiarire un punto su cui finora non mi pare ci si sia sufficientemente focalizzati.

 

Gli AI: poco “etici” o inefficaci?

Come ho già detto all’inizio, quando si sostiene che l’uso di AI è “sbagliato” in ambito antispecista, tale posizione racchiude in sé due aspetti distinti: da un lato si intende dire che tale uso è moralmente sbagliato, dall’altro che è controproducente. Nel primo caso, infatti, si sostiene che l’uso di AI è specista, dunque ingiusto nei confronti degli animali che si vorrebbe difendere. Nel secondo, si sostiene che esso rallenta o impedisce l’affermazione dell’antispecismo nella società. Gli AI, quindi, sarebbero ingiusti e inefficaci.

Ora, mentre il primo aspetto è pacifico e tutti i sostenitori antispecisti degli AI lo riconoscono, il secondo necessita di qualche chiarimento. Esso mi sembra anzi quello più interessante perché mostra che anche chi difende gli AD scivola, almeno qui, in considerazioni che sono proprie dell’etica della responsabilità. Anche coloro che difendono la purezza dell’etica antispecista da ogni considerazione di tipo tattico o strategico che possa annacquare tale ideale, infatti, si preoccupano qui dell’efficacia del loro messaggio. È evidentemente su questo terreno che avviene lo scontro reale tra le due posizioni ed è a partire da qui che tale scontro può essere quindi deciso in senso favorevole ad una parte o all’altra.

Ma che cosa sostengono i teorici degli AD? Che gli AI sono ingiusti e inefficaci o che essi sono inefficaci perché ingiusti? Non è molto chiaro. Tutto dipende da come si misura l’inefficacia. Se ciò non viene chiarito, come osserva Sottofattori, il “danno” prodotto dagli AI all’antispecismo rischia di rimanere “immaginario”.[6]

1. La posizione di Stzybel: antispecismo è salvare ogni singolo animale

Il pregio del saggio di Stzybel, a mio modo di vedere, sta proprio nel fatto che intravede – anche se con i limiti “politici” sottolineati da Sottofattori – questo aspetto del problema. L’argomentazione di Stzybel, infatti, è tutta volta a mostrare che un atteggiamento ingiusto – cioè specista – come l’uso di AI, possa risultare efficace per la causa antispecista. La sua argomentazione poggia su una formulazione del principio morale antispecista che coincide anche con un criterio assoluto di misurazione della sua efficacia. Stzybel infatti sostiene che il principio morale dell’antispecismo è salvare la vita di ogni singolo animale: dunque tutto ciò che può salvare la vita “anche di un solo animale” assume per l’antispecista coerente la forma dell’obbligo morale. Dunque gli AI se possono salvare la vita anche di un solo animale devono essere utilizzati.[7]

Ritengo che questa osservazione confuti alla radice la posizione “intransigente” della Perlo, mostrandone tutta l’astrattezza, posto che quest’ultima – come credo[8] – condivida l’assunto di partenza di Stzybel. Essa dissolve, tra l’altro, anche i dubbi insistenti sulla ingiustizia e incoerenza di chi si serve degli AI. L’argomentazione di Stzybel appare infatti particolarmente convincente quando suggerisce l’esperimento mentale di un’invasione di extraterrestri che si cibano di carne umana.[9] Chi potrebbe negare che, di fronte ad una carneficina di questo tipo, sarebbe disposto a soprassedere a questioni di coerenza etica pur di salvare vite umane (cioè non disdegnerebbe di usare argomenti “salutistici” o “ecologici” del tutto inconciliabili con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo)? L’esempio di Stzybel rivolge così contro i sostenitori degli AD anche l’accusa di usare un “doppio standard” morale.

2. Ipotesi alternativa: antispecismo è abbattere la società specista

Per confutare la posizione di Stzybel è dunque necessario partire da una premessa diversa. È chiaro infatti che se si assume un principio fondamentale dell’antispecismo diverso dal suo cambierà anche il criterio di misura della sua efficacia. Consideriamo ad es. l’ipotesi che l’obbligo morale dell’antispecismo non consista nel salvare la vita di ogni singolo animale, bensì consista primariamente nel distruggere le forme di oppressione della società specista. È del tutto evidente che in tal caso l’azione sarà giusta se produce effetti distruttivi nei confronti della società specista, anche quando non salva vite animali nell’immediato. A questo punto si potrebbe sostenere che l’uso di AI oltre ad essere ingiusto è anche inefficace. Ma bisognerebbe anche dimostrare perché e in che senso.

E le cose a questo punto si complicano. È evidente infatti che non ci muoviamo più nella sfera del principio etico, ma stiamo parlando di come tale principio possa trasformare la società specista, cioè modificare il corso degli eventi. Esiste una connessione necessaria tra la coerenza morale del principio etico e la trasformazione della realtà? Solo se tale connessione esiste si ha motivo di affermare che l’uso degli AI – intaccando la “purezza” del principio etico – è controproducente.

Ora, è certo che l’uso degli AI è in contraddizione con l’idea dell’antispecismo, ma questo non è sufficiente a dire che gli AI rendono impossibile o anche solo rallentano la trasformazione in senso antispecista della società. L’efficacia o l’inefficacia andrebbe infatti misurata nel rapporto tra quest’idea e la realtà, tra il principio etico e il corso degli eventi e non nel rapporto tra l’idea e se stessa, tra il principio etico e se stesso. A meno di non voler sostenere che la coerenza dell’aspirazione etica da sola basta a modificare il corso degli eventi.

Sì dirà: certo, da sola la coerenza dell’idea non basta, ma è la condizione necessaria, benché insufficiente, perché il corso degli eventi si modifichi nel senso voluto, dunque l’uso degli AI va evitato perché inefficace. Anche in questo caso però c’è troppa fretta di giungere alle conclusioni.

2.1. Lo schema sociologico e psicologico soggiacente alla tesi degli AD

Molti antispecisti (e tra questi la maggioranza di coloro che sostengono a spada tratta gli AD) concepiscono la strategia del movimento secondo questo schema: l’idea si afferma nella realtà perché, convincendo moralmente le persone, ne cambia i comportamenti e molti cambiamenti individuali fanno un cambiamento complessivo della società. Il fine di questa strategia è il raggiungimento di una “massa critica” in grado di produrre la trasformazione desiderata della società. Non intendo ora soffermarmi sul concetto – problematico – di “massa critica” [10], cioè sullo scopo di questa visione, bensì sulle sue premesse.

Lo schema sociologico di fondo di questa concezione ha due caratteristiche: è (a) atomistico (l’intero è composto di entità singole indipendenti) ed è (b) unidirezionale (il processo di trasformazione segue la direttrice idea → azione).[11]

Solo gli AD rendono coerente il messaggio antispecista ed entrano in conflitto con le convinzioni speciste del ricevente. Gli AI, in questo schema, non possono produrre il conflitto sufficiente a produrre la sua auspicata “conversione”.[12]

Il presupposto di chi sostiene che gli AI rendono impossibile o rallentino l’affermarsi dell’ideale antispecista è che una convinzione morale antispecista su un certo argomento non può convivere senza conflitti con una convinzione specista sullo stesso argomento. Poiché esse si contraddicono, non possono concorrere entrambe a determinare le azioni di uno specifico soggetto. L’azione di quest’ultimo o è conseguenza di un principio antispecista o è conseguenza di un principio specista: tertium non datur.

