Ambientalismo, animalismo, zoofilia, antispecismo
di Rita Ciatti
La differenza tra animalismo, zoofilia, antispecismo, ambientalismo dovrebbe essere scontata, ma di fatto non lo è per tutti e quindi proverò a dare sinteticamente alcune delucidazioni in merito[1].
L’ambientalismo mira a ripristinare e/o mantenere l’equilibrio dell’ecosistema (sia locale che globale). In poche parole gli ambientalisti non sono contro la caccia, la pesca, lo sfruttamento delle risorse del pianeta (compresi gli animali) di default, ma limitatamente al pericolo che queste attività possano mettere a rischio alcune specie, danneggiare l’equilibrio flora/fauna o causare inquinamento (inquinamento falde acquifere, dell’aria ecc.). All’ambientalismo non interessa la singola vita in sé, a patto che la specie cui appartiene non sia a rischio d’estinzione. La pesca, la caccia, gli allevamenti debbono poter essere sostenibili, ossia appunto non creare scompensi a livello di mantenimento dell’equilibrio ecologico. La pesca e la caccia selvaggia invece non vanno bene. Questa è anche ad esempio la politica di Greenpeace che si premura di salvare le balene e di sensibilizzare la gente ad acquistare tonno pescato in maniera sostenibile. Ovviamente anche molti ambientalisti vedono di buon occhio la scelta vegetariana o vegana, ed anzi consigliano di ridurre il consumo di prodotti animali, ma non ritengono che mangiare animali sia assolutamente sbagliato. Agli ambientalisti interessa il benessere del pianeta nel complesso, ma se lo sfruttamento e morte della singola vita non incide su questo, allora non ha importanza. Uccidere una formica, visto che non mette a rischio la specie, è un male minore. Così allevare polli o vitelli. Purché appunto, lo si faccia in maniera sostenibile (ossia tale da non smottare il terreno su cui si tiene in equilibrio il pianeta).
Conosco tantissime persone che si definiscono ambientaliste e di fatto si preoccupano tantissimo degli effetti delle loro azioni cercando di ridurre il più possibile l’impatto del loro stile di vita sull’ambiente: fanno la raccolta differenziata, non sprecano le risorse idriche, sono contro il nucleare, usano poco o niente la macchina, si interessano alle energie alternative ecc. però continuano ad indossare scarpe in pelle, a portare i loro figli allo zoo, a mangiare carne e pesce (pure se magari sarà carne “biologica” o pesce pescato in maniera sostenibile): queste persone sono ambientaliste, ma non animaliste. Mi sembra ovvio che invece l’animalista autentico non potrà non essere anche ambientalista perché se la sua battaglia è quella finalizzata a vedere un giorno tutti gli animali liberi nel loro habitat, ci terrà a preservare questo habitat, così come il proprio. Il mantenimento dell’ecosistema in condizioni sane ed ottimali è necessario per preservare la vita della fauna e della flora, finanche del più piccolo insetto, visto che tutto è correlato. La regola numero uno dell’ambiente è che tutto è correlato.
L’animalismo a sua volta viene spesso confuso con quell’atteggiamento di cura e protezione verso determinate specie – in genere le cosiddette specie d’affezione, ma potrebbe includerne anche altre, come i rettili ad esempio – che è tipico invece della zoofilia (ossia, amore per gli animali). L’amore per gli animali o, come spesso accade, per il proprio animale, non necessariamente collima con un’istanza di liberazione. Anzi, la vecchietta che tiene il canarino in gabbia è sicurissima di riversare su di lui tutto il proprio affetto; così come la signora che veste il cagnolino con abiti firmati e gli mette persino gli stivaletti per non fargli sporcare le zampette, è la stessa che poi una volta a casa si aprirà la confezione di prosciutto per prepararsi un bel panino. E il ragazzo che acquista il pitone in un negozio e lo tiene chiuso dentro una teca dandogli topolini vivi in pasto e che giurerebbe di amare alla follia il proprio animale, può dirsi animalista? Ovvio che no!
