Specismo e Umanesimo
di Roberto Marchesini
Se prendiamo in considerazione i cardini del pensiero umanistico non possiamo non riconoscere un antropocentrismo di sfondo che trasforma la realtà circostante, vale a dire tutto ciò che non rientra all’interno del limes dell’umano, quale palcoscenico da conformare alle esigenze dell’unico attore: colui che ha in mano i destini autopoietici, l’unico capace di rendere il teatro un luogo di significato, di creare i mondi possibili. Se restiamo all’interno del paradigma umanistico ci troviamo costretti o ad annichilire l’alterità (da cui l’antropomorfizzazione) o a decostruire l’identità (da cui il singolare indistinto) oppure a rigettare tutto ciò che non è umano nella res extensa. L’umanismo ammette un solo tipo di soggettività, quella umana, e pertanto l’eterospecifico è obbligato a passare sotto le forche caudine di tali predicati di soggettività – e si tratta di una prova già persa in partenza giacché per definizione l’alterità animale è alterità – se vuole veder riconosciuta una qualche titolarità ontologica. Gli esempi di questa tendenza non mancano. Il bisogno di riconoscere la soggettività dalla consapevolezza o qualità esplicitativa è un chiaro esempio di tale aberrazione che vuole: 1) che la consapevolezza indichi il livello di soggettività, quando sappiamo bene che, anche nell’essere umano, ciò che è soggettivo (nel senso di proprio-dell’ente), come implicante una posizionalità singolare dell’ente nel qui e ora, non coincide con ciò che è consapevole; 2) che le prove e i parametri di consapevolezza debbano essere quelli validi per l’essere umano e validati dall’essere umano.
Come si vede, la concezione di soggettività è frutto di due determinanti umanistiche ben precise che potremmo attribuire al carattere autopoietico che leghiamo al concetto di soggettività e alla trasformazione antropometrica propria della lettura vitruviana dell’essere umano. Se ci manteniamo all’interno di questa concezione della soggettività, inevitabilmente assegneremo al non-umano o una mancanza di soggettività o uno stato di soggettività minore. Medesima difficoltà riscontriamo se ci proviamo a definire il proprio dell’alterità rimanendo nella concezione emancipativa pichiana: in questo caso o chiudiamo l’eterospecifico all’interno di una umwelt (mondo-ambiente) invalicabile (dichiarandolo di fatto res extensa) che necessariamente lo rende povero di mondo, come già aveva ben compreso Martin Heidegger [1], o lo decostruiamo, come l’angelo umanistico, eradicandolo da ogni inerenza ma così facendo negandogli di fatto ogni seppur minima titolarità. Se è vero che non si possono misconoscere le innumerevoli critiche nei conversi dell’antropocentrismo rinvenibili in autori precedenti l’esplicitazione degli anni’70 e nelle correnti filosofiche che si sono confrontate negli ultimi due secoli con il tramonto dell’umanismo, non dobbiamo dimenticare il loro legame indissolubile con questo paradigma che inevitabilmente crea problemi di tenuta interna della critica allo specismo. È comprensibile la ricerca di antecedenti di critica al dominio dell’uomo sugli altri animali nella storia del pensiero filosofico – encomiabili in tal senso le ricerche e i saggi che in Italia sono stati prodotti da studiosi come Luisella Battaglia, Silvana Castignone, Vilma Baricalla, Gino Ditadi – nel ripescaggio di esili pronunciamenti, il più delle volte sotto forma di rêverie, di auspici o di semplici aforismi, ma che non rientrano poi nel tessuto teoretico del filosofo in questione. La compassione verso gli animali ricorda una sorta di captatio benevolentiae più che costituire una messa in mora dell’antropocentrismo. Questo anche perché l’umanismo è sempre stata una comoda coperta per dare libera espressione alla solipsia postplatonica: allontanarsi dal mondo-ombra per chiudersi all’interno dei propri ragionamenti. L’umanismo è negazione dell’animalità: nell’essere umano confinandola alla mera corporeità, nel non-umano nel connotarla in termini macchinomorfi. L’umanista anche nel pronunciarsi a favore dell’eterospecifico manifesta sempre un senso di altezzosa superiorità, di consapevole distacco dall’animalità e quindi di non coinvolgimento nell’animalità. Chiuso nell’onanismo del cogito cartesiano, pretende di parlare di animali senza conoscere gli animali, considerandoli una presenza incomoda ai suoi pensieri, una sorta di contaminante che macchia di materiale organico le sue cristalline elucubrazioni. Per l’umanista l’animale è nel testo, non esiste fuori dal testo, è un gioco di specchi ove si può desumere i predicati del non-umano semplicemente con un esercizio prestigioso di contrapposizioni. Ciò che è facile riscontrare in queste pagine è la compulsione citativa e chiosastica, il continuare un discorso tra eletti che rifuggono l’opacità del mondo. L’animale che l’umanista incontra è se stesso: impudico in quanto animale, vulnerabile perché riecheggia il memento mori, lontano come il pubblico che osserva il funambolo nelle sue peripezie sulla corda. La critica eventuale che ne deriva è stanca, distonica, incoerente, incapace di colpire al cuore il problema perché significherebbe mettere in discussione tutto l’edificio che il filosofo ha costruito dentro di sé, lungo i sentieri dell’essenzialismo, del logocentrismo, della scala naturae, del libero arbitrio, dell’operatore dicotomico, del razionalismo, dell’elevazione, degli infiniti riti di purificazione. La critica allo specismo è pertanto una cesura, una frattura nella faglia del pensiero occidentale, un domino che abbatte i tasselli faticosamente eretti dall’umanismo.
[1] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Genova, Il Melangolo, 1992.
Ancora una volta Roberto è impeccabile e affascinante nel suo argomentare.
E io non mi stanco mai di leggerlo!
L’umanismo appare sempre di più come colui che continua a contemplare il proprio ombelico non rendendosi conto che la realtà che lo circonda è lo specchio del proprio essere.. Che questi continua a considerare Altro da Sé e pertanto a comprimere e violentare a proprio piacimento.. Senza rendersi conto che la realtà che appare fuori è il Sé e costui continua, (inconsapevolmente avviluppato nei suoi ragionamenti che lo porrebbero, in ipotesi, al di sopra, quale appartenente alla umanità, rispetto alle altre specie animali) a violentarSI…..