Al punto di arrivo comune. Intervista a Francesco Pullia.

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Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio”, edito da Mimesis, è il nuovo libro di Francesco Pullia, un lavoro che, come l’autore stesso tiene a precisare, scaturisce dal vissuto. “Altri esseri”, scrive l’autore, ci attorniano, convivono, impartendoci lezioni. Da loro ho imparato che ogni antropologia, davanti alla ricchezza della vita animale, s’infrange, s’immiserisce, si ridicolizza. Su di noi portiamo la responsabilità di sguardi, voci, scalpitii che ci esortano a superare, nel segno della compresenza, l’assurdità di uno scarto ontologico. Partire da noi per andare, oltre noi stessi, al punto di arrivo comune di una realtà liberata”. Lo abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande.

 

Partiamo innanzitutto dal titolo. Perché e qual è il “punto di arrivo comune”?

 Il titolo prende spunto da una frase di Aldo Capitini, il filosofo cui si deve una tra le elaborazioni più originali della nonviolenza, arricchendola di contenuti decisamente nuovi, di feconde “aggiunte” per ricorrere ad un termine a lui particolarmente caro. Penso, ad esempio, a temi come la compresenza dei morti e dei viventi, l’omnicrazia, l’Uno-Tutti (ben differente dall’Uno-Tutto dell’idealismo), alla concezione cioè di una socialità liberata e liberante cui tutti sono chiamati a concorrere, senza distinzione di specie e ognuno con la propria individualità. Nell’Uno-Tutti non c’è la massificazione totalizzante ma, al contrario, la piena e consapevole valorizzazione di ogni essere, assente (vale a dire, morto) incluso, il riscatto della e dalla marginalizzazione e la diuturna affermazione di una tensione creativa. Capitini, non va dimenticato, negli anni Trenta diede al vegetarianesimo una forte connotazione antifascista (“diventai vegetariano”,scrisse, proprio sotto il regime della violenza fascista che preparava la guerra perché pensavo che se si fosse imparato a risparmiare l’uccisione di animali, con maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini”) e, insieme ad un’altra straordinaria figura come Edmondo Marcucci, organizzò nel 1952 un convegno su “La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale” nel cui ambito si costituì la Società vegetariana italiana. La bellissima frase capitiniana che ha ispirato il titolo dice all’incirca: Accanto ad ogni essere, ci mettiamo in un’azione progressiva, e crediamo che quell’essere possa liberarsi e svolgersi a meglio e a più. Non guardiamo al punto di partenza che può essere diverso tra noi e lui, e pieno di limiti, ma al punto di arrivo comune, una realtà liberata che comprenda tutti”. Ecco quello su cui mi pare importante insistere: una realtà liberata che necessariamente debba comprendere tutti.

Una prospettiva, dunque, includente, non escludente…

Certamente. Siamo, come efficacemente sostiene Raimon Panikkar, interindipendenti. Ogni essere è legato all’altro, ogni individualità si arricchisce grazie all’altrui apporto. Si badi bene non solo e non tanto interdipendenti ma proprio interindipendenti. Ecco perché non può darsi liberazione se non in una chiave relazionale antispecista, coinvolgente, senza scarti, senza cesure, ogni essere senziente, ogni espressione di vita. In questo senso, l’umanesimo, cui non è esente il totalitarismo comunista, è barbarie perché, accentrando la propria visione nell’uomo, avalla l’esclusione, legittimandone lo sterminio, degli altri esseri. L’inganno antropocentrico, tanto enfatizzato dalla teologia cattolica dominante (dico dominante, prevalente, perché, per fortuna, esistono anche autori come Eugen Drewermann…), ha prodotto conseguenze nefaste su tutti i fronti, consentendo l’olocausto animale, giustificando la spoliazione, la dissezione, la distruzione dell’ecosistema, finendo inconsapevolmente per relegare lo stesso essere umano in un abissale, spettrale, solipsismo. L’alterità animale, di ogni altro animale non umano, ci chiama, ponendoci pesanti, ineludibili, interrogativi, ci invoca. Finora la risposta data dall’essere umano a questo appello è stata solo in termini d’illimitata violenza, e cioè di addomesticamento, controllo, imprigionamento, allevamento, fino alla soluzione goebbelsiana finale del mattatoio con la conseguente mercificazione di corpi e resti frantumati la cui appetibilità è indotta dall’ideologia carnista.

