Lo sguardo di un vegano: breve riflessione personale

di Rita Ciatti
sguardo
Oggi riflettevo su quanto l’uso sempre più pervasivo che facciamo della tecnologia ci stia modificando le funzioni cognitive della mente. Rapportarci continuamente alle macchine indubbiamente dà luogo a una mutazione del cervello, non in senso strettamento biologico, non ancora almeno, ma sicuramente per ciò che concerne le sue funzioni e gli schemi cognitivi. Del resto siamo già oltre l’umano, viviamo con gli auricolari perennemente inseriti nelle orecchie, facciamo degli iPad e smartphone vari estensioni dei nostri arti superiori e orizzonti visivi. Osservando le persone in strada è facile rendersi conto di come esse abbiano accesso a una costante duplice visione della realtà, quella che si sta svolgendo concretamente attorno a loro – e di cui a volte non sembrano nemmeno rendersene pienamente conto – e quella che si materializza virtualmente sugli schermi dei loro telefoni. Le persone sono materialmente sedute sugli autobus, ma interiormente sono proiettate quasi costantemente dentro un secondo universo parallelo, che è il virtuale visualizzato sugli schermi dei loro apparecchi. È in atto inoltre un’autorappresentazione dei singoli che è la maniera in cui scelgono di darsi nel virtuale.
Tutto ciò modifica inesorabilmente le funzioni mentali e procede nel costituire un’interiorizzazione del reale certamente diversa da quella che avevano i nostri antenati.
Questo è un discorso che certamente meriterebbe ben altri approfondimenti, ma qui ho voluto piuttosto usarlo come prologo ad introdurre una riflessione di ben altro tipo, quella sul veganismo, in analogia con quanto detto sopra proprio sul piano della modificazione delle nostre funzioni cerebrali e quindi dell’intera cornice cognitiva.
Penso a quanto l’essere diventata dapprima vegetariana e poi vegana abbia modificato nel tempo la mia percezione del reale, al pari di quanto possa averlo fatto ad esempio l’uso del pc e l’invadenza della tecnologia in genere.
Quando giorni fa parlavo dell’opportunità, se proprio non vogliamo dire necessità, per un antispecista di divenire vegano non mi riferivo infatti tanto al discorso della coerenza, né a una fantomatica purezza o atteggiamento di superiorità morale con tanto di condanna verso quanti ancora non lo sono, quanto piuttosto a questo graduale e progressivo processo che è la conquista dell’arrivare a vedere l’animale come effettivamente l’altro senziente che è e mai più come cibo o indumento vestiario. L’interiorizzazione di questa nuova consapevolezza non è un atto immediato, tuttavia: possono volerci anni, sebbene non è detto che sia sempre così.
Quello che intendo semplicemente dire è che diventare vegani, smettere di mangiare animali, è sicuramente qualcosa di molto più complesso del mettere in atto una coerenza con quanto si professa a parole: è l’inizio di un atto costitutivo che ci muove a un nuovo e diverso sguardo sul reale.
Non mi interessa qui entrare nel discorso della sua efficacia o meno come mezzo di boicottaggio finalizzato ad abolire i macelli, non mi interessa nemmeno stare a calcolare se e quante vite animali il diventare vegani potrà salvare (non che non mi interessi in assoluto, dico relativamente a questa mia breve riflessione); quello che mi interessa è la considerazione del veganismo nel suo darsi come processo di lenta trasformazione del nostro sguardo sul reale. In questo senso esso è tra gli atti più rivoluzionari che un individuo possa compiere nella propria esistenza. E rivoluzionario perché esso rivoluziona la maniera di vedere le cose, nonché la percezione e considerazione che abbiamo degli animali e del resto dei viventi. E la rivoluziona perché fintanto che noi nelle vetrine dei negozi continueremo a vedere solo capi di vestiario e non quel che resta di un animale straziato a morte, non ci interrogheremo mai nemmeno a fondo sui meccanismi politici, sociali e culturali che consentono e legittimano questo stato di cose.