Ma il carattere “logico” e apparentemente inoppugnabile di questa dimostrazione dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla sua legittimità nell’ambito di una battaglia etico-politica visto che quest’ultima concerne l’agire sociale e non meri atti logici.[13]

La dimostrazione del fatto che AI e AD non possano coesistere nella stessa coscienza morale presuppone uno schema psicologico (o schema dell’azione) che è del tutto analogo allo schema sociologico visto sopra (cioè alla convinzione secondo cui l’antispecismo si affermerà attraverso una presa di coscienza individuale e che quest’ultima produrrà un corso degli eventi nuovo procedendo dall’idea alla sua messa in atto). Anche qui tutto si svolge in senso atomistico e unidirezionale. Al pari degli individui nello schema sociologico, le idee nella mente umana a livello psicologico vengono considerate singolarità isolate. E come l’idea deve “realizzarsi” a livello sociale, così essa deve realizzarsi a livello individuale: lo schema idea → azione è lo stesso anche se ora viene declinato in senso psicologico.

 Schema psicologico

 

2.2. Confutazione di questa ipotesi

Questi due schemi non hanno tuttavia la plausibilità che mostrano a prima vista. Essi presuppongono tutti e due gli stessi errori di fondo: (1) l’intero è composto di atomi, (2) l’idea precede l’azione. Si tratta di assunti del tutto inadeguati alla descrizione della realtà sociale e che, infatti, sono stati largamente superati da teorie che pongono l’attenzione sulle caratteristiche olistiche[14] dell’intero (e, al suo interno, dei sotto-raggruppamenti degli elementi che lo costituiscono), così come sulla reciprocità tra il momento ideativo e quello pratico nella determinazione dell’accadere sociale e psichico.

Come ha ben mostrato lo stesso Sottofattori in un saggio apparso sul n. 2 di Liberazioni[15], la realtà del mondo non è costituita di individui che agiscono in conformità a sole convinzioni – questa visione “atomistica” e “idealistica” della società è un riflesso condizionato prodotto dalla cultura liberale/liberista dominante – poiché essa è in realtà strutturata in forme sociali più o meno rigide e occulte che trascendono l’azione e, alle volte, persino la coscienza individuale. In secondo luogo, e questo è forse ancora più importante, ciò che faccio, il modo in cui abitualmente agisco, è premessa e non solo conseguenza del modo in cui penso. In parecchi casi, anzi, è l’habitus che fa il pensiero.

È ora evidente che se si ammette che le strutture sociali hanno, in buona parte[16], un’oggettiva prevalenza sulle idee morali degli individui, lo scopo dell’azione antispecista potrà essere raggiunto agendo direttamente su queste strutture e non sulla coscienza morale dei singoli. Si tratta perciò di procedere nel senso opposto a quanto sostenuto dalla Perlo: colpire la struttura di dominio per modificare il ragionamento fallace che ne deriva.[17] Ma a questo punto il rapporto tra la coerenza del principio morale e la trasformazione sociale  perde quell’aspetto di implicazione diretta che è la condizione per cui si sostiene che l’uso degli AI è controproducente per la causa. Potrebbe infatti ben darsi il caso che il loro uso – benché moralmente incoerente – abbia un effetto che va invece in direzione di una trasformazione antispecista della società o, almeno, ne ponga le premesse materiali oppure, infine, che non la ostacoli. Tre ipotesi plausibilissime, di cui l’ultima – la più debole – è già di per sé sufficiente a smentire la tesi dei sostenitori degli AD.

Questi ultimi possono ben sostenere che “in linea di principio” gli AI sono contraddittori con l’idea antispecista: il che è del tutto evidente. Ma non possono allo stesso modo sostenere che essi sono anche “in linea di principio” inefficaci alla realizzazione di tale idea, poiché per affermare ciò occorre uscire dall’ambito della pura coerenza morale ed affrontare il rapporto tra le idee e la realtà sociale con tutte le complessità che l’analisi incontra.

Come si è detto, i sostenitori degli AI sono giustificati sia in senso etico che strategico se assumono il principio antispecista da cui muove Stzybel (“salvare la vita di ogni singolo animale”). Ma anche se assumono la prospettiva più sociale e politica secondo cui il principio antispecista è lo smantellamento della società specista avrebbero così motivo di non desistere dalla loro prassi. Essi potrebbero ad esempio sostenere (come alle volte in effetti sostengono) che la creazione di una cultura diffusa di simpatia e benevolenza verso gli animali, ancorché antropocentrica, non solo non impedisce ma può addirittura favorire l’evoluzione in senso antispecista di frange più ampie della società.

In questo caso, gli AI hanno sugli AD il vantaggio di poter funzionare anche all’interno di uno schema sociologico e psicologico più complesso, cioè non unidirezionale e atomistico come quello presupposto dai sostenitori degli AD.[18] È del tutto evidente che una “familiarizzazione” con temi che presuppongono e incoraggiano un cambiamento di trattamento degli altri animali (anche se provenienti dalla sterminata e confusa galassia eco-bio-salutista-new age) si oppone all’idea della immodificabilità del loro presente status nella società umana, così come delle nostre abitudini nei loro confronti. Ed in effetti, una simile convinzione è confermata dall’esperienza di tutti coloro che sono divenuti antispecisti in modo graduale: non è difficile incontrare persone che hanno superato i propri pregiudizi e le proprie diffidenze fondate su reiterate abitudini speciste proprie grazie agli AI e che solo in seguito hanno maturato convinzioni morale più radicali. Se è certo che tutto ciò di per sé non produce nella coscienza alcuna convinzione antispecista, è poco plausibile costituisca uno sfondo di abitudini preriflessive contrarie alla sua produzione.[19]

Senza dimenticare l’esistenza – tra gli argomenti diretti o indiretti – di una vasta gamma di argomenti semi-indiretti (o semi-diretti) che sfruttano la simpatia che l’ascoltatore prova nei confronti di alcune specie animali come cani, gatti o delfini. Ricordo, ad es., che la prima volta che pensai seriamente di cambiare le mie abitudini alimentari fu quando un commensale – per nulla vegetariano – mi disse che nel tonno di cui andavo ghiotto c’erano delfini. La cosa mi procurò un oggettivo orrore che era certo ancora interamente specista (seppure di uno specismo di “secondo livello”) ma che ha avuto un ruolo soggettivamente importante nella costruzione delle mie convinzioni successive. Ecco l’esempio di un emittente specista che influenza positivamente attraverso un messaggio semi-specista un processo di lungo periodo che finisce con l’acquisizione di una convinzione antispecista.

