Ruggine
Di Roberto Giuseppe D’Amico
Fetore di ruggine bagnata mista a sangue: impossibile capire davvero da quale dei due venisse il pesante sentore di ferro che ci riempiva le narici. Stridere di metallo; ogni tanto, quasi musica, il suono di una catena.
Un colpo ben assestato, proprio all’imboccatura dello stomaco, ogni giorno ci priva del fiato e, da sogni di cui non rimane più neppure una vaga impressione, ci scaraventa sul freddo pavimento su cui le grate rossastre trattengono bene i nostri corpi ma non le nostre urine; male la merda che, a volte, ti prendi la briga di spingere con forze perché cada. Questa è, però, più un’operazione da novizi, giovincelli, persone che credono valga qualcosa mettere un fiore e pulire un poco la gabbia; se sei cresciuto, la gabbia te la vivi per com’è, senza abbellimenti, e te ne fotti di quella merda che c’è poco lontano. Io ho messo un po’ di tempo ad agire come gli adulti; ancora, a volte, non posso trattenermi e schiaccio a piede nudo la poltiglia marrone.
C’è uno specchio, acqua che scorre da un rubinetto e, là vicino, la maschera. Pulisci come puoi il viso, cerchi di cancellare le occhiaie, le rughe, il viso: non le vedrà nessuno, ma anche il fatto che le veda tu non ti va. Passi la spazzola d’acciaio sui denti, con forza; cerchi di strappare dal grigio delle ossa consumate quella patina vermiglio che le ricopre; sputi nel buco, vicino lo scorrere dell’acqua. C’è del sangue; le gengive sono tagliate, come sempre, e il liquido appiccicoso e scuro ti rimpasta le ossa, rende vano il tuo lavoro di poco prima.
Quando sei più giovane, a volte, ti rimetti a dare di spazzolino, strappi ancora un poco di bianco, riempi la bocca di una sabbia fine fine che sputi sempre più mista a un fluido simile a nero caramello. E’ allora che le ossa assumono quel fottuto colore di ruggine; è allora che prendi a bere ogni mattina quel sapore di metallo. Poi