Non si diventa vegani per cambiare il mondo; bensì è il mondo che cambia – o meglio, la percezione che abbiamo di esso – nel momento in cui si diventa vegani. Diventarlo presuppone certamente un grande atto di volontà che è principalmente e preliminarmente intellettuale e che solo in un secondo tempo spalancherà anche i canali del sentimento.
Non si è vegani perché si è sentimentali, si diventa sentimentali – ossia pieni di sentimento di rispetto ed empatia nei confronti di tutti gli esseri senzienti – nel momento in cui si smette di vederli e percepirli come cibo e, in generale, come cose.
Senza questo nuovo sguardo sul reale, la liberazione animale continua a rimanere svuotata della sua essenza.
Senza questo nuovo sguardo che realmente, empaticamente incontra lo sguardo dell’altro animale, la liberazione animale non ha inizio dentro di noi e se un qualcosa non ha prima inizio dentro di noi, difficilmente potrà attuarsi all’esterno.
Comments
21 Responses to “Lo sguardo di un vegano: breve riflessione personale”
  1. Mi piace molto il tuo articolo, sia come lo hai scritto che nel contenuto. Tuttavia quando tu parli di veganismo ahimé, sono convinta che mostri la tua percezione di esso, o meglio quello che chi si batte contro lo specismo ne ha fatto, come te, come me, poiché come sai perfettamente, sono milioni al mondo i vegani per salute, dieta, ecc…. In merito al cambiamento interiore che consegue da questo processo condivido quasi tutto. A mio parere, però, si tratta di una questione esclusivamente individuale, intima. Cioè l’essere vegano per etica (d’ora in poi lo diamo per scontato altrimenti facciamo confusione, come credo lo dessi per scontato tu) è la concretizzazione di un rapporto nuovo, di una relazione che noi decidiamo di intrattenere con l’altro animale. Nel veganismo però, preso in sé nella globalità, tendenzialmente l’altro animale si trasforma in una entità compatta, indistinta, un “purché sia animale”. Spesso si esclude un altro animale con cui dovremmo intrattenere rapporti e relazioni analoghe – cioè l’altro animale umano. Allora mi dico, che il vero rapporto nella e con l’alterità, tutta, ce lo dà un approccio antispecista non il veganismo. Certamente, anche su questo siamo d’accordo, ne è una condizione essenziale, seppur personale. Lo sguardo sul reale come lo intendi tu potrebbe darcelo un bambino malato di cancro in ospedale come una persona cara che muore prematuramente, oppure i milioni di bambini che muoiono nel mondo (ogni 5 secondi). Allora io mi domando, alla persona lobotomizzata sull’autobus con le cuffiette perché dovrebbe sconvolgerla la morte di un animale anziché quella di un bambino, che sicuramente, nella migliore delle ipotesi le sarà meno indifferente? forse, ci sono ragioni profonde a questa indifferenza e chiusura del cuore, che non riguardano strettamente solo l’altro animale non umano e il rapporto che abbiamo o meno con lui ma proprio il rapporto stesso che abbiamo con noi stessi in quanto animali umani, con la società, con la realtà. E’ possibile che la sensibilità verso gli altri animali non umani ci induca ad aprire la mente e il cuore ma non è detto. Infatti non tutti i vegani sono persone sensibili né con uno sguardo sul reale “realistico”. Pensiamo al veganismo come una svelata realtà, mentre non ci accorgiamo che quella realtà è solo un pezzetto di una realtà ben più atroce, grande, e potente.