Il discorso che sto cercando di proporre, lo ribadisco, non intende affatto dire che gli AI possano sostituire gli AD o che siano sempre e comunque legittimi. Tutto il contrario: nel modello che vorrei sviluppare l’efficacia degli AI presuppone l’esistenza di una visione antispecista coerente e chiara in grado di focalizzare l’attenzione sulla tragedia animale nella sua totalità. Se finora ho sottolineato in modo apparentemente unilaterale i limiti degli AD è perché il punto in discussione adesso non è l’esigenza di sottolineare l’importanza della questione animale in quanto tale – nessuno dubita di ciò – quanto l’ipotesi di abbandonare completamente gli AI perché “controproducenti” per la causa antispecista e, dunque, di ridurre la strategia discorsiva del movimento agli AD. E questa tesi non mi sembra sia stata mostrata in modo inequivocabile e dunque va rifiutata o formulata in modo diverso.

L’ipotesi di soluzione “politica” e le sue difficoltà

Un’impostazione differente del problema è stata suggerita dal saggio di Aldo Sottofattori che sposta l’argomentazione sul piano pratico-politico[20] e non moral-filosofico. Nel suo intervento, infatti, l’assunzione rigorosa degli AD è funzionale alla costituzione di un soggetto politico che esprima posizioni coerentemente antispeciste. Il problema, per Sottofattori, non è l’uso in sé degli AI ma l’opportunità di fare ricorso ad essi da parte di un soggetto politico chiaramente definito in senso antispecista. Se ciò accadesse, scrive Sottofattori, esso rischierebbe di “perdere autorevolezza” e l’effetto di ritorno del suo messaggio sarebbe addirittura “devastante”.[21] Stando così le cose, dunque, il problema dell’efficacia o meno degli AI viene accantonato in quanto imponderabile in sé e relegato ai soli soggetti “legittimati” a farne uso: cioè tutti coloro che sono esterni al movimento antispecista vero e proprio.[22]

Come si vede, la preferenza “etica” per gli AD è qui subordinata ad esigenze di tipo pratico-organizzativo.[23] Ciò permette di fare chiarezza sulla questione degli AI perché, ponendo il problema della coerenza etica come premessa al costituirsi di un movimento antispecista organizzato, Sottofattori può concentrarsi in modo più concreto e sistematico sul problema dell’efficacia dei suoi messaggi e, dunque, può anche permettersi di considerare in modo meno rigido e dogmatico il ricorso agli AI. Mi sembra che la proposta di Sottofattori intraveda in che senso sia possibile risolvere la controversia in oggetto – cioè definendo meglio i soggetti coinvolti nel dibattito: quale soggetto emette il “messaggio” antispecista? A quali soggetti si rivolge? Quali sono le possibilità di successo della sua azione? ecc.

C’è però un elemento problematico in questa proposta che mi sembra importante sottolineare: nonostante lo sforzo fatto per rendere meno astratta la natura del dibattito, sposando la posizione della Perlo (sia pure limitatamente alla costituzione del soggetto politico antispecista), Sottofattori dimostra di condividerne le modalità discorsive entrando così in contraddizione con l’esigenza posta di affrontare in modo più concreto la questione del movimento antispecista e delle sue possibilità di incidere sul reale politico.

Sottofattori denuncia il fatto che nel dibattito Perlo/Stzybel, gli emittenti e i riceventi del messaggio siano sempre “figure schematiche e sommarie”.[24] Ma non mi sembra sottolineare abbastanza che la stessa natura del messaggio di cui si discute (ma, probabilmente, la nozione stessa di “messaggio”) è di un’astrattezza senza pari. Mi riferisco al fatto che l’intera disputa si fonda sull’assunto che l’antispecismo possa essere proposto e/o difeso riducendone il contenuto ad una serie di singole proposizioni isolate. A questo fa riferimento il termine “argomento” come viene utilizzato in questa disputa. Un argomento si riduce qui ad una proposizione il cui contenuto è o l’affermazione diretta dell’uguaglianza morale tra gli esseri senzienti (cioè una proposizione prescrittiva), oppure è un’affermazione di natura fattuale che, facendo leva sull’interesse egoistico del soggetto, potrebbe condurre ad un miglioramento della condizione degli animali (cioè una proposizione descrittiva). Prima di mostrare perché l’adesione di Sottofattori a questo modo di intendere l’argomentazione antispecista non sia coerente con le sue premesse politiche, vorrei fare due brevi considerazioni generali che possono aiutare ad illuminare i limiti di questo approccio.

È anzitutto abbastanza curioso che si usi l’espressione “argomento” per descrivere gli AD. Essi possono essere tutti indistintamente ricondotti all’affermazione pura e semplice di un obbligazione morale non ulteriormente riducibile. Ad es.: “non bisogna mangiare carne perché…i non umani hanno diritto alla stessa considerazione morale degli umani”, “non bisogna vivisezionare perché… i non umani ecc.”, “non bisogna costruire zoo perché… i non umani ecc.”. Tutti i cosiddetti AD costituiscono in realtà un solo argomento e, a ben vedere, non sono affatto “argomenti”, poiché non possono convincere nessuno che non sia già moralmente convinto della loro posizione etica di partenza. Il valore informativo delle proposizioni prescrittive è zero: esse descrivono valori, non fatti.

Viceversa, nelle proposizioni descrittive è il contenuto etico ad essere nullo: esse descrivono fatti e non prescrivono.[25] E questa è la reale debolezza degli AI. Poiché costituiscono degli argomenti in senso proprio possono essere fattualmente contraddetti. L’unico aspetto condivisibile della critica della Perlo agli AI, infatti, è il rischio che essi possano essere smentiti rivelandosi, in questo caso sì, “controproducenti” per la causa antispecista.[26] Ovviamente, Stzybel – come tutti coloro che in genere si avvalgono di AI – è interamente convinto della loro verità ed attendibilità. E questo mi sembra l’aspetto più deleterio della cultura animalista/antispecista che fa uso di AI: la tendenza ad ammucchiare confusamente “fatti” non verificati e l’incapacità (per pigrizia o per dogmatismo) di chiedersi se e in che misura essi siano veri o anche solo verificabili.

Per quanto riguarda la scelta di Sottofattori in favore della posizione della Perlo, essa sembra suggerire che il movimento antispecista dovrebbe ricorrere a strategie discorsive fondate su proposizioni puramente prescrittive. Ora, distinguere tra forme proposizionali prescrittive e descrittive ha sicuramente senso all’interno dell’ambito della filosofia morale ma è curioso che Sottofattori trapianti tale distinzione nel proprio modello operativo pratico-politico e addirittura prenda partito per una delle due forme proposizionali.

