Soltanto per loro?
di Serena Contardi
Perché i re sono senza pietà per i propri sudditi? Perché sono convinti che non saranno mai uomini. Perché i ricchi sono così duri con i poveri? Perché non hanno paura di cadere in povertà. Perché la nobiltà nutre un così grande disprezzo per il popolo? Perché un nobile non sarà mai un plebeo.[…] Non abituate dunque il vostro allievo a guardare dall’alto della sua gloria i dolori degli infelici, le penose fatiche dei miseri: non sperate di insegnargli a compiangerli, se li considera estranei alla propria esistenza.
(Jean-Jacques Rousseau, Emilio)
Già in Animal Liberation Singer sostiene la battaglia che si compie in nome degli animali abbia la caratteristica peculiare di una non coincidenza fra il soggetto che attua la liberazione e il soggetto che deve venire liberato, e si configuri come la sollecitazione più altruistica che la storia abbia mai conosciuto. Notando soltanto en passant che Singer, probabilmente, ha avuto la fortuna di non incontrare sulla sua strada quelle mefistofeliche creature che sono i nietzschiani, i quali gli rimproverebbero che l’altruismo, pure quello verso gli esseri più inermi, non è altro che una forma sommamente raffinata di egoismo, mi permetto molto umilmente di dissentire. È da tempo che posizioni di questo genere mi procurano un certo disagio, un disagio avvertito innanzitutto con lo stomaco, e che al principio neppure riuscivo a spiegare: quella che tenterò, nelle pagine a seguire, è una disamina del mio mal di pancia. Operazione arrischiata e rischiosa, direi, non tanto per l’eventualità di incorrere nel biasimo di una bene educata comunità di studiosi – è un organo, la pancia, al quale è ingiustamente riconosciuta scarsa dignità filosofica – , quanto per la disapprovazione che potrebbe suscitare presso una comunità assai più severa e intransigente: quella degli animalisti. Il problema della pancia, in questo secondo caso, è che si tratta della mia pancia. L’accusa più terribile, terribilissima, che può gravitare sulla testa di chi scrive di animali, è infatti quella di parlare di sé: non è un caso ce la si rimbalzi a vicenda a mo’ di patata bollente, spaventati dalla possibilità che possa dire qualcosa di vero. Parlare di sé, oltre che segno di un’intollerabile impudicizia, è contrario alla deontologia: figuratevi parlare del proprio ombelico! L’unica cosa seria da fare per i nostri fratelli animali è battersi il petto e recitare sommessamente un actus contritionis: rinunciare a sé, spolparsi di emozioni, sentimenti, desideri, svuotarsi completamente per poter accogliere le loro richieste silenziose e sottoporle al tribunale del mondo. Annullarsi. Farsi involucro, recipiente, corpo espressivo di corpi altrui. Una bella immagine, nonostante il pesante retrogusto cattolico, nonostante…quel puzzo di sacrificio – cos’era, Cristo, se non ricettacolo purissimo? Nulla più. Questo, credo, per almeno due ordini di motivi: non è mai possibile né desiderabile disfarsi della propria ombra; le loro richieste sono tutt’altro che silenziose. Gli animali fuggono, caricano, insorgono. Si rifiutano di mangiare, lavorare o riprodursi. Mordono, graffiano, scalciano e talvolta uccidono. Jason Hribal ha addirittura coniato l’espressione “Resistenza animale”, suggerendo con ciò che essi siano già impegnati in un proprio movimento sociale, che dovremmo riconoscere come tale. Insomma gli animali parlano eccome: semplicemente, non vengono ascoltati e soccombono (abbandonare il nostro punto di vista per calarsi totalmente nel loro, come esorta qualcuno, significa venire paralizzati dal dolore ed essere impediti in ogni possibile progettualità, cioè soccombere con loro). Affermare che non abbiano voce è falso. Affermare che proprio in virtù di questo essi debbano venire prima di tutti gli altri soggetti oppressi, perché non c’è alcun gruppo umano che subisca quello che subiscono loro e perché volente o nolente siamo tutti complici del male che viene loro inflitto, è anch’esso falso. Vediamo perché.