    • copio qui un commento a una foto di un maialino impacchettato al supermercato, che secondo me, spiega ciò che proviamo ma che al contempo indica come purtroppo tutto questo sia solo personale, e per personale intendo che è intimo.

      (preso da una foto fb): tempo fa ero al supermercato , dovevo fare la spesa grande, ma nel banco frigo, vedo un maialino piccolo piccolo,sara’ stato la meta’ di quello in foto, nella vaschetta di polistirolo e avvolto nel cellophane, l’etichetta con il prezzo: 12 euro. 12 euro per una vita, la vita di un neonato, la vita di un’innocente. Nessun pudore, nessuna compassione ne rispetto neanche da morto, il corpo esposto in mezzo ad altre “merci”. Orribile, pensavo, ingiusto e intollerabile per chiunque pensavo e mi guardavo intorno certa di vedere lo sgomento anche nelle altre persone, ma niente sembravano non vederlo. Io la spesa non sono riuscita a farla quel giorno, perche’ l’unica cosa che mi passava per la testa era : adesso lo “compro” non me ne frega niente dei 12 euro, lo compro e lo porto via, gli tolgo quella plastica di merda, il prezzo, lo metto in una copertina lo stringo fra le braccia, lo guardo per una volta come non e’ stato guardato mai, come un essere vivente e non come un salame,gli chiedo perdono e poi gli do almeno una degna sepoltura. Dopo un paio di giri a vuoto nel supermercato me ne sono andata, lo desideravo ma non l’ho fatto. Forse la paura del giudizio, di non essere come gli altri, di essere considerata esagerata, erano due anni che non mangiavo carne, ora sono più di 4 e forse io sono piu’ forte, oggi non avrei piu’ paura del mio turbamento , oggi lo farei perche’ so che e’ giusto. Mi sono abituata alle risatine e ai commenti cretini che devi sopportare quando cambi. Tanti con leggerezza pensano che sia una moda, o un modo come un’altro per rendersi interessanti, ma non e’ cosi’, a me la carne piaceva e pure tanto , mi hanno cresciuta a carne tutti i giorni, percio’ per me e’ stato se non un sacrificio, diciamo almeno un bell’impegno, ma niente paragonato a quello che soffrono gli animali .

      • rita ha detto:

        In quanto al commento preso da FB relativo alla tristissima foto del maialino impacchettato, posso dire di comprendere bene il sentimento di questa persona che avrebbe voluto avvolgerlo in una copertina per restituirgli, anche se ormai da morto, la sua natura di essere senziente e non più solo di cibo. 😦

    • rita ha detto:

      Grazie per il commento Barbara, sono felice che ti sia piaciuta la mia breve riflessione.
      Sì, certo, nel pezzo io ho volutamente omesso (e perché meriterebbe un altro articolo a sé) come si faccia a diventare vegani – non nel senso pratico di come lo si possa effettivamente essere, ossia cosa mangiare e non 😀 – ma nel senso di quale sia la molla che possa spingere a diventarlo. E sul perché la maggior parte delle persone non riesca a vedere la reale violenza e sofferenza che c’è dietro lo sfruttamento animale ne abbiamo parlato tante volte: ragioni sociali, storiche, politiche, culturali, simboliche e infine, non da meno, anche psicologiche (della psiche del singolo) e psico-sociali (che riguardano la società nel suo complesso). Annamaria Manzoni nel suo Abbiamo un sogno ha parlato di tutti quei meccanismi di difesa e autodifesa che il singolo mette in atto per rimuovere, giustificare e persino negare la violenza sottesa allo sfruttamento animale, ovviamente sostenuto poi dalla propaganda mediatica, fortissima e sottilissima (nel senso di assai arguta e funzionante) di cui siamo costantemente bombardati. Quindi lo so bene che lo sguardo del ragazzino che ascolta la musica sull’autobus, tutto preso a mandare sms agli amichetti di scuola, scivola tanto sul volto straziato dei bambini massacrati in guerra, quanto su quello del maiale dietro le sbarre. Voglio dire, non intendo sottovalutare la difficoltà di arrivare a vederlo quello sguardo, difficoltà che non è solo del singolo, ma sempre anche della società nel suo complesso. Volevo dire che però, una volta preso atto di quello sguardo, il diventare vegani amplifica poi tutto il resto della visione e fa sì che tutta la realtà sia vista in una maniera tutta nuova. Appunto, nelle vetrine non si vedono più abiti e scarpe, ma intere carnificine; nei supermercati non più solo cibo, ma il set di un film horror… peccato che il sangue sia vero.
      Poi sì, quando parlo di veganismo intendo anche sempre quello etico, non quello abbracciato per motivi di salute, che sinceramente mi interessa poco; anche se, e proprio per quella modificazione dello sguardo sul reale di cui parlo, so per certo che moltissime persone, diventate vegane per motivi indiretti, comunque sia progressivamente hanno smesso di percepire gli animali come cose (semplicemente anche non mangiandoli più) e hanno iniziato a elaborare un percorso più etico, più globale.