La differenza tra questi due piani appare evidente se si riflette sul fatto che per i sostenitori degli AD non è mai il contenuto degli AI ad essere in questione, ma la loro forma. È del tutto ininfluente che essi, singolarmente presi, siano veri o meno; i sostenitori degli AD, infatti, li considerano inaccettabili “in linea di principio”. Ora, il procedimento di Sottofattori è curioso anzitutto perché questa trasposizione modifica completamente il senso di quella distinzione e anzi la vanifica: se in ambito di filosofia morale essa assume un ben preciso significato logico (opporsi alla vivisezione perché deleteria per l’uomo è in contraddizione con l’idea che essa sia moralmente ingiusta), se l’argomentazione si sposta sul piano politico (con tutta la complessità di intrecci tra piano ideale e piano della prassi cui si è accennato sopra) questo rigore logico non ha e non può avere corso. La scelta per gli AD deve perciò obbedire ad esigenze di tutt’altra natura. E come si è già visto, infatti, Sottofattori giustifica la propria adesione alla posizione della Perlo perché essa permetterebbe al soggetto emittente del messaggio antispecista di assumere un profilo pubblico più chiaro e differenziato (cioè identificabile senza confusioni), non per motivi di ordine intrinsecamente etico.[27]

Ma il problema vero, come si è detto, è che tale trasposizione – lasciando intatta la forma discorsiva in cui si presenta originariamente il dibattito – entra in contraddizione con l’intento di fondo del saggio di Sottofattori. Per un discorso come il suo che intende uscire dalla gabbia della filosofia morale per farsi trasformazione politica della società è giustificato parlare di argomenti come di singole proposizioni prescrittive e descrittive e addirittura operare una scelta tra le prime e le seconde? Un ragionamento politico non si fonda invece su un modello sociale in cui elementi prescrittivi e descrittivi si trovano indissolubilmente intrecciati?

Si potrebbe sostenere che tutto ciò è vero ma che il piano normativo e il piano descrittivo del ragionamento politico restano comunque distinti. Questo estremo tentativo di salvare gli AD assegnando ad essi un ruolo in una ipotetica “teoria politica antispecista” potrebbe suonare così: esistono principi morali assoluti enunciabili in forma puramente prescrittiva (“fai x!”) e applicazioni di questi principi morali che scendono a livello fattuale e si lasciano esprimere in forma descrittiva o pratico-ipotetica (“se vuoi x, fai y”). Ma si tratta di una soluzione apparente che non fa che riproporre l’etica dell’intenzione in forma mascherata. Se il piano fattuale non retroagisce o non entra in qualche modo in relazione dialettica con il piano dei principi morali si avrà comunque un movimento unilineare dai principi all’applicazione pratica che configura il modello di un’etica “assolutistica”. E tutto ciò è, per quanto potenzialmente nobile e generoso, la plastica espressione di un discorso che strutturalmente non accede al piano politico e non vi accede non solo e non tanto perché la sua intransigenza non si lascia declinare in termini tattico-strategici, quanto perché avendo ad oggetto l’esclusivo interesse dei non umani non ha alcun modo di esprimere interessi umani. Ma la politica è appunto l’espressione pratica, mediata e organizzata di un interesse! Quindi delle due l’una: o esiste una politica esclusivamente umana e una politica esclusivamente animale che, per definizione, procedono in parallelo e non si incontrano mai, oppure la politica è affare esclusivamente umano e la questione animale è destinata a rimanere un fatto esclusivamente morale.

Cosa intendo dire quando affermo che il piano fattuale deve “retroagire” sul piano dei principi morali? Non penso dunque che dobbiamo partire da principi antispecisti e “dedurre” l’azione politica da qui? No, non lo penso. Questa visione è l’effetto inevitabile del fatto che storicamente il discorso sui “diritti animali” è stato sollevato da filosofi morali e, conseguentemente, impostato in chiave etica. Ci troviamo quindi necessariamente a dover unire etica e politica come sfere separate e che difficilmente si lasciano conciliare in questa forma rigida e reciprocamente indifferente. Ma come? – si dirà – la politica non implica dei “valori”, delle “prese di posizione morale”? I “sistemi politici” non si fondano su assunti normativi e descrittivi? Certo, è quello che sto sostenendo. Sostengo anche, però, che non esistono sistemi o filosofie politiche che partano da assunti puramente prescrittivi e deducano da qui le loro “applicazioni” pratiche. Tutti i ragionamenti politici, a partire dai grandi sistemi filosofici fino alle loro declinazioni programmatiche, sono invece degli insiemi in cui non è facile distinguere elementi prescrittivi e descrittivi. Anzi, tutti quei sistemi hanno almeno una pretesa a fondarsi su stati di fatto e non su prescrizioni. Sovente, infatti, chi intende criticare un sistema o una filosofia politica fa leva proprio sul tentativo di smascherare i “fatti” che stanno alla base dei suoi ragionamenti come “assunti non dimostrati” o come “prescrizioni” surrettizie (cioè di mostrare dove il ragionamento produce la famosa “fallacia naturalistica” tra essere e dover-essere). Esempi:

Tutte queste posizioni potrebbero ben essere smascherate come fondanti su assunti “prescrittivi” non dimostrabili. Ma è certo che essi non vengono considerati tali da chi li professa. Per Marx è un fatto che il capitalismo derubi il lavoratore, non un assunto etico. Per Hobbes è un fatto che l’uomo sia egoista per natura, non un assunto etico. In tal senso, quando si parla di “assunti normativi” che stanno alla base di una posizione politica solitamente si tratta di assunti che vengono denunciati da chi quella posizione politica intende svelarne i presupposti ideologici, per analizzarla o criticarla.

Ora, noi ci troviamo nella scomoda condizione di avere invece i nostri “assunti normativi” già belli e pronti, preparati per noi dalla filosofia morale che si è occupata per oltre trent’anni della questione animale. Ma questo, invece di facilitarci il compito, ce lo complica. Perché ora ogni discorso sugli animali che voglia avere accesso ad una dimensione fattuale cade facilmente nell’accusa di voler derogare alla purezza del principio etico. Dobbiamo quindi in un certo senso guadagnare un’innocenza politica che non possiamo pretendere ma senza la quale non è possibile alcun discorso politico in senso proprio e, dunque, non è possibile assumersi il compito di smantellare la società specista.

Una riformulazione del modello politico

E arriviamo così al punto decisivo del nostro discorso che intende approfondire il modello di Sottofattori depurandolo degli ultimi residui delle modalità discorsive proprie dell’antispecismo di “prima generazione”.[28]

In cosa consiste dunque questo approccio? In sintesi, riprendendo quanto siamo andati dicendo finora, condivido con Sottofattori l’idea che l’antispecismo debba affrontare i propri compiti pensandosi come “soggetto politico” ma proprio per questo non ritengo che sia necessario operare una scelta tra AD e AI perché di fatto si tratta di una distinzione artificiale (che nasce nel campo specifico della filosofia morale anglosassone e delle sue modalità discorsive) che, correttamente riposizionata in ambito politico, perde significato. La conseguenza di ciò è che il rapporto tra ciò che oggi chiamiamo AD e AI sarà tanto stretto che la loro opposizione si dissolverà. Si tratta di mutare completamente la strategia discorsiva finora proposta dall’antispecismo. La mia posizione è che l’insufficienza – etica e fattuale – degli AI non dimostra affatto automaticamente la bontà e la proficuità degli AD. Al contrario, ritengo che essi impediscano strutturalmente il delinearsi di questa nuova modalità discorsiva, mentre gli AI, per quanto fallaci e incongruenti siano, possono – se adeguatamente riformulati – entrare a farne parte. Vediamo in che senso.

