Vita da cavie. Intervista a Roberto Marchesini sul “benessere” degli animali da laboratorio
a cura di Jacopo Sabatini e Serena Contardi
In un tempo come questo, nel quale si fa un gran parlare di sperimentazione animale, ci pare ai molti sfugga un punto centrale. Preoccupati di stabilire dell’utilità o dell’inutilità scientifica della sperimentazione, nonché della sua difendibilità o indifendibilità etica, ci si dimentica di quelli che rimangono, loro malgrado, i veri protagonisti del dibattere: gli animali da laboratorio, a cui ogni giorno viene estorta la vita. Secondo i sostenitori della sperimentazione, le norme sul benessere animale garantirebbero un’esistenza più che dignitosa alle cavie, mentre gli animalisti si allucchettano nei laboratori paragonando sperimentazione e tortura. Ma come stanno realmente le cose? Abbiamo contattato l’etologo e zooantropologo Roberto Marchesini, che ha accettato di rispondere alle nostre domande.
Gli animali più utilizzati nei laboratori europei sono topi e ratti. Se per molte persone è facile comprendere quale sia la sofferenza che cani e gatti patiscono dalla reclusione e dalle sperimentazioni a cui sono sottoposti, più difficile è probabilmente immaginare ciò che può provare un topo o un ratto stabulato. Quali sono le intelligenze e le abilità caratteristiche dei topi e dei ratti? Quali le loro esigenze etologiche e fisiologiche?
Innanzitutto si tratta di animali dal comportamento sociale molto complesso, che pertanto sono abituati a vivere in gruppi che si organizzano sulla base di ruoli e di sistemiche relazionali che ovviamente richiedono una condizione di libertà nella scelta del gruppo e nell’espressione sociale. La separazione in gabbie singole o l’accatastamento in gruppi indefiniti provoca uno stress sociale altissimo che può sfociare in episodi di aggressività intraspecifica, automutilazioni, alterazioni del profilo endocrino e immunitario. Questo determina gravi alterazioni del metabolismo e del bioritmo che se non si traducono in manifestazioni cliniche non è perché non vi siano fenomeni di disfunzionalità interna ma solo per la breve vita di questi animali. In altri casi tuttavia si possono mostrare i segni clinici di queste distrofie nella perdita di pelo o nell’alterazione dei processi gastroenterici. Va inoltre sottolineato che questi animali comunicano soprattutto attraverso i sistemi olfattivi e feromonali, per cui un’emissione di feromoni di allarme passa direttamente da una gabbia a un’altra, anche senza un contatto diretto tra i due animali, e per di più persistono nell’ambiente, causando stati di angoscia, anche dopo l’incidenza dell’evento che ha causato paura o sofferenza.
Nonostante vi sia una grande quantità di letteratura scientifica che documenta lo stress, la paura e i comportamenti compulsivi di cui sono vittime gli animali da laboratorio, ci si sente spesso ripetere che le norme sul benessere animale sono molto severe: è vero, ad esempio, che topi e ratti vivono bene in spazi ristretti (a norma di legge il pavimento della gabbia in cui passano la loro più o meno breve esistenza fino a cinque topi è di nemmeno 18×19 cm; i ratti, molto più grandi dei topi, hanno disposizione una superficie di circa 30×27 cm, che a seconda del peso corporeo, può essere condivisa anche da quattro individui)?