  2. Parte in Causa - Associazione Radicale Antispecista ha detto:

    Sì, bell’articolo, anche se concordo con Barbara nel sottolineare quanto la questione sia esclusivamente individuale. E aggiungo che si può essere vegani etici e applicare tuttavia dei filtri “razionali” e dei meccanismi di difesa e distacco anche per evitare di essere continuamente sopraffatti dal dolore, cosa che ritengo non produttiva. E non per questo essere meno sensibili, e tantomeno meno antispecisti (Giovanna)

    • rita ha detto:

      Certo, ma anche io, come tutti, attuo continuamente dei meccanismi di autodifesa dal dolore, altrimenti sarei stesa su un letto di un ospedale psichiatrico da un pezzo.
      Ora ho appena visto quel video sui maltrattamenti da parte di alcuni dipendenti in un allevamento di maiali. Sono sconvolta, ma anche so che sto già cercando di rimuovere quelle immagini per continuare in maniera sana e costruttiva la mia lotta, senza esserne sopraffatta.

      • Parte in Causa - Associazione Radicale Antispecista ha detto:

        Ecco, per esempio, io ho smesso di guardare video da tempo, a meno che non sia costretta (ad esempio se devo scrivere un articolo su un episodio specifico mi devo documentare), perché so che starò male e voglio evitarlo. Guardare video che documentano atrocità mi sembra una forma di masochismo e auto-tortura (parlo degli animalisti che lo fanno, ovviamente). Ora, però, siccome non credo che l’animalista che lo fa sia un masochista, mi chiedo quale sia il vero scopo. Rafforzare la propria motivazione? Rafforzare il proprio sdegno/rabbia? Ma la rabbia da sola porta solo allo sfogo impotente, come chi va ai cortei e grida “assassino”. Compiacersi di riscontrare ogni volta quanto si soffre e quindi quanto si è sensibili ed empatici? Qual è il vero scopo? Non è una domanda polemica, è proprio una domanda vera. Mi interessano le vere motivazioni, aldilà di ciò che ognuno dichiara, e se uno guarda dentro di sé con sufficiente onestà intellettuale, non farà fatica a trovarle (Giovanna)

  3. derridiilgambo ha detto:

    Si può usare la tecnica continuando a pensare ed esistere in modo non tecnico?

    Ma dove comincia la tecnica? La disciplina non è una tecnologia del sé?

    E il veganismo, oltre a tutto quello che dici qui, non è anche una disciplina?

    • rita ha detto:

      – Si può usare la tecnica continuando a pensare ed esistere in modo non tecnico?

      Forse. Ma sono convinta che l’uso della tecnologia continui a modificarci inesorabilmente. Sai che amo Cronenberg e Ballard. 😉 Comunque non esprimo un giudizio di alcun tipo, osservo in maniera neutra.
      Cioè, detto in altre parole, io non vedo la tecnica come un male.
      Certo mi viene in mente Metropolis di Lang: “il cuore deve mediare tra il cervello e le mani”.

      – Ma dove comincia la tecnica? La disciplina non è una tecnologia del sé?

      Certamente. Perché “imponendoci” un certo comportamento ci modifichiamo.

      – E il veganismo, oltre a tutto quello che dici qui, non è anche una disciplina?

      E anche il veganismo, dunque, certo, ma è proprio quello che ho voluto dire. Esattamente.

      Scusa se rispondo così sinteticamente, ma vado di fretta. Comunque hai centrato il punto.
      Per questo ho voluto fare l’associazione tra tecnologia e veganismo. Perché entrambe appunto ci modificano i sensi, la percezione che abbiamo del reale, ci strutturano proprio anche biologicamente in maniera diversa. Infatti già parlerei di biotecnologia. Tutto ciò che entra a contatto con il corpo è bio, comprese le interfacce dei pc, gli auriculari ecc.

      Io osservo le persone che continuamente hanno sempre gli smartphone in mano e gli vedo compiere sempre gli stessi gesti. Hanno acquisito una certa manualità e postura che per forza di cose modifica e ri-struttura il loro essere.
      Il veganismo, come disciplina, è qualcosa più interiore, ovviamente, ma può essere paragonabile alla tecnica.