La gattara che ama i gatti, ma mangia il pollo, è animalista? No, sempre e ancora no!
Il cacciatore che si dichiara amante degli animali (quelli cui spara!), dei propri cani da caccia e rispettoso della natura, può dirsi animalista? Non fatemi ridere, per favore!
Chi pratica equitazione e si sacrifica ogni giorno (con la pioggia, la neve, il vento, il sole, la nebbia) per montare, strigliare, nutrire il proprio cavallo – il proprio cavallo che adora alla follia e per il quale darebbe la propria vita – è animalista? No, se poi va a casa e mangia altri animali o se sostiene attività come il palio e si veste con scarpe di pelle.
Già il verbo “amare” viene usato spesso a sproposito, confondendosi con la cura spesso ossessiva, con il possesso verso un altro essere, con la gelosia al fine di preservare l’unicità di una relazione, ma comunque sia, amare il proprio animale o una determinata specie non è animalismo, bensì zoofilia.Tanti si definiscono amanti degli animali, ma ad approfondire un pochino scopriamo che essi amano solo determinate specie: cani, gatti, criceti, furetti ed altre cosiddette d’affezione o anche ammirano i grandi felini, i primati e si accontentano di soddisfare il proprio amore osservandoli con meraviglia da dietro le sbarre: quelle dellle gabbie in cui questi esseri viventi sono rinchiusi affinché gente ignara della complessità del termine “amare” possa dire: “ooohhh, quanto amo le tigri, sono i miei animali preferiti!”. Questo NON è animalismo! È zoofilia.
L’animalismo invece, e qui veniamo al punto, è quella pratica e prassi che mira alla liberazione degli animali, alla fine del loro sfruttamento e all’ottenimento dei loro diritti ad essere rispettati, tutelati ecc.; va da sé che un vero animalista non mangerà quegli esseri senzienti che mira a liberare. Né incentiverà – anzi, si darà da fare per abolirle definitivamente – tutte quelle pratiche ed attività in cui l’animale è ridotto a cosa, a mera risorsa rinnovabile: quindi dirà no ai circhi, ad ogni tipo di allevamento, alla sperimentazione animale, agli acquari, agli zoo ecc..
Il limite dell’animalismo è che esso in genere non mira ad una trasformazione radicale della società, ma pretenderrebbe di abolire lo sfruttamento degli animali pur lasciando inalterato il sistema vigente, convinto che basterà informare e sensibilizzare la massa sulla sofferenza degli animali per far sì che essa smetta di sfruttare gli animali. In poche parole spererebbe – in buonissima fede, ché qui non si vuole certo biasimare chi si adopera per tale nobilissimo ideale – di riuscire ad aprire tutte le gabbie una volta che avrà avuto luogo un’evoluzione di tipo morale per cui ogni individuo si renderà conto che non ha diritto di uccidere le altre specie. Per l’animalista lo sfruttamento degli animali è un pregiudizio morale, quel pregiudizio nato in seno alla cultura in cui è nato per cui viene dato per scontato e considerato “normale” cibarsi o sfruttare le altre specie. Ora, in parte ha ragione. Verissimo che la prassi di sfruttare gli animali è culturale, ma è altrettanto ingenuo pensare di estirparla semplicemente prendendone atto.
Ed è qui che entra finalmente in gioco l’antispecismo. L’antispecismo va oltre l’istanza di liberazione degli animali tutti – ché non discrimina tra animali umani e non umani, cosa che invece l’animalista potrebbe fare, con quel suo spesso macchiarsi di razzismo e pregiudizio verso altri popoli, in primis verso la propria specie d’appartenenza, lasciando emergere tratti di una misantropia nemmeno troppo velata, lanciandosi in invettive di odio verso altri umani che egli additerebbe come responsabili della pratica di maltrattare gli animali, alla ricerca di un capro espiatorio verso il quale riversare tutta la propria rabbia, amarezza, delusione – mira infatti a decostruire radicalmente l’intero sistema entro il quale – nel corso dei secoli, quindi da una prospettiva che è storica, sociale, antropologica e politica insieme – lo sfruttamento del vivente si è strutturato.