I topi e i ratti sono animali che vivono in un ambiente ipogeo che viene letteralmente trasformato, quasi delle città sotterranee, per cui la stabulazione in gabbietta non ricorda nemmeno lontanamente l’ambiente filogenetico di queste specie. Si tratta di animali dall’intelligenza enigmistica, ossia portati a confrontarsi con i problemi e a essere particolarmente predisposti ai comportamenti esplorativi. Il tipo di vita che fanno è ovviamente deprivato di tutte quelle componenti che viceversa fanno parte di questa loro disposizione cognitiva. Il risultato inevitabile è la comparsa di comportamenti ridirettivi e sostitutivi, prodromi di espressioni compulsive e di stereotipie comportamentali. So che per certuni può sembrare eccessivo ma da un punto di vista meramente etologico una gabbietta per un ratto è molto più costrittiva, ossia lontana dalle aspettative e dal modello espressivo, di una prigione per un uomo. Il benessere animale viene molto spesso frainteso nell’idea che sia sufficiente uno spazio per il movimento, una quantità di cibo e di acqua adeguata, il riparo dalle intemperie, la prevenzione igienico-sanitaria… insomma i parametri del ricambio fisiologico, noti anche come canone di welfare. In realtà il benessere animale è riconducibile alla possibilità dell’animale di esprimere le tendenze generali del proprio etogramma, che significa non spazio motorio ma spazio espressivo, spazio che chiede come base dall’adeguatezza del contesto.
È vero che gli animali da laboratorio non patiscono le condizioni di stabulazione in quanto nati e vissuti da sempre in cattività? Una vita trascorsa tra stabulario e tavolo operatorio, grazie al nutrimento assicurato, è per topi e ratti preferibile a un’esistenza libera in natura, continuamente esposta a rischi di ogni tipo?
Seguendo il dettato darwiniano, ogni specie è il frutto di una filogenesi o storia evoluzionistica che ne ha conformato non solo le strutture morfologiche – istologiche e anatomiche – e la fisiologia ma altresì il profilo comportamentale. Pertanto se è vero che ogni animale organizza la propria identità individuale attraverso le esperienze in ontogenesi, è altresì vero che tale strutturazione del profilo non è la costruzione di repertori comportamentali ex nihilo ma l’organizzazione delle dotazioni innate. Continuare a pensare che l’individuo sia un foglio bianco su cui l’ambiente detta le coordinate identitarie è assolutamente erroneo. Per tale motivo, che sia nato libero o in cattività, l’individuo non dismette la veste specie specifica, non perde cioè la sua struttura coniugativa al mondo che lo porta a ricercare nel mondo determinati target e determinate condizioni. Un gatto per esempio non perde la sua motivazione predatoria se gli riempio la ciotola di cibo; tale tendenza definisce la “struttura intenzionale” del gatto, il modo cioè in cui il gatto si riferisce, è portato, è coniugato al mondo. Lo dimostra il fatto che il nostro felino esprimerà comunque il coreogramma predatorio, seppur sotto forma di gioco verso un target sostitutivo.
In un mondo in cui gli incontri con individui di specie diverse sono fortemente limitati e avvengono quasi esclusivamente in contesti stranianti, la nostra conoscenza degli altri animali è distorta e superficiale: atteggiamenti molto diffusi nel nostro modo di guardare agli eterospecifici sono il riduzionismo meccanicistico o l’umanizzazione (un’altra forma di riduzionismo). Altrettanto diffusa è la credenza che questi non siano dotati di coscienza (ma un analogo ragionamento viene proposto scomodando il concetto di autocoscienza): da tale premessa si fa spesso conseguire che gli animali sottoposti a esperimenti non soffrano o soffrano molto meno di noi perché non comprendono quanto sta loro accadendo. È veramente così?