  4. Roberto ha detto:

    Mi permetto di dissentire dal tuo ragionamento Rita. Non certo per l’effettivo cambiamento interiore che scaturisce dalla scelta di uno stile di vita vegano, ma piuttosto perchè, come tu stessa hai affermato, si tratta di una scelta conseguente una presa di coscienza. A mio parere facciamo spesso l’errore di identificarci in una categoria, quella vegetariana/vegana, che è essa stessa il prodotto di uno sguardo diverso sul reale. Ne il veganismo e ne il riconoscimento della sofferenza animale sono artefici di un cambiamento, semmai è la capacità di analizzare correttamente la realtà (la società) nelle sue fondamenta di dominio/oppressione che “sveglia” la coscienza e mette in moto un cambiamento. Un cambiamento che a mio avviso è una reazione a catena di scelte e comportamenti dei quali la scelta vegan è un solo tassello di un puzzle ben più ampio e che investe o investirà la globalità delle nostre percezioni.
    Con molta probabilità, dopo essere stati vegetariani e vegani ed antispecisti, saremo anche ……..

    • pasquale cacchio ha detto:

      …saremo anche luddisti 😉

    • rita ha detto:

      Roberto, ma forse non mi sono fatta capire.
      Tutto ciò che affermi tu e cioè che il veganismo sia comunque l’effetto di una previa consapevolezza e visione critica del reale, lo sottointendo. Cioè, mi pare ovvio. Quanto dici è giusto infatti.
      Mi interessava però piuttosto fare un discorso molto preciso e credo che le domande che mi ha posto Derridilgambo abbiano centrato il punto. Il discorso è sul veganismo come disciplina interiore (il termine disciplina me l’ha appunto suggerito Derridiligambo) che poi pian piano arriva a modificare le funzioni del nostro cervello fino a farci acquisire ancora maggiore consapevolezza e a farci intuire cose che con la sola comprensione a livello intellettuale avevamo sì, compreso, ma non “sentito” nel profondo.

      Ti farò un esempio banale. Tutti sappiamo, a livello intellettuale, cosa sia la morte, ma vivere il lutto è un’esperienza che ci cambia nel profondo. E dopo, non saremo mai più gli stessi.
      Io parlo di una contrapposizione tra il sapere a livello intellettuale e tra il vivere, esperire in maniera profonda un’esperienza.
      Il veganismo è, in questo senso, un’esperienza che continua a modificarci.

      • rita ha detto:

        E modificandoci noi, si modifica anche il nostro sguardo sul reale e ci permette di immaginare aperture e vie di fuga che prima erano impensabili.
        Ancora di più, intendo, di quella necessaria consapevolezza che ci è servita per aver fatto il passo di diventare vegani.

  5. rita ha detto:

    P.S.:
    io sapevo da tempo che mangiare gli animali fosse sbagliato. In questo senso ero già abbastanza consapevole della logica del dominio e sfruttamento sottesa al nostro sistema. Ma solo quando ho di fatto smesso di mangiarli è avvenuto qualcos’altro ancora.

    • Roberto ha detto:

      Grazie, ora è tutto più chiaro, visto che anche io avevo detto senza sottintenderlo che il veganismo porta ad un effettivo cambiamento interiore.
      Mi piace la visione del veganismo come disciplina ma quello che volevo far intendere è anche l’aspetto negativo del considerarlo tale. Non che una “tecnologia” vegana sia priva di positività (anzi), ma c’e’ il rischio, non troppo improbabile, che diventi La Disciplina. Quindi che le modifiche indotte dalla disciplina vegana possano essere troppo “specialistiche” distogliendoci da un quadro più ampio di ulteriori applicazioni.
      Insomma, non vorrei che il veganesimo conduca a quelle modifiche interiori che possono impedirci di essere, per esempio, ecologisti.

      • rita ha detto:

        Dipende Roberto da cosa tu intenda per essere ecologista.
        Se per essere ecologisti si intende badare all’equilibrio dell’ecosistema, ma trascurando il singolo senziente, ad esempio non considerando sbagliata la pesca tout court, ma solo quella selvaggia, allora posso dirti senza indugio che sì, il mio essere antispecista e animalista e attivista per la liberazione animale, oltre che vegana, fa sì che io in questo caso critichi questo tipo di approccio ecologista.
        Se però per ecologismo si intende il rispetto della natura, dell’ambiente, la riduzione dello sfruttamento delle risorse, la riduzione dell’inquinamento adottando uno stile di vita diverso, senza sprechi ecc., allora posso dirti che lo sono senz’altro, se non altro perché avendo a cuore ogni singolo individuo senziente, ho a cuore anche l’habitat in cui vive.