Che significa? Ve lo spiego con un esempio. Molti si ostinano a non voler riconoscere Michela Vittoria Brambilla come animalista. Così come a non voler credere possibile un animalismo di una certa destra liberista. Invece secondo me un animalismo di destra di questo tipo è possibilissimo. Ma non l’antispecismo. L’animalismo infatti, come abbiamo visto, mira a liberare gli animali non umani, pur pensando ingenuamente di poter lasciare inalterato l’attuale sistema capitalista entro il quale avviene e si è radicata la prassi dello sfruttamento del vivente. Non è quindi affatto inusuale vedere animalisti fautori e sostenitori del libero mercato e del capitalismo più sfrenato. Così si inneggia a non abbandonare i cuccioli dall’alto della proprie torre d’avorio dove tutto rimane inalterato. Si propugna lo stile di vita vegano in ottemperanza alle regole del libero mercato. Si vorrebbero liberare tutte le gabbie e poi fotografare il successo con l’ennesimo prodotto tecnologico per produrre il quale migliaia di operai sono stati sfruttati. Come si può pensare di liberare gli animali, sostenendo al contempo lo sfruttamento della forza lavoro? Per l’animalista ingenuo non c’è contraddizione in questo. O meglio, forse non la vede, oppure se ne disinteressa. Molti animalisti odiano la specie umana, la stessa cui appartengono, ritenendola la causa di tutto il male che c’è nel mondo. In realtà, così come dalla relazione tra due persone si viene a costituire un terzo elemento che è l’essenza peculiare di ogni relazione, così quella radice di ogni male che è lo sfruttamento normalizzato del senziente è nata dall’interazione di una serie di fattori non strettamenti riconducibili alla semplice azione diretta del singolo. Quindi non basterà convincere il singolo (e la somma dei tanti singoli) ad abbandonare determinate pratiche per abolire lo sfruttamento del senziente. Esso, lo sfruttamento, non è la somma di due + due, è qualcosa di più che deve essere analizzato alla radice e quindi messo in discussione. Il punto è che mettere in discussione ciò che appare a tutti come ovvio è un compito difficilissimo. Compito che l’antispecismo si prefigge come concreto, possibile, valido, necessario. Non siamo matti. Noi semplicemente mettiamo in discussione questo sistema che ha normalizzato la follia della violenza.
All’ultima manifestazione animalista cui ho partecipato due persone su tre avevano l’I-Pad. Certo, l’animalista dirà che nessun animale è stato ucciso per realizzare tale oggetto tecnologico. Non è fatto di pelle animale, né di osso o altro.
L’antispecista radicale (non estremista, bensì appunto radicale, ossia che cerca di andare alle radici della questione) che è in me però non può tollerare la vista di un oggetto che è simbolo del capitalismo e consumismo attuale. La Apple è un marchio sporco, sporchissimo. Di recente si è scoperto che in alcuni stabilimenti asiatici gli operai venivano costretti a turni di lavoro durissimi, sottopagati, non tutelati dai diritti sindacali. Dico la Apple perché è il primo marchio che mi viene in mente. Ma potrei dirne altri.
Come si può definirsi antispecisti se poi con i propri acquisti si contribuisce allo sfruttamento del vivente? Ora, sia chiaro, io non intendo biasimare nessuno, ché qui nessuno di noi è puro, né le azioni di nessuno potrebbero mai dirsi ad “impatto zero”. Sono sicura che anche io contribuisco attraverso i miei acquisti allo sfruttamento di esseri viventi. Quando compro le scarpette in eco-pelle “made in china” ad esempio avrò evitato di partecipare dell sfruttamento degli animali, ma sicuramente avrò incrementato lo sfruttamento del lavoro minorile o femminile in quei paesi in cui non è regolamentato (in Cina, appunto).