Benché, a parole, l’antispecismo cosiddetto etico sia lontano dai fasti degli scorsi decenni, sorpassato dalle analisi materiali di un approccio di tipo politico, esso mantiene, nei pensieri, nelle pratiche e nelle omissioni, un primato indiscusso. Il suo immenso limite è quello di assumere categorie irriflesse, assemblarle tra loro perché ne risulti una teoria logicamente coerente, e poi, dopo che si è lavorato in gran separazione, pretendere che la realtà combaci perfettamente alla rete dei concetti. Che la teoria rimanga inadeguata per leggere e orientare determinati fenomeni – una conseguenza inevitabile per ogni pensiero che rimanga cieco alle mediazioni storiche e sociali in cui è immerso – , sembra non costituire un problema degno di essere preso in considerazione. Anzi, tanto più si presentano dubbi, incertezze, tentennamenti di ordine pratico, tanto più ci si rifugia nella plastica eleganza della teoria, lineare e consecutiva e incontaminata dall’affannosa impurezza della realtà concreta. Ci troviamo ovviamente nel più assoluto idealismo: «Se i fatti non concordano con la Teoria, tanto peggio per i Fatti» (Hegel). Ritengo sia solo in virtù di questo che astratti proclami sull’uguaglianza tra uomo e animale possano essere buttati lì come scacciaspiriti e impiegati per risolvere, schivandola, ogni possibile contraddizione; sfociando, ad esempio, nell’ostinata idiozia dei paragoni con l’Olocausto: quasi che rischiare di apparire specisti sia ormai tanto peggio di apparire coglioni.
Risulta chiaro che in quest’ottica è del tutto vano sperare di poter decostruire quell’opposizione irrisolta tra uomo e animale che permea l’intera nostra cultura, o anche, molto più banalmente, comprendere come la stessa categoria di umano sia nient’altro che un’astrazione. Dal momento che parecchi antispecisti sono appassionati lettori di Derrida, si tratta di una circostanza davvero paradossale. La parola «animale», nota il filosofo francese, si configura come una potentissima trappola concettuale attraverso cui operiamo una vera e propria compressione ontologica [1] dell’infinita differenza animale nell’indifferenziazione più totale: dal grande elefante alla minuscola formica, dal leone che preda all’impala che è predata, dalla balena che canta al rettile che sibila, ogni creatura di terra, aria, acqua. Seguendo Derrida, Carol Adams denomina «falsi termini collettivi» quelle parole che «si riferiscono a cose come l’acqua o i colori: non importa quanta acqua si abbia a disposizione o in che tipo di recipiente la si conservi: è sempre acqua», ma nondimeno indicano gruppi di esseri irripetibili, sensibili e vulnerabili. Riducendo un essere singolare, con una sua propria vita, a «qualcosa di indistinto, privo di unicità e individualità» [2], i falsi termini collettivi spalancano le porte all’esplosione della violenza, che avviene dapprima al livello del linguaggio, per poi tradursi, com’è tristemente noto, nella pratica conseguente. Adams ha in mente il termine «carne», il famoso referente assente, ma è chiaro che con un piccolo slittamento di significato ciò possa tranquillamente valere per la voce «animale» che scandalizzava Derrida: la condensazione di individui tanto diversi in un unico nome sortisce il medesimo effetto straniante. Citando Philip Gourevitch a proposito del genocidio in Ruanda, la filosofa americana mostra che questo stesso meccanismo si riproduce all’interno dei nostri confini di specie, per quanto concerne variabili come la razza o l’etnia:
[…]il crimine sta nell’idea, le vittime sono viste dai loro carnefici non come singole persone, ma come un’unica popolazione. Quando un gruppo è visto come una popolazione, prende il sopravvento un pensiero stereotipato e propagandistico. [3]
Tuttavia, non si avvede di come la stessa categoria di «umanità» possa, in qualità di termine collettivo, farsi veicolo di nuova violenza: verso esseri umani, da parte di altri esseri umani. Affermo che questa violenza – la violenza sottile di un pensiero stereotipato – è agita dagli stessi animalisti, quando sostengono candidamente enormità come «il volto di un maiale lacrimante prima della gogna, vale – da solo – più di tutti i sogni dell’umanità che conquista (distruggendoli) mari, monti e pianeti» [4]. Di quale umanità stiamo infatti parlando? Basta l’appartenenza alla specie homo sapiens per farci retrocedere tutti e tutte dietro al volto del maiale lacrimante? Basta questo, senza alcuna considerazione ulteriore per il ceto, la razza, il sesso, la distribuzione geopolitica della vulnerabilità dei corpi? Nessuna differenza tra chi perpetra l’offesa e chi la subisce, tra chi bombarda e chi è bombardato, tra chi muore col ventre sfondato e chi se lo ritrova svuotato? E in virtù di cosa?