  6. drjackill69 ha detto:

    Bell’articolo !!! Io sono diventato vegano due anni fa circa, sicuramente all’inizio per la salute, sapevo benissimo avendo fatto degli studi scientifici di cosa si parlava, ma è vero come dicono molti nei post a seguire l’articolo dopo scatta qualche altra cosa !!!
    E come se il non nutrirsi piu’ di animali e dei loro prodotti derivati ti fa capire che effettivamente oltre a non esserci il bisogno “alimentare”, si è sicuramente piu’ in sintonia con la vita.
    Il discorso della tecnologia è carino ma da esperto di ICT che lo fa di mestiere da circa un quarto di secolo posso solo dire che se non esisteva Internet e la tecnologia molta gente non sarebbe diventa VEGAN !! La rete è la sua capacità di far passare le informazioni che in definitiva danneggiano le multinazionali alimentari e farmaceutiche è stata DETERMINANTE per me come per la maggior parte dei VEGAN che conosco. Inoltre senza la stessa non ci sarebbe l’ovvio e necessario scambio di informazioni sia di natura culinaria che divulgativa che ci permettono di far capire agli ALTRI, poi che sia difficile fare il passo questo dipende da molte cose, dalla determinazione, dalla possibilità di poter reperire i prodotti, io vivo a Modena e di certo è molto piu’ facile fare il vegano qui che giu’ a Frosinone dove abitavo prima di trasferirmi, e ancora la rete ci viene in aiuto potendo ora tagliare le distanze e comprare quello che uno desidera anche al POLO SUD (se fa pe di’ !!!). Pero’ c’è un pero’ una delle cose che mi ha spinto e che penso abbia aiutato molto il passaggio di mia moglie verso lo stile vegan (lei lo è diventata 6 mesi fa circa, mentre abbiamo una bimba di 6 anni che non ne vuol sapere ahahaha pero’ piano piano con l’esempio son sicuro che sara’ anche lei una di noi !!!) è la necessità del MONDO di andare verso questa direzione e quindi non mi trovo daccordo con quanto detto sul fatto che sia poco importante quante vite di animali si siano salvate oppure che le persone debbano essere informate sul disastro ambientale prodotto dal loro consumo di carne e prodotti di origine animale.
    Da questo punto di vista mi spiace ma sono categorico mi battero’ sempre per far capire alle persone che una scelta vegan salva non solo loro stessi, per tutti i motivi che ben conosciamo, ma anche e soprattutto il futuro dei nostri figli e discendenti. Non possiamo immaginare un mondo con 8 miliardi di persone che mangino carne perchè ci vorrebbero 5 pianeti per sfamare siffatti ONNIVORI, e ci vorrebbe una sanità paurosamente efficiente per curare i disastri di una siffatta alimentazione, gli Stati Uniti sono nella merda a livello economico non perchè è scoppiata la bolla finanziaria dei sub prime ma perchè il loro sistema sanitario sta implodendo dato che sono pieni di malati e la maggior parte lo sono per motivi legati all’alimentazione, ma di questo nessuno ne parla, potrebbero semplicemente fare delle campagne SERIE di informazione a livello ALIMENTARE e nell’arco di 4-5 anni potrebbero salvare milioni di persone da malattie e sofferenze e far ripartire la loro economia.
    In Italia la situazione è molto diversa abbiamo un’alimentazione prevalentemente piu’ variegata e la dieta mediterranea di per se ha delle solide basi VEGAN, se togliamo i prodotti come i formaggi e la carne e il pesce non leviamo l’80% della dieta come in America ma si e no un 30% !!!
    Per il discorso filosofico o vedere il veganismo come disciplina interiore be quello dipende molto dalla formazione delle persone e dalle esperienze che hanno fatto, il lutto e l’elaborazione di un vegan penso che siano come al solito cose molto personali, io ho perso mio padre due mesi fa’ per via di un tumore che in 6 mesi ce lo ha portato via, gli avevo regalato The China Study, lo aveva letto di getto (come era solito fare) e cominciava anche lui a pensare che il modo corretto di affrontare la cosa poteva essere quello indicato da Campbell, ma poi la malattia e i dottori lo hanno convinto che non era cosi’ ed è qui che il lutto diventa rabbia e dolore quando vedi delle persone che si reputano di scienza e affermano che la chemioterapia di potrebbe (notare il condizionale) salvare mentre l’alimentazione è marginale, mio padre è stato sempre un forte consumatore di latte (e penso che abbia agevolato non poco la sua dipartita sapendo l’effetto della caseina sulle cellule del microcitoma che aveva !!!). Ma i dottori con cui mi sono confrontato NON SAPEVANO NULLA di tutto questo !!!??? E’ impossibile che delle persone pagate e che hanno giurato di vivere per salvare la vita agli altri non sappiano le basi dei loro mentori (tutti gli antichi padri della medicina era VEGANI), ho trovato la primaria di oncologia che aveva una busta piena di carne un giorno e li ho capito che non basta l’informazione per far cambiare le persone ma ci vuole l’EDUCAZIONE. Ecco per me manca a livello scolastico e sociale la giusta educazione per far cambiare le cose e solo cosi’ possiamo sperare di fare il salto necessario come UOMINI per diventare una specie migliore (Non superiore ma migliore !!!) di quella che siamo.