Superare la visione cartesiana degli animali automata è assai più difficile ora che paradossalmente fino al XX secolo e il motivo è la formalizzazione che ne è stata fatta a opera del behaviorismo skinneriano, che ha trasformato l’animale in un burattino mosso da condizionamenti, e della psicoenergetica lorenziana, che ha visto nell’animale una sorta di pentola a pressione pronta a esprimere istintivamente in modo consumatorio degli automatismi innati. L’etologia cognitiva mette in discussione questi paradigmi e non affiancando semplicemente la facoltà di “essere-consapevoli-di” accanto a queste spiegazioni che vengono conservate, ma proprio rigettando tali modelli esplicativi ovvero quello behaviorista che sostiene che l’apprendimento dia luogo a condizionamenti e si svolga seconda lo schema triadico “stimolo-risposta-rinforzo”, quello psicoenergetico che ritiene l’innato non un range di virtualità ontogenetiche ma un catalogo di repertori prefissati le cui uniche varianti siano elicitato o no (acceso vs spento) oppure espresso o no, vale a dire istituzioni meccanicistiche che tolgono all’animale qualunque forma di soggettività. Affiancare la coscienza a un ente così pensato-spiegato significherebbe renderlo cosciente del proprio meccanicismo ed è ovviamente una stupidaggine. Gli animali sono soggetti e lo sono sia nelle situazioni di piena consapevolezza sia nelle situazioni o fasi inconsce, esattamente come noi che non ci trasformiamo in macchine quando dormiamo o nei comparti delle nostre attività elaborative inconsce. La sofferenza diventa più chiara ed esplicita nella coscienza, ma non è vero che si annulli nell’inconscio. A ogni buon conto è evidente che nelle attività di soggettività occorra focalizzare l’attenzione su uno stato, per cui il dibattito sulla consapevolezza è anacronistico e fuori luogo. Nel momento in cui ammetto una coscienza di stato – vale a dire di senzienza o di riflessività – è assurdo negare l’autocoscienza giacché sarebbe disarmonico e inutile un sistema capace di focalizzare i cambiamenti senza essere in grado di focalizzare ciò che si mantiene. Per cui: gli animali soffrono? Certo e molto spesso assai più di noi che in certi casi siamo in grado di capire e razionalizzare la situazione di compromissione in cui ci troviamo.
Nello specifico del nostro argomento, una questione rilevante crediamo sia quella della scarsa o nulla coscienza etologica tra gli sperimentatori su animali vivi. Ci pare indicativo il fatto che, ad esempio, un laureato in Scienze Biologiche e poi laureato magistrale in Biologia applicata alla ricerca biomedica all’Università degli Studi di Milano, non debba affrontare nei suoi cinque anni di studi nessuna disciplina riguardante il comportamento animale (meno che meno il comportamento, la mente e le esigenze degli animali su cui potrebbe compiere esperimenti in laboratorio).
http://www.cosp.unimi.it/offerta_didattica/614.htm
http://www.cosp.unimi.it/offerta_didattica/656.htm
Eppure, biologia ed etologia sono discipline intimamente connesse. Non c’è il rischio di degradare le individualità animali a grezzo materiale biologico? Nonostante le notevoli e feconde scoperte degli ultimi decenni, lo studio del comportamento e delle intelligenze animali è ancora considerato da molti un sapere scientifico marginale o trascurabile?
Ritengo che prevalga ancora la mentalità della res extensa, un’impostazione umanistica della ricerca scientifica, predarwinianamente predisposta a tracciare una netta linea di separazione tra l’essere umano e gli eterospecifici. È chiaro che una maggiore consapevolezza di “che cos’è un animale” e di cosa significhi “essere animali”, una consapevolezza inevitabilmente congiuntiva, renderebbe indigesta la prassi sperimentale stessa che si basa sulla trasformazione del non-umano in cosa-materiale da utilizzare. Il punto è proprio questo. La sperimentazione non si basa sul principio di utilità, che peraltro potrebbe benissimo essere applicato a tante altre pratiche, ma sulla reificazione dell’eterospecifico: se crolla questa inevitabilmente si aprono degli spazi di problematicità da cui non discenderebbe in modo diretto una rivalutazione etica della pratica ma una vera discussione etica sulla pratica, cosa che a oggi non è all’ordine del giorno. Lo si vede dalle risposte che ci vengono dai ricercatori coinvolti in questa prassi, che non sono affatto banali e ininfluenti, come taluni antivivisezionisti spesso credono, ma che non toccano nemmeno tangenzialmente il cardine su cui ruota tale pratica. In altre parole i due fronti non stanno dibattendo, nel senso pieno del termine, perché ciascuno parla di qualcos’altro. L’insegnamento del comportamento animale è negletto in tutte le facoltà, compresa quella di medicina veterinaria, dove rappresenta un’appendice alla fisiologia. Laddove si definisca uno straccio minimo di programma ci si basa sui modelli behavioristi formulati nel secondo decennio del Novecento e su quelli psicoenergetici del terzo decennio, si insegna cioè il condizionamento operante e l’espressione consumatoria sul target, quando le scienze cognitive e la neurobiologia hanno messo in soffitta tali modelli da almeno cinquant’anni. In una parola: è comodo non saper nulla del comportamento animale quando quello che si persegue è lo sfruttamento dell’animale.