Come Sottofattori giustamente sottolinea, è necessario superare la fase in cui l’antispecismo pensa se stesso come un gruppo o una massa di “individui” che cercano di “convincere” altri “individui” della bontà delle proprie posizioni. L’antispecismo, quando comprende la natura storica e sociale delle strutture di dominio, deve compiere il passo decisivo di criticare queste strutture come ciò che oltrepassa il raggio di azione e le capacità di comprensione del singolo. Esso si traduce così in un progetto politico che coordina un’azione collettiva di smantellamento di tali strutture.[29] In sintesi, mentre per Sottofattori l’antispecismo sta a monte, come premessa etica del discorso sull’animale, per me esso sta a valle, come sua conclusione pratica. Per Sottofattori l’antispecismo rimane un principio morale, per me è una finalità politica.

Ma un simile progetto politico non può che  fondarsi sull’elaborazione di un modello sociale coerente e in sé sviluppato che contempli – nella misura del possibile – una diversa concezione dei rapporti infra ed extraspecifici. È quindi il caso di chiarire che ciò che mi è sempre parso interessante nell’uso di AI non è tanto la loro forza di convincimento (che è anzi molto variabile e che, riferita al loro contenuto etico, come si è detto, è nulla), bensì il fatto che essi colleghino interessi umani e non-umani per quanto confusamente ed erroneamente. È del tutto evidente, infatti, che chi usa AI lo fa partendo dagli interessi diretti dei non-umani anche se poi li collega con quelli degli umani.[30] Ma questo è un pregio, non un difetto degli AI: il problema semmai è che tutto ciò avviene in modo arbitrario e talvolta addirittura in malafede. Tuttavia, la strada di chi usa AI (mostrare la necessità di trattare insieme interessi umani e non-umani) è quella giusta, laddove coloro che si interessano esclusivamente di AD rischiano costantemente di ricadere in ciò che Filippo Schillaci ha definito “specismo speculare”.[31]

Ciò che mi interessa dunque non è tanto la forma attuale che gli AI hanno, bensì quella che potrebbero avere se fossero collocati all’interno di un modello di società non-specista in cui il contrasto tra interessi umani e non umani dovrebbe essere in linea di principio risolto.[32]

In questo senso non è vero, come sostiene Sottofattori, che il mio approccio “non ha nulla a che vedere con l’impiego degli AI”.[33] Perché, a ben vedere, esso non ha nulla a che fare nemmeno con l’uso di AD se per AD si intende la possibilità di declinare in proposizioni isolate (prescrittive) il senso del modello complessivo e di sottolineare in maniera unilaterale l’esclusivo interesse non-umano. La questione decisiva è invece che se deve esserci una visione socio-politica della questione animale, essa non può ignorare l’interesse umano e, dunque, un movimento che intende porre fine alla società specista deve necessariamente e fin dove è possibile porre in relazione questi l’interesse umano e quello non umano.[34]

Appare allora evidente che in un tale modello non avrebbe senso parlare di AD e AI: in primo luogo, perché l’argomentazione politica si fonderebbe sull’intreccio tra proposizioni prescrittive e descrittive, spingendosi ad una certa compenetrazione tra l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità; in secondo luogo, perché il focus qui non sarebbe sulla società attuale con i suoi conflitti artificiali tra le istanze umane e non umane, bensì su una società possibile in cui la necessità di tale conflitto è, se non abolita del tutto, sicuramente ridotta al minimo.

Per chiarire tutto ciò con qualche esempio grossolano: ha senso contrapporre l’orrore etico del macello e quello politico dell’iniqua distribuzione delle risorse se si assume il punto di vista di un modello sociale in cui non c’è spazio né per l’una né per l’altra? Ha senso contrapporre lo sdegno per la vivisezione alla denuncia della medicalizzazione della società se tale modello sociale si trova in contraddizione con la persistenza di tali fenomeni? Ha senso contrapporre le vittime non umane della caccia a quelle umane se si ragiona a partire da un modello in cui non c’è più spazio per questo sedicente “sport”?

L’antispecismo dovrebbe dunque proporre un modello di società alternativo e lavorare alla diffusione politica di tale modello.[35] Tutte le questioni che di volta in volta si pongono alla prassi del movimento dovrebbero quindi essere affrontate non in sé, come istanze isolate, ma sempre collocandole all’interno della prospettiva generale in cui ci si muove. I “messaggi” che si emettono, seppure sempre legati al contesto concreto in cui devono far sentire i propri effetti, dovrebbero mostrare costantemente il proprio legame con l’ipotesi di fondo che giustifica l’azione politica complessiva del movimento. Tali messaggi, così come tutte le obiezioni e contro-obiezioni che di volta in volta si andranno elaborando, dovrebbero perdere il proprio carattere parcellizzato e astrattamente etico ed essere pensati come momenti di una strategia complessiva che, a sua volta, si giustifica solo in un’idea di società alternativa al presente. La forza di convincimento di tali argomenti starebbe nella loro capacità di intrecciarsi in una visione coerente ed alternativa dell’esistente, mostrando come l’attuale stato di conflitto tra interessi umani e non umani non possiede quei tratti di necessità e inevitabilità che gli vengono comunemente attribuiti.

 

Possibili obiezioni

Non nascondo che il discorso meriterebbe altri approfondimenti e che, formulato in questo modo, non mancherà di suscitare perplessità e obiezioni. Cercherò dunque, per quanto possibile, di renderlo più plausibile affrontando preventivamente alcuni nodi problematici.

1. L’astrattezza del modello

Si potrebbe ad esempio obiettare che tutto ciò che ho detto è vero ma che non ho fornito esempi concreti del modo in cui il movimento antispecista potrebbe trarre profitto dalla prospettiva che ho proposto. Si potrebbe, in sostanza, accusarmi di essere rimasto ad un livello troppo “astratto”, laddove invece la lotta quotidiana impone di affrontare questioni specifiche che necessitano, appunto, di “argomenti” validi. Finora il movimento è stato in grado di mettere in pratica solo due forme di strategie discorsive: gli AD e gli AI. Con cosa propongo di sostituirli?

La risposta a questa obiezione potrebbe suonare come un comodo escamotage ma mi pare inevitabile: il movimento antispecista dovrà ancora lavorare parecchio per arrivare all’elaborazione di un modello socio-politico adeguato e, dunque, non è possibile produrre esempi di strategie discorsive alternative a quelle attuali. Siamo in un terribile ritardo su questo versante e non è un caso. Abbiamo infatti raggiunto una certa chiarezza sugli aspetti etici dell’antispecismo (seppure anche qui non manchino questioni importante da dirimere) e siamo ben in grado di produrre proposizioni prescrittive coerentemente antispeciste. Siamo tuttavia ancora ben lontani dal disporre di un arsenale di fatti altrettanto sviluppato che possa sostenerci quando cerchiamo di prospettare una società diversa da quella attuale. Dal punto di vista delle proposizioni descrittive – assolutamente necessarie all’elaborazione di qualsiasi modello socio-politico – ci affidiamo il più delle volte all’approssimazione, scambiando i nostri desideri per realtà. Questo stato di cose è una diretta conseguenza del fatto che l’antispecismo teorico negli ultimi vent’anni ha prediletto la disputa sulla formalizzazione dell’argomentazione etica piuttosto che interrogarsi sulla realtà sociale che si trattava di trasformare. Anche per questo ritengo che l’insistenza sugli AD sia divenuta nociva, oltre che stucchevole, e che occorra un cambiamento di rotta.