Riguardo a questa mistica di una «specie umana» compatta e monolitica (nonché fondamentalmente malvagia) rimane insuperabile la celebre e mai abbastanza compresa analisi di Murray Bookchin:
Non dimenticherò tanto facilmente la mostra “ambientalista” organizzata negli anni ’70 dal Museo di Storia Naturale di quella città [New York], con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, portava l’incredibile titolo “L’animale più pericoloso della Terra”, e consisteva unicamente di un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte ad esso.
Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano scenografie rappresentanti gli staff dirigenziali delle industrie che decidono di disboscare montagne intere o funzionari governativi che agiscono in collusione con essi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui come tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, ad essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri tanto quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una mitica “specie umana” rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali sono modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono magre ed isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali, le burocrazie aggressive e le manifestazioni violente dello Stato. [5]
Si sarebbe tentati di parafrasare Derrida: Umanità, che parola!
Esternazioni come quella che ho precedentemente riportata possono scaturire soltanto da una sopravvalutazione fuorviante di un sistema astratto e miniaturizzato come quello dell’etica formale: la proposizione si giustifica col fatto che un essere umano è in grado, virtualmente, di richiedere e negoziare da sé i propri diritti, mentre un maiale, evidentemente, no (di qui la precedenza da attribuirsi al secondo). Questo giudizio, apparentemente inattaccabile e valido nell’empireo delle idee filosofiche, si dimostra materialmente falso. È un segreto di Pulcinella – per quanto impenetrabile ai liberali – che diritti formali e diritti materiali non coincidano: spesso, anzi, le conquiste legali di uguaglianza formale fra esseri umani non cambiano di una virgola le condizioni materiali di subordinazione di una larga parte di essi. I bambini argentini uccisi dalle sperimentazioni di vaccini della GSK sono davvero dei privilegiati rispetto alle cavie ghigliottinate in un asettico laboratorio dell’Occidente ricco? Che differenza passa, in questo caso come in innumerevoli altri, fra uomini e topi? Dobbiamo ascrivere questi bambini all’umanità «che conquista (distruggendoli) mari, monti e pianeti», e preferire loro «il volto del maiale lacrimante prima della gogna»? Da quanto detto è evidente che non ha alcun senso ipostatizzare un termine intangibile come «uomo» e dichiarare la lotta allo sfruttamento debba essere combattuta con maggiori sforzi in difesa delle vittime di serie A (gli animali non umani), perché la stessa opposizione noi/loro viene rifluidificata non tanto dalla teoria antispecista che dovrebbe prefiggersi il compito di farlo, quanto da questo sistema impazzito che ci riduce a merce tutti quanti.
Io non sono qui soltanto per loro e una società diversa da questa la vorrei davvero per me e anche per me. Non vedo perché dovrei sparire, non vedo perché dovrei mettermi a tacere e parlare sempre e soltanto di loro o in veste loro, io che sono a tutti gli effetti una di loro, e in questo sconsolante presente non mi sento certo trionfalmente unita al carro degli oppressori. C’è qualcosa di eccessivamente nichilistico in questo, una vaga parentela con l’estinzionismo. Credo seriamente, con Enrico Donaggio, che ogni parola sugli animali dica inevitabilmente degli uomini [6]: perché siamo a tutti gli effetti animali, e dunque gli animali ci interessano, in senso ampio, anche quando ne parliamo come fossero alterità separate e distanti, ovvero quando ribadiamo, seppure in forma innocua o apparentemente innocua, il gesto della domesticazione, che è dominio e insieme rimozione di un’animalità che è innazitutto interna, o meglio che possiamo pensare e nominare come interna solo in seguito a questa violenza inflitta e auto-inflitta. Certo Donaggio non intende nulla di tutto ciò, alludendo piuttosto all’animalismo di stampo umanista di Lombardi Vallauri, il quale ritiene, riguardo alla questione animale, ne vada innazitutto del nostro onore. Ma non è detto questa forma di animalismo, stigmatizzata dai più come irrimediabilmente antropocentrica, sia meno vicina all’essenza della liberazione di quanto lo sia questo nuovo specismo verso l’essere umano.
[1] Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaka Book, Milano 2009.
[2] C. Adams, La guerra sulla compassione, in M. Filippi, F. Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 25.
[3] Ibidem, p. 26.
[4] L. Caffo, Il terzo antispecismo. Stato dell’arte e proposta teorica, http://www.minimaetmoralia.it/?p=7009.
[5] M. Bookchin, Per una società ecologica, Elèuthera, Milano 1989, pp. 18-19.
[6] Cfr. E. Donaggio, L’analogia oscena. La Shoah e lo sterminio degli animali in John M. Coetzee, ne «La società degli individui», n. 33, anno XI, 2008/3, pp. 53-67.
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