Quello che sto cercando di dire è che però essere antispecisti significa essere consapevoli di questa complessa realtà di sfruttamento e volerla cambiare, destrutturare, decostruire. La visione antispecista è lungimirante, certo, alcuni, anzi molti, la definiscono utopica, idealista, donchisciottesca. Chi ci definisce così magari è altrettanto indignato, ma finisce per rassegnarsi, il che equivale a dire ad accettare. Si rende quindi complice in prima persona del sistema che egli stesso depreca volentieri. Chi ha i mezzi per fare, ma non agisce, si rende egli stesso colpevole.
Voler cambiare il sistema basato sullo sfruttamento del vivente non è utopico, affatto. Così come l’essere umano è riuscito a mettere su un certo tipo di società, ha anche le potenzialità per distruggerla o cambiarla.
Chi si rassegna non è che diviene più adulto perché ha finalmente compreso le dure leggi della realtà, semplicemente ha scelto la via più comoda, quella dell’ignavia, del mantenimento dello status quo. Ha scelto, per comodità, di stare dalla parte del Potere perché il Potere ha sempre in vista il mantenimento dello status quo.
L’opposizione, la lotta verrà quindi sempre additata come ribellione giovanile, come estremismo, tutti trucchetti semantici messi in atto dalla propaganda per mettere a tacere chi invece ha consapevolezza politica e desiderio di agire per imprimere un cambiamento.
Diffidate – mi rivolgo soprattutto ai giovani – di chi vi dice: “devi mettere la testa a posto, devi accettare la realtà”.
Mai omologarsi, mai accettare, sempre dubitare di tutto, sempre mettere tutto in discussione. Solo così ci si potrà allenare per il sano esercizio della critica del reale.
Vorranno sempre darvela a bere, ché la realtà è immodificabile e che prima la si accetta e prima si vive felici. No, prima la si accetta e prima si muore. In gabbia.
Nella gabbia di questa società che noi stessi abbiamo collaborato ad erigere. Ma così come abbiamo avuto la chiave per chiuderci dentro, abbiamo anche quella per aprirla. Basta sapere di che pasta siamo fatti!
[1] Ovviamente i confini entro i quali ho rinchiuso le categorie degli animalisti, ambientalisti, zoofili, antispecisti sono propedeutici ad un’estrema sintesi che qui ho voluto fare, quindi arbitrari, non corrispondenti – se non a grandi linee appunto – alla complessità dei fenomeni teorici e pratici che essi rappresentano.
Io, ad esempio, sono sia animalista che antispecista, ovviamente anche ambientalista nel senso che ho a cuore il benessere del pianeta tutto, ma vi includo quello di ogni singola vita e, in una certa misura, sono anche zoofila perché nutro un affetto sconfinato per i “miei” gatti e cane, senza che esso però vada a discapito di tutti gli altri. Anzi, direi che in me l’animalismo prima ed antispecismo poi è stata la conseguente evoluzione di un immaturo atteggiamento zoofilo. Da bambina amavo gli animali infatti, principalmente i cani, ma mangiavo altre specie. Insomma, come sempre la realtà è infinitamente complessa e credo che pochi quanto me detestino le approssimazioni e le riduzioni terminologiche, ma talvolta non si può fare a meno di usarle, soprattutto per evidenziare differenze.
Quello che è importante è sforzarsi di evolversi, di superare i confini, di lasciare che alcuni atteggiamenti acerbi poi abbiano tempo e modi di farsi più maturi e consapevoli.
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[…] quello senziente, si è strutturato. Si tratta di collocare la discriminazione e l’oppressione in una prospettiva storica, sociale, antropologica e politica insieme. Una delle idee fondamentali dell’antispecismo é che gli atteggiamenti e le pratiche […]
Questo articolo puù diventare un punto di riferimento dove indirizzare ogni domanda e chiarire un sacco di dubbi. grosso lavoro!
Grazie Annamaria. 🙂
A me, a dire il vero, sembrano delucidazioni un po’ scontate, però è vero che purtroppo si tende a fare confusione, specialmente tra animalismo, zoofilia ed antispecismo.
Non sai quante volte ho sentito dire dai cacciatori che loro amano gli animali e la natura.
E da signore impellicciate altrettanto!