Una cosa è certa. Nelle campagne in cui si trattano argomenti di interesse unicamente umano (dalla scuola pubblica al precariato, dalla condizione dei migranti al ciclo dei rifiuti) ci si trova di fronte a messaggi specifici che sono spesso tanto più credibili quanto più mostrano di conoscere nel dettaglio i problemi fattuali che si tratta di affrontare. D’altro canto, il grado di maturità politica di tali messaggi si misura sulla loro capacità di delineare un quadro complessivo e anche un’ipotesi di cambiamento in cui quei problemi particolari trovano una propria coerente soluzione. Si può anzi dire che se non si disponesse anche di tale quadro complessivo e di un’ipotesi alternativa sarebbe difficile riuscire ad evidenziare i problemi concreti. Il modello politico, insomma, non fornisce solo la lista delle “buone intenzioni” ma è anche un metodo di mappatura della realtà e aiuta a decifrarla. È il famoso intreccio tra il livello descrittivo (il mondo-come-è) e quello prescrittivo (il mondo-come-dovrebbe-essere), tra etica della responsabilità ed etica dell’intenzione in cui si muove il discorso propriamente politico.

Come stanno le cose con le battaglie antispeciste? Solitamente si ha un confuso aggregato di AD e AI che scimmiotta – sit venia verbo – il modo in cui si comportano i movimenti di liberazione umana. È sintomatico però che le sedicenti punte “avanzate” del movimento abbiano maturato la convinzione che si debba quindi limitarsi all’uso di AD per guadagnare una propria specificità e (presunta) efficacia. Se dovessimo giudicare questi sforzi con gli stessi criteri con cui si giudica una campagna “umanista” dovremmo bocciarli senza appello. Immaginiamo una persona che si limitasse a registrare il malessere di insegnanti, precari o migranti e scrivesse un volantino in cui magari si descrive analiticamente questa condizione di malessere (rispetto alle condizioni di lavoro, alla paga, o alle vessazioni subite) ma che si limita a definire tutto ciò una “ingiustizia” di cui si attribuiscono le cause all’egoismo dei loro diretti superiori. La sua buona volontà sarebbe degna di lode, certo, ma pochi sarebbero disposti a considerare la sua analisi politica degna di menzione.

2. L’accusa di “opportunismo”

So già che, di fronte all’ipotesi di “superamento” della distinzione tra AD e AI e l’idea di elaborare un modello sociale non-specista in cui le istanze umane e non umane possano incontrarsi, alcuni antispecisti muoveranno l’obiezione: “Ah! Ma allora non avete il coraggio di presentare la questione animale da sola e pensate si debba sempre unirla a qualche vantaggio per l’uomo”. Al che di solito segue la domanda provocatoria: “perché non pretendente allora che chi protesta contro i CIE parli anche di canili?” ecc.[36] E questo è un classico discorso etico, non politico, e di un’etica che è per di più totalmente e integralmente etica dell’intenzione: fiat iustitia et pereat mundus.

La risposta a tale obiezione è semplice: nella misura in cui l’argomentazione antispecista si colloca dentro un discorso volto alla costruzione di un modello sociale alternativo, il riferimento all’interesse umano non è estraneo e strumentale ma intrinseco, necessario e dunque pienamente legittimo anche da un punto di vista morale.

L’esempio del CIE, poi, confonde il livello in cui si muove una campagna di sensibilizzazione e quello del discorso politico: nessuno pretende che ad una manifestazione sul precariato si parli di diritti degli omosessuali, è chiaro che tutte queste proteste hanno la loro specificità e, al pari della questione animale, esse possano essere poste in modo indipendente. In tutti gli esempi “umanisti”, tuttavia, (CIE, precariato, diritti omosessuali ecc.) le singole campagne trovano una possibile conciliazione a livello politico proprio dove si immagina un sistema sociale diverso: sarebbe assurdo pretendere – per ragioni di “purezza” etica – che chi critica il capitalismo perché sfrutta i lavoratori si astenga dall’osservare che il capitalismo inquina! Questo passaggio ad un livello più articolato non accade invece per le tematiche antispeciste che rimangono sempre inchiodate a livello locale ed etico e non giungono mai a porre in modo chiaro la questione del loro modello sociale di riferimento e della strategia politica che si tratta di mettere in opera.

Perché si giunga all’elaborazione di un modello sociale come guida dell’azione è del tutto evidente che esso dovrà configurarsi come luogo di incontro anche di istanze che oggi non hanno nulla a che fare con l’antispecismo (ad es., i CIE, il precariato, i diritti omosessuali ecc.). Questa necessità, tuttavia, non è – come solitamente si ritiene – di tipo tattico e strumentale (“parliamo di interessi umani per attirare l’attenzione su di noi”), bensì di tipo teorico e intrinseco. Non si tratta di pietire l’attenzione di nessuno, bensì di mostrare che il proprio modello socio-politico – includendo e disinnescando la contraddizione umano/non-umano – riesce meglio degli altri a conciliare istanze di lotta anche di interessi umani che apparentemente non hanno nulla a che fare con la società specista.[37]

3. Verrà il tempo

Più difficile rispondere a chi sostiene che la necessità di concentrarsi sugli AD corrisponda ad una determinata fase storica del movimento e che si potrà in futuro forse muoversi verso una concezione più articolata e complessa dello specismo e dunque delle strategie per sconfiggerlo.

A chi si trincera dietro questa convinzione posso solo rispondere con una domanda: fino a quando si dovrà aspettare? Come si intende misurare il grado di maturazione politica del movimento antispecista? E, soprattutto, come si intende farlo crescere verso una comprensione politica della realtà sociale se ogni appello in questo senso viene stigmatizzato come “prematuro” e si deve sempre passare per le forche caudine di quella “coerenza etica del messaggio” che viene sbandierata come presupposto di ogni possibile azione antispecista? La sicurezza con cui si ribadisce questo assunto non può nascondere il fatto che anche qui il modello sociologico e psicologico che si segue è di tipo atomistico e unidirezionale.

Tutto ciò vale anche per quegli antispecisti più “smaliziati” politicamente che però non riescono ad abbondare la forma mentis in cui è nato e si è sviluppato l’antispecismo: ovvero la discussione filosofico-morale e tutti i suoi presupposti che non sono traducibili in una dimensione propriamente politica. Sono gli antispecisti politici ma anche etici. In questi attivisti,  il discorso “politico”, anche se proclamato a gran voce rimane dunque astratto. Inseguendo le lusinghe della “filosofia morale” e pensandosi come interamente “politici” essi ondeggiano piuttosto tra due estremi: moralizzano la politica o politicizzano la morale. Da un lato, infatti, presuppongono (senza darne dimostrazione) che solo il rigorismo morale produce trasformazione politica in senso corrispondente ai principi morali. Dall’altro, concepiscono la lotta sui principi morali come una lotta ipso facto politica: da qui la feroce serietà con cui vigilano sulla “ortodossia” dei messaggi che si veicolano.