Nei laboratori sono sempre più utilizzati topi geneticamente modificati per mimare i sintomi di alcune patologie umane. In particolare, si selezionano topi che sviluppino comportamenti somiglianti a quelli indotti da malattie psichiatriche e neurologiche. Qui ad esempio, è possibile ordinare (per 302 dollari) una coppia di topi con una modifica genetica che provoca nei due animali comportamenti sociali alterati, comportamenti ripetitivi autolesionistici, stati d’ansia incrementati. Come giudica questa pratica?
Un’inutile sofferenza. Ormai anche i più accaniti deterministi genetici hanno scoperto che l’espressione di un gene non è un fenomeno solipsistico, ma che è guidato epigeneticamente dall’ambiente che definisce se esprimerlo, quanto esprimerlo, quando esprimerlo. Se non fosse così dovremmo chiederci come mai se tutte le cellule del nostro organismo riportano l’intero genoma abbiamo una collezione di cellule tutte differenti tra loro e anche molto perché un epatocita non assomiglia a un linfocita, come un neurone non ricorda nemmeno lontanamente una miocellula. Dovremmo chiederci: come mai un omeobox deputato a costruire l’occhio umano se inserito in un moscerino dà origine a un occhio di moscerino? L’epigenetica ha smascherato l’insussistenza del determinismo genetico, ovviamente non della determinazione genetica. Quando si fanno questi esperimenti si sa bene di operare al buio e lo sanno per primi i ricercatori.
Esistono delle associazioni che si occupano del recupero e dell’adozione di animali da laboratorio sopravvissuti agli esperimenti e non più “utili” per i test (tra le più importanti La Collina dei Conigli e Vitadacani): quali consigli può dare a chi vuole prendersi cura di ratti o topi salvati su come contribuire al loro benessere e relazionarsi con loro?
Credo che siano iniziative encomiabili sia per il recupero in sé dell’animale sia per il messaggio che veicolano. È importante che queste associazioni abbiano al loro interno persone con ottime conoscenze circa l’etogramma degli animali in questione e in grado di operare un’analisi del profilo comportamentale di quell’individuo. Dico questo perché è evidente che l’esperienza vissuta provoca traumi e derive comportamentali che vanno emendate e compensate. Non si può pretendere di mettere un animale che ha avuto una certa storia semplicemente in quello che dovrebbe essere il suo ambiente naturale. Non ha le dotazioni per poterlo fare e ciò che ha maturato lo renderebbe disadattativo. Per questo ritengo che occorra unire l’amore alla competenza, che sono peraltro i due fattori che insieme contribuiscono a realizzare la cura.
La redazione di Asinus Novus desidera ringraziare Roberto Marchesini e Eleonora Adorni per la cortesia e il tempo che ci hanno dedicato.
Comments
4 Responses to “Vita da cavie. Intervista a Roberto Marchesini sul “benessere” degli animali da laboratorio”Trackbacks
Check out what others are saying...-
[…] Vita da cavie. Intervista a Roberto Marchesini sul “benessere” degli animali da laborato…. […]
-
[…] Asinus Novus […]
-
[…] Vita da cavie. Intervista a Roberto Marchesini sul “benessere” degli animali da laboratorio | As…. […]
Grandissimo Roberto!!!!
Grazie a Roberto (sempre!) per mettere a disposizione di noi ignoranti la sua immensa conoscenza dell’etologia.
Grazie a Serena e Jacopo per avere realizzato questa bellissima intervista!
Grazie a Eleonora, parafrasando un noto proverbio cinese, “lei sa perché”.