E, allora, che fare?

C’è una rivoluzione in corso che nasce dalla consapevolezza dell’urgenza di porre fine allo scarto ontologico, di ripensare lo stesso “diritto” (termine in sé quanto mai ambiguo) in una declinazione non antropocentrica. Una rivoluzione che non reca lo stigma delle grandi narrazioni criminogene e antiliberali che hanno, purtroppo, insanguinato il secolo scorso (e di cui ancora paghiamo le conseguenze), ma che è affermazione di speranza e attestazione di una svolta in divenire. Non può darsi rivoluzione se non a partire dall’individuo. Attenzione, però, a non cadere nella trappola dell’etica, con quanto di insidioso, sdrucciolevole, “umano, troppo umano”, finanche, consentitemelo, nietzscheanamente repellente il termine contiene e rap/presenta. La rivoluzione in corso è politica, non etica, perché pone questioni politiche. Il veganismo non ha nulla di etico, così come l’alternativa alla sperimentazione animale o la scelta di non indossare nell’abbigliamento capi derivati dalla recisione, dallo strazio di vite e di corpi. La filosofia di Capitini si coniuga qui con quella di Marcuse, con il Marcuse che, nel 1969, riconosceva pregnanza politica all’insorgere di una nuova sensibilità. La grande mobilitazione non tanto e non solo contro il lager di Green Hill quanto per un nuovo paradigma scientifico e per un cambiamento nel rapporto tra l’uomo e gli altri animali non può essere arrestata e prelude a un mutamento radicale. L’animalità è destino (e, quindi, destinazione) perché include la riappropriazione delle nostre origini, di una storia che ci accomuna alle altre forme di vita in questo pianeta. Gandhi ci ha spronato ad essere noi stessi quel cambiamento che auspichiamo nel mondo, cambiamento che, come il fallimento delle affabulazioni novecentesche insegna, non può essere imposto dall’esterno, ma deve coinvolgere e sconvolgere la nostra intimità. Non aspettiamoci niente da nessuna organizzazione. Cominciamo da subito, qui ed ora, perché il presente è l’unico tempo che ci spetta. Una rivoluzione sarà tanto più efficace quanto più metterà in gioco, in modo rizomatico, individualità. Non si tratta tanto di nutrire buoni sentimenti e/o cambiare la predisposizione d’animo nei confronti degli altri esseri quanto di rendersi conto della radicalità dello scontro in atto. In questo senso, lo stesso termine “animalismo” è decisamente insufficiente e inadeguato e anche l’antispecismo, se confinato ad un ambito per così dire “giuridico”, non riesce al giungere la nocciolo della questione. Si tratta, lo ripeto, di (ri)mettere in gioco la nostra esistenza, di reinventare la vita, di oltrepassare ogni tipo di limitante appartenenza.

Quindi, secondo te, persino parlare di “questione animale” può essere superficiale e fuorviante…

Esattamente. La cosiddetta “questione animale” non è altro che “questione dell’esistere” e l’esistenza non è di certo una prerogativa umana. Il Nietzsche che a Torino bacia il cavallo o la Luxemburg che dinanzi a un bufalo maltrattato, ferito, dice di piangere con le stesse lacrime di quello (“Io stavo lì e l’animale mi guardò, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime…”) ci hanno indicato il cammino da proseguire. Finché non esperiremo fino in fondo il tat tvam asi (tu sei quello) e non lo estenderemo a ogni manifestazione dell’essere nessuna rivoluzione sarà compiuta. Siamo sulla strada. Andiamo avanti, non voltiamoci, andiamo.

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