Conclusione 

Questo intervento non intendeva risolvere la questione tra AD e AI poiché ritiene che il modo in cui essa è impostata rende sbagliata la scelta per l’uno o per l’altro corno del dilemma. Si è perciò cercato di mostrare i limiti intrinseci di tale dibattito, nonché delle ipotesi di soluzione che, pur muovendosi nella giusta direzione (tradurre la disputa filosofica in ragionamento politico: Sottofattori) non riescono nel loro intento.

Ciò che qui si è tentato di fare non è però nemmeno la metà del compito che ci aspetta. Si tratta infatti anzitutto di capire la necessità di un cambiamento di paradigma che ci permetta di affrontare lo specismo con strumenti concettuali e operativi nuovi (cioè passare dal piano del pensiero e dell’azione individuale a quella collettiva, sociale, politica) e poi passare senza indugio all’elaborazione teorica e pratica necessaria. La diatriba tra AD e AI se non serve a farci fare questo passo in avanti, se non fa crescere in senso teorico e pratico il movimento, ci invischia in questioni secondarie e in conflitti apparenti, drenando energie che dovrebbero essere invece convogliate verso compiti più importanti ed urgenti.

 


[1] Cfr. M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.

[2] K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci: strategie per la diffusione dei diritti animali, trad. it. di A. Galbiati, in «Liberazioni», n. 1, 2010, pp. 58-78.

[3] D. Sztybel, Risposta all’articolo di Katherine Perlo “Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci: strategie per la diffusione dei diritti animali”, trad. it. di Silvia Faggian, in «Liberazioni», n. 2, 2010, pp. 52-59.

[4] A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, in «Liberazioni», n. 3, 2010 , pp. 52-65.

[5] M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino 2004, pp. 109 e sgg.

[6] A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, cit., pp. 55-56.

[7] D. Sztybel, Risposta all’articolo di Katherine Perlo, cit., p. 58.

[8] Anche la Perlo considera il cambiamento etico individuale un criterio di misura del “beneficio” che gli animali traggono dall’azione del movimento antispecista. E seppure precisa che il vero fine il fine del movimento è “un mutamento del paradigma morale” non offre alcun criterio per misurare gli avanzamenti del movimento su questo versante. Cfr. K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 59.

[9] D. Sztybel, Risposta all’articolo di Katherine Perlo, cit., p. 55.

[10] Quello della “massa critica” è un vero e proprio mito dell’antispecismo e, più in generale, dei movimenti che hanno alla base una visione prettamente etica e non politica della trasformazione sociale. Ho avuto modo di esporre alcuni limiti di tale concetto in M. Maurizi, Al di là della natura, cit., pp. 75-76.

[11] Legenda

[12] Ciò che Katherine Perlo definisce “una trasformazione qualitativa nella mente delle persone”. K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 59.

[13] Secondo la Perlo, in effetti, per colpire la sua struttura di dominio dello specismo si tratterebbe di attaccarne “il ragionamento fallace”. Ibid., p. 78.

[14] Per “olistico” si intende qui semplicemente il fatto che un insieme possiede caratteristiche che non sono riducibili alle caratteristiche degli elementi che lo compongono (“il tutto è più della somma delle parti”). Si intende alludere, dunque, a tutte quelle qualità degli insiemi (reti, strutture, forme ecc.) sociali che rendono possibile l’interazione tra individui piuttosto che derivarne.

[15] A. Sottofattori, Sulla gestione sociale delle emozioni, in «Liberazioni», n. 2, 2010, pp. 38-51.

[16] Non credo sia possibile stabilire tra “strutture sociali” ed “individuo” un rapporto invariante come ritiene Sottofattori  (ibid.). È probabile che la prevalenza o meno dell’oggettività sociale sul soggetto muti storicamente e con essa il “peso” della società sul singolo. È però vero che mai come nella società dell’individualismo sfrenato (il capitalismo globalizzato) l’individuo sia posto di fronte ad uno sconfortante senso di impotenza. E questo è ciò che rende plausibile la diagnosi che Sottofattori fa della società contemporanea, seppure è forte il sospetto che egli tenda ad universalizzare l’attuale stato dei rapporti società-individuo e a farne una caratteristica della società in quanto tale. Cfr infra, n. 17.

[17] Cfr. K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 78.

[18] Ovviamente, coloro che usano gli AI lo fanno solitamente dentro uno schema esplicativo socio-psicologico di tipo atomistico e unidirezionale (cfr. la posizione di Stzybel discussa sopra). Ciò che sto discutendo qui è la possibilità che gli AI funzionino dentro uno schema sociologico e psicologico più complesso.

[19] Credo che questo sia il massimo che si possa scientificamente affermare su questo punto. Anche l’ipotesi di Sottofattori, secondo cui l’argomentazione indiretta “indebolisce il messaggio antispecista nella misura in cui perde l’occasione di rafforzarlo” mi sembra sbilanciarsi troppo e abbraccia ancora, almeno in parte, l’idea che i sostenitori degli AD si fanno del processo comunicativo antispecista. Cfr. A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, cit., p. 59.

[20] Il termine “politico” va qui inteso in senso generico come ciò che attiene alla vita collettiva (alla polis, città) e si preoccupa di indirizzarla verso tale o tal’altro fine. L’antispecismo, poiché configura una modalità radicalmente nuova di rapporto ai non umani (e agli altri umani), ha conseguenze che impattano inevitabilmente sull’insieme della società e che non possono quindi che essere definite politiche. Coloro che rifiutano di parlare di “politica” quando affrontano la questione animale sono vittime di due confusioni: confondono (1) politico con “partitico” (cioè immaginano che parlare di politica significhi parlare di partiti politici) e (2) “partitico” con “partitocratico” (cioè immaginano che parlare di partiti significhi parlare delle attuali oligarchie che siedono nei parlamenti nazionali).

[21] A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, cit., p. 58.

[22] Ibid., pp. 60 e sgg.

