Il cuoco (s)consiglia – Cosa mangia la rivoluzione
di Emilio Maggio
Discussione molto accesa a tavola. Maria è stata rimproverata da Leòn di sprecare munizioni rischiando incidenti per niente, al contrario, Leòn per Maria, non aveva un giusto spirito sulla priorità della propaganda con le armi. Le cose erano andate così:
dopo aver portato dei pacchi di volantini a dei compagni che occupavano una piccola azienda di confezioni, requisita per produrre divise per i nostri uomini al fronte, nel tornare a casa Maria aveva visto un uomo sulla quarantina prendere a calci un cucciolo di cane senza motivo. Così di punto in bianco, era scesa dalla bicicletta ed aveva spianato il fucile contro l’uomo che, sentendosi minacciato, aveva chiesto aiuto ai vicini mettendosi a strillare come un ossesso. Ne era nata una discussione presto degenerata in rissa. Ad un certo momento Maria sparò in aria e l’uomo che picchiava il cucciolo, a cui nel frattempo qualcuno aveva passato una pistola, minacciò Maria. Ne scaturì una sparatoria durante la quale questi rimase ferito di striscio ad una gamba. Maria allora fece un guinzaglio con un pezzo di corda e glielo mise intorno al collo, pretendendo in modo plateale di portarlo a fare pipì nei giardinetti lì vicino. Tutti ridevano e qualcuno battè le mani. Avrei preso volentieri le parti di Maria se non fossi stata preceduta da Juan, così la discussione prese subito un’altra strada.Juan sostenne, meravigliandomi, che se è vero che i cani sono in grado di sviluppare dei riflessi condizionati, allora anche loro hanno diritto di apprendere e sviluppare dei riflessi condizionati di natura rivoluzionaria e Maria aveva fatto bene a difenderlo dal suo aguzzino borghese. Per un attimo mi sembrò di essere a casa, di sentire mio padre parlare dei suoi studi di fisiologia animale, dell’entusiasmo delle prime scoperte, dei corsi del professor Ustinovic dell’Istituto Veterinario di Pietroburgo.
Pulpo a feria.
…..I polpi o polipi devono essere sempre freschissimi, diffidate di quelli scuri, vengono dall’Africa e sono più duri. Lavate a lungo in acqua corrente un polpo di circa un paio di chili, eliminate occhi, becco e vescichetta. Battetelo poi con un mazzuolo di legno per rammollirne le fibre. A casa mia la domestica lo andava a battere per devozione sui gradini di marmo della chiesa, per dodici volte. Tagliatelo a pezzi regolari e tuffatelo in una pentola di acqua bollente per almeno tre volte, cambiando ogni volta l’acqua. Poi sempre in acqua bollente, cuocetelo con una cipolla intera steccata con tre o quattro chiodi di garofano e una foglia d’alloro per non meno di due ore. Fuori dal fuoco tagliatelo, usando delle forbici, a pezzettini dopo averlo sgocciolato. A casa mia si usava un asse di legno, lo si sistemava sull’asse e lo si condiva con sale grosso, peperoncino dolce, un’abbondante bicchiere d’olio di prima qualità e due spicchi d’aglio schiacciati.[1]
Questo che avete appena letto è un breve estratto da La cuoca di Buenaventura Durruti, un diario in guisa di ricettario scritto e redatto da Nadine, militante rivoluzionaria e cuoca al seguito della colonna Durruti, l’esercito di combattenti anarchici che dal 1932 al 1939 lottarono, militarmente e politicamente, insieme ad altre componenti dei partiti storici della sinistra e alle Brigate Internazionali, per instaurare la democrazia in Spagna, liberarla dal fascismo di Francisco Franco e avviare un processo rivoluzionario che avrebbe portato alla riappropriazione dei mezzi di produzione detenuti fino ad allora dall’oligarchia industriale e la redistribuzione delle terre confiscate ai latifondisti. La lotta di classe avrebbe ridato dignità alle esistenze di milioni di proletari, operai e contadini.
Queste sacrosante rivendicazioni che rispondono a reali bisogni di giustizia sociale non possono però legittimare abitudini e consuetudini alimentari che poco hanno di rivoluzionario.
Tutte le attenuanti del caso, siano esse di natura storica che politica- e cioè le precarie condizioni di vita che i combattenti rivoluzionari erano costretti a sostenere sui vari fronti di guerra, l’eccezionalità del momento storico che il paese stava vivendo, il fatto che una sensibilità morale nei confronti delle altre specie viventi fosse
lontanissima dagli orizzonti ideali delle varie organizzazioni sindacali e dei movimenti socialisti, comunisti e anarchici, la stereotipata identificazione del vegetarismo con le esotiche religioni del lontano Oriente e last but not least sicuramente il fatto che la dieta carnea non aveva ancora assunto la dimensione del consumo compulsivo conseguito alla produzione industriale degli allevamenti intensivi che caratterizzeranno invece la dieta alimentare degli anni del boom economico- non devono però giustificare il fatto che il mangiare è anche in questo caso inteso come feroce ritualità culturale. Il brano da me scelto, non casualmente, disvela inconsapevolmente l’ambizione di mantenere un decor culinario che garantisca la giusta rispettabilità a rimanere civilmente umani, anche in condizioni di estrema precarietà come quelli di una guerra civile, adattando alla maniera rivoluzionaria proprio quei costumi decadenti e borghesi che si voleva combattere. La compassione di Maria nei confronti del cane preso a calci e la prodigiosa intuizione di Juan nell’equiparare il maltrattamento animale allo sfruttamento capitalista non impediscono a Nadine, cuoca e narratrice, di rievocare liricamente una crudelissima ricetta, pur se ammantata dall’aura della tradizione.
Tutto ciò, senza comunque dimenticare le centinaia di migliaia di vittime causate dal terrore fascista e nazista che represse nel sangue il desiderio di libertà e di democrazia e il sogno di cambiamento di un intero popolo.
[1] Anonimo, La cuoca di Buenaventura Durruti. La cucina spagnola al tempo della guerra civile. Ricette e ricordi, pref. e trad. di Luigi Veronelli, ed. Derive e Approdi, Roma 2002, pag.35-37
Eh già, ottime riflessioni le tue.
Non si può fare la rivoluzione contro l’oppressore (quale esso sia) con un panino al prosciutto in mano.
grazie per la tua condivisione.Quello che sto cercando di portare alla luce e’ come la gastronomia sia da intendersi come tecnica alimentare e rito conviviale influenzata da contesti storia relazioni economiche e perfino conflitti sociali.Il mio intento e’ evidenziare come ‘il faut bien manger’ tanto per citare il solito Derrida sia appunto ‘il calcolo del soggetto’,cioe’ il requisito necessario affinche’ l’umano partecipi attivamente allo sviluppo della soggettivita’ su cui si fonda la civilta’.E non mi riferisco solo al mangiar carne.Tutti i movimenti portatori di dissenso nei confronti del potere costituito,gia’ alla fine del XIX secolo,dalle prime esperienze di comunitarismo sociale fino alle controculture degli anni 60/70 del Novecento passando per le grandi rivoluzioni socialiste hanno posto la questione non solo di un’alimentazione alternativa, caratterizzata cioe’ dalla sostenibilita,l’equita’e la redistribuzione del cibo,ma anche di un diverso modo di ‘stare a tavola’.Ritengo opportuno proprio lavorare sulle contraddizioni che ‘cucine del popolo’,’cucine avanguardiste e letterarie’,’utopiste’,’rivoluzionarie’,’macrobiotiche’ e perfino ‘vegane’ hanno irrimediabilmente nella loro stessa modalita’ di farsi cultura.