Muri – I sogni fuori e dentro il carcere
di Nujud Qitta
Venticinque metri di vernice nera sul muro bianco incerto dell’enorme complesso penitenziario Rebibbia a Roma aprono una ferita tra un esterno pieno di contraddizioni e un interno misterioso e insondabile. “E’ inutile che vivi fuori se sei morto dentro” è la scritta cubitale che si conclude con la A cerchiata di Anarchia. E’ apparsa durante la notte ed è stata notata dai quotidiani locali perché suscita dubbi sulla sorveglianza e la sicurezza di muri e recinzioni che circondano il carcere e lo separano dalla città. Ciò che colpisce me invece è la dualità fuori/dentro, è l’improvvisa netta tangibile idea che non ci sia un fuori senza un dentro o che comunque i due concetti siano profondamente interscambiabili. Giusto un anno fa, i lettori italiani si sono entusiasmati per Dentro di Sandro Bonvissuto [1], il racconto dell’esperienza carceraria dell’autore dove l’immagine stessa di interiorità/esteriorità tende a rarefarsi fino a presentare il dentro/fuori come unico spazio aperto alle emozioni della vita.
Ma dalla parte di chi è ancora dietro quel muro qual è il punto d’incontro tra il dentro e il fuori? E’ il sogno della giustizia. Il 50° anniversario del discorso conosciuto come I Have a Dream di Martin Luther King è rimbalzato sui media tradizionali in tutta la sua potenza fino ai detenuti (i quali normalmente non hanno accesso alla rete Internet), aprendo spazi a una solidarietà che sembra attendere solo di essere risvegliata.
Poche volte, ma piene di significato, gli animali fanno da trait-d’union tra il fuori sempre sognato e il dentro spesso poco definito. Scrive Annamaria Manzoni – autrice anche del bellissimo Noi abbiamo un sogno – nel suo saggio Compagni di cella [2]: “Se è vero che la grande maggioranza delle persone risente positivamente del rapporto con il suo animale, che fa da completamento all’articolazione delle relazioni familiari e sociali, tanto più importante tale presenza risulterà per le persone detenute, che si trovano in una situazione di durezza esistenziale, di solitudine rispetto alle relazioni affettive significative”.
Un bisogno d’affetto confermato chiaramente da un detenuto: “In carcere la prima cosa che ti tolgono è l’affettività. Tutti parlano della libertà, e tanti non sanno nemmeno cos’è. E’ proprio l’affettività negata – il contatto fisico, la quotidianità, la condivisione con parenti e amici – che viene subito percepità e colpisce dolorosamente noi reclusi qui dentro”.
Se il sogno è quello di aprire ogni gabbia, saranno incluse le carceri come i mattatoi. La fiaccolata in programma il 5 ottobre prossimo davanti al macello di Roma ricorda le veglie degli attivisti di fronte ai penitenziari americani per salvare la vita dei condannati a morte. La morte programmata si consuma all’alba, nei non-luoghi – i luoghi asettici dove non esistono sentimenti – in una serie infinita e irrefrenabile di numeri, nell’azzeramento dell’individuo. Chiudere i non luoghi è il nostro sogno per non morire dentro anche noi, nell’indifferenza.
[1] Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi 2012.
[2] Annamaria Manzoni, In direzione contraria, Sonda 2009
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