    • rita ha detto:

      Ciao, ti ringrazio per il tuo commento. 🙂

      Comunque non ho detto che non sia importante considerare quante sono le singole vite salvate, ho detto che non mi interessava discutere di questo particolare aspetto in questo preciso post perché verte piuttosto sul come le azioni e i comportamenti – in questo caso la scelta vegana – modifichino lo sguardo sul reale.

      Inoltre, personalmente, non faccio appello agli argomenti indiretti (la carne fa male alla salute, gli allevamenti inquinano) perché quello che mi interessa è diffondere un’etica animalista. Non dico che non siano veri, attenzione e che altri, ad esempio gli ecologisti, non debbano diffonderli, dico che come attivista per la liberazione animale preferisco concentrarmi su altro. Inoltre gli argomenti indiretti potrebbero non reggere nel tempo.
      Conosci il progetto dell’enviropig? Praticamente si sta pensando di “creare” un maiale modificato geneticamente per fare in modo che in termini di inquinamento ci sia un minore impatto. Cosa significa questo? Che se non diffondiamo l’etica per cui sfruttare un animale sia sbagliato a prescindere e non soltanto perché la carne fa male e inquina (di fatto se se ne mangia poca non fa male e poi anche qui si cerca sempre di allevare animali che abbiano meno grasso), non avremo risolto nulla.
      A me non interessa solo abolire lo sfruttamento degli animali, mi interessa che proprio si elimini una volta per tutte l’idea che si possa impunemente sfruttare gli animali.

      Comunque non è che critico chi li usa, dico solo che io faccio altro. Pure se dipende dai contesti.
      Ad esempio sono contro la sperimentazione animale non perché creda che sia un metodo sbagliato di far ricerca (lo sarà pure forse, ma indubbiamente ha una sua utilità), ma perché ritengo sbagliato e profondamente ingiusto uccidere e imprigionare altri esseri senzienti, a prescindere dalla nobiltà del fine.
      Poi se ci sono antivivisezionisti che si battono per parlare dei metodi sostitutivi, ben vengano, ne sono felice. Ma le mie argomentazioni sono altre.

      Un saluto e grazie ancora.

      • Francesco Sciusco ha detto:

        Oh, un animalista serio, che non si inverta falsità scientifiche per sostenere le sue posizioni. Il problema è etico, si è convinti che è sbagliato sfruttare gli animali per il benessere umano. Onore delle armi ad questa posizione schietta, e nessuna stronzata sull’uomo frugivoro.

  7. rita ha detto:

    @ Giovanna

    Posso ovviamente rispondere solo per me, gli altri non so perché lo facciano.

    Personalmente sempre e solo per documentarmi e informarmi. Ad esempio mi sono resa conto che se voglio argomentare contro la sperimentazione animale battendo sul piano etico, dovrò anche prima sapere esattamente che tipo di esperimenti si fanno e se scopro che c’è un video informativo lo guardo; lo stesso ho fatto per capire come effettivamente vivono i visoni negli allevamenti, o i maiali nelle porcilaie, o come vengono ingozzate le oche per produrre il foie gas.
    Così sono anche andata, come sai, a “visitare” lo zoo di Roma, non certo per masochismo, ma per vedere con i miei occhi come effettivamente sono tenuti gli animali, di modo da poter eventualmente trovare un appiglio per denunciare e fare qualcosa. Se uno non si informa, come fa a sapere contro cosa sta lottando?