[23] Tale circostanza apparentemente paradossale deriva in modo del tutto naturale dal fatto che l’idea stessa di agire morale è cancellata nelle premesse del discorso di Sottofattori. Se infatti si immagina la società come una struttura che pre-determina l’azione individuale e si riduce l’intera sfera simbolica ad un epifenomeno di tale struttura, è ovvio che l’etica non possa essere altro che una delle forme in cui la struttura agisce nella coscienza degli individui (A. Sottofattori, Sulla gestione sociale delle emozioni, cit., p. 39). Non si comprende però come in questo discorso possa giustificarsi l’apparire di una minoranza che agisce in modo inconciliabile con la struttura sociale, aspirando addirittura a sovvertirne l’ordine (ibid., p. 49). Delle due l’una: o le “convinzioni” che muovono tale minoranza sono esse stesse un epifenomeno della struttura sociale – nel senso, ad es., che l’ordine vigente produce un antagonismo minoritario funzionale alla propria riproduzione – oppure l’ordine simbolico non è monoliticamente dipendente dalla struttura sociale. Nel primo caso, ogni ipotesi di opposizione alla struttura di dominio sarebbe illusoria; nel secondo caso è necessario riconoscere una qualche forma di autonomia individuale e l’agire etico si qualificherebbe appunto come lo spazio aperto tra l’ordine simbolico e la realtà sociale. La concezione psico-sociologica di Sottofattori, da questo punto di vista, mi sembra analoga a quella espressa da F. Schillaci (Cfr. F. Schillaci, L’antispecista impossibile e l’antispecismo possibile) e caratterizza, con accenti diversi e con minore coerenza, anche l’anarco-primitivismo. La posizione anarco-primitivista è, in poche parole, la versione diacronica e genetica della concezione sincronica e statica di Sottofattori: laddove, infatti, Sottofattori – almeno da quanto si può evincere dal saggio apparso su Liberazioni – immagina la struttura sociale e l’ordine simbolico come due invarianti, come momenti necessari di ogni compagine sociale, l’anarco-primitivismo ritiene che questi due aspetti si siano consolidati ad un certo punto della preistoria e da lì abbiano cominciato a far sentire i propri effetti coercitivi sull’individuo. Secondo tale impostazione, dunque, sarebbe possibile pensare uno stadio dell’umanità in cui non esistono né struttura sociale né ordine simbolico. Si tratta di questioni che meriterebbero sicuramente un’analisi più dettagliata che non è però possibile sviluppare ulteriormente in questa sede.

[24] A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, cit., p. 57.

[25] Al limite, ad essi si associa quello che Kant chiama “imperativo ipotetico” della serie “se vuoi X, allora fai Y”. Gli AD sono invece tutti riconducibili ad “imperativi categorici” del tipo: “fai X”.

[26] K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 70.

[27] Quando parlo di interesse “pratico-organizzativo” e “pratico-politico” da parte di Sottofattori non intendo ovviamente sostenere che la dimensione simbolica non giochi per lui alcun ruolo. L’etica ha, per Sottofattori, una sua relativa autonomia e deve organizzarsi in forma simbolicamente coerente. Ciò che intendo dire è che per Sottofattori il discorso etico è un discorso tra gli altri, una mera declinazione dell’ordine simbolico. È essenziale, perché non c’è agire e comprendere umano senza questo livello, ma la sua rilevanza e il suo criterio di validità è misurata da Sottofattori in termini pragmatici. In sostanza, laddove Singer, Regan o Francione considerano centrale la coerenza del “messaggio” antispecista poiché per essi la coerenza discorsiva ha un valore di verità, per Sottofattori la coerenza discorsiva ha un’efficacia pratica.

[28] Per il concetto di “antispecismo di prima generazione” vedi M. Filippi – F. Trasatti (a cura di), Nell’Albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, pp. 9–19.

[29] A questo livello del discorso non è in questione ancora la natura di tale progetto politico che qui lasciamo indeterminata: il discorso che stiamo facendo non dipende dal tipo di organizzazione del soggetto politico ma dal fatto che il movimento (caratterizzato da un’indistinta azione di piccoli gruppi) arrivi a porsi il problema dell’organizzazione e dei suoi compiti politici. Siamo per altro ben lontani anche da questa ipotesi minima. Cfr. Collettivo Rinascita Animalista, Uomini, Animali, Animalisti – I soggetti della “Questione Animale”.

[30] In un’osservazione privata, Sottofattori denuncia il fatto che così facendo gli AI rendono “dipendente” l’interesse animale da quello umano. Ma, come si vede, si tratta di un’obiezione che non riguarda la forma discorsiva degli AI bensì il modo in cui essi vengono per lo più usati attualmente e l’effetto che essi producono nella coscienza media. E queste sono considerazioni empiriche e tattiche che non dovrebbero essere prese in considerazione a livello di analisi formale delle strutture discorsive.

[32] Ciò non significa che tale modello avrebbe natura “idillica” e che gli interessi umani e non-umani cesserebbero per incanto di configgere. Significa, più semplicemente, che in un modello sociale non specista l’interesse umano non sarebbe in quanto tale e sempre l’interesse prevalente.

[33] A. Sottofattori, Sugli argomenti indiretti e su quelli diretti, cit., p. 64.

[34] Esattamente il contrario di quanto sostiene la Perlo secondo cui le attività in favore degli interessi umani “non dovrebbero essere presentate come una componente della questione dei diritti animali”. K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 65.

[35] Si tratta, a scanso di equivoci, di un modello sociale tendenziale ed in progress, non certo della pretesa auto contraddittoria di descrivere e prescrivere nei dettagli come si configurerà una società liberata.

[36] Obiezioni che si trovano regolarmente formulate già nel saggio della Perlo: cfr., ad es., K. Perlo, Argomenti estrinseci e argomenti intrinseci, cit., p. 66 e p. 68.

[37] È chiaro che possono anche esserci istanze umane che non rientrano in nessun modo in questo modello e che dunque non potranno costituire un’area di interesse politico per il movimento antispecista. La questione va approfondita e trattata caso per caso.

Comments
2 Responses to “La disputa sugli argomenti indiretti: un falso problema”
  1. michele ha detto:

    l’articolo è interessantissimo, e non avendo la competenza per affrontarlo in maniera analitica, faccio solo un’ ossservazione:
    Il concetto di massa critica resta per me fondamentale; ammesso che ci sia interdipendenza tra teoria e pratica, o addirittura che la teoria segua alla pratica (gli uomini prima mangiano la carne e poi dicono che gli animali non hanno valore, ecc.) bisogna considerare un aspetto che la compagine dell’ animalismo sociopolitico di “Liberazioni” non considera: la specificità della questione animale, non assimilabile a nessuno dei movimenti di liberazione che hanno contrassegnato il mondo moderno. La rivoluzione inglese o francese è stata certo possibile perché lo sviluppo di forze produttive si era reso incompatibile con l’economia feudale, ma lì si trattava di un processo oggettivo in cui l’interesse umano (di una singola classe) veniva frustrato e quindi l’azione era inevitabile; nel processo di costruzione della società antispecista, purtroppo, non c’è nessun interesse umano in generale o di un particolare classe sociale ad essere minacciato, anzi avviene proprio il contrario: alla stragrande maggioranza della umanità in senso “prepolitico”, se non a tutta, lo specismo conviene (la carne è buona, la vivisezione ci salva ecc.); per cui credo che per ora bisogna agire in tutti i modi possibili con AD E AI per convertire la gente, a prescindere addirittura dal contenuto di verità del discorso indiretto, fino ad arrivare ad un punto di transizione di fase in cui ci piace pensare, in un lontano futuro, la massa critica potrà finalmente mettere in moto dei meccanismi funzionali al cambiamento antispecista.

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  1. […] cuore e non sui suoi risultati. Per chi cede al “ricatto morale dello specismo” l’importante, come scrissi tempo fa, è l’intenzione, non l’effetto che un’azione produce sul reale. A questo si è ridotto […]