    Lo faccio per conoscere com’è fatta la realtà dello sfruttamento in ogni suo particolare, al fine di sostenere con più forza le mie ragioni, proprio prendendo spunto da vari particolari, anche.
    E poi perché spesso mi piace validificare le varie fonti giornalistiche, così nell’articolo dell’altro giorno in cui si parlava di questi tizi che maltrattavano i maiali i e in cui era scritto che li prendevano a calci, che lanciavano i cuccioli in aria, ho voluto vedere se effettivamente fosse avvenuto questo o se invece non fosse stata solo un’interpretazione del giornalista. Ho visto qualche secondo, mi è bastato per capire che ciò che il giornalista riferiva corrispondeva in effetti alla verità, dopodiché ho chiuso.

    Breve inciso sul dolore: personalmente non mi compiaccio del dolore che provo, né di quanto soffro. Né credo che il mio dolore o le mie lacrime servano agli animali. Parlo più spesso infatti del dolore degli animali, non del mio. Quando parlo del mio lo faccio per condividere una sensazione, un sentimento, o per indicare uno sguardo diverso (come quando dico che prima le vetrine erano solo vetrine con merce esposta in vendita, mente ora sono mostre degli orrori), così come si fa in generale per tante altre cose, magari in contesti ben specifici, tipo che so, per dare sostegno a qualcuno e dirgli che quel che prova è comune, per farlo sentire meno solo o per portare un esempio. Non ci vedo nulla di male nel solidarizzare con chi ci capisce.
    Inoltre non escludo che manifestando anche il proprio sdegno e dolore, per via dei famosi neuroni specchio, può aiutare l’altro a cercare di comprendere perché un suo simile stia provando quel dolore e quello sdegno.

    Come al solito la risposta non è una, ma molteplici, dipende dai contesti e situazioni insomma. 😉
    Ma escludo, per quel che mi riguarda, l’autocompiacimento.

    Inoltre, come ho scritto tempo addietro, può essere che la messa in scena del dolore sia una delle necessarie fasi del lutto, che, nel nostro caso, è continuo. Poiché noi di fatto ci sentiamo particolarmente coinvolti per la morte degli animali. E gridare e parlare del proprio dolore, di quel che si prova è terapeutico.
    Così come lo è per chi ha perso un parente.
    Ti pare che lo si faccia per autocompiacimento?
    O non piuttosto appunto per elaborare un dolore che è costante e quindi tentare di conviverci superandolo?

    Come sai non tutti siamo uguali, esistono reazioni diverse al dolore. C’è chi si sfoga con rabbia, chi va avanti a testa bassa, chi piange, chi cerca un conforto esprimendo ciò che prova; c’è persino chi impazzisce, pensa un po’ (Van Gogh impazzì dopo che la povertà e le sperequazioni del mondo, nonché la profonda ingiustizia, gli si erano rivelate. Buddha divenne un asceta). C’è chi diventa depresso. Leopardi e von Triar sono depressi e pessimisti cosmici. Loro sono artisti e ci hanno scritto poesie l’uno, film il secondo. Noi magari scriviamo un post o uno stato su FB perché siamo meno dotati. 😉
    Dunque perché mai agli animalisti non è concesso esprimere il loro dolore, ma soprattutto perché si pensa che esprimere il dolore sia autocompiacimento o masochismo o un battere la lingua dove il dente duole, quando invece è una semplice reazione alla scoperta di una tragedia enorme, che è lo sfruttamento degli animali?

    Fatti anche questa di domanda allora, e proprio perché si deve avere il coraggio di guardare dentro sé stessi.

    C’è chi è più pudico. Chi non tira fuori mai nemmeno un urlo o una lacrima. C’è invece chi sente l’esigenza di comportarsi diversamente. Si tratta di diverse sensibilità. E attenzione che non sto dicendo che chi mostra il dolore lo provi di più e chi no sia meno sensibile, parlo infatti di diverse sensibilità e maniere nell’esprimerlo, non certo nel provarlo, ché lo so che lo proviamo tutti.

    Quindi, per concludere, non credo che si guardino i video per rafforzare il proprio dolore così da poterlo urlare continuamente, ma credo lo si faccia per informarsi. O almeno è la mia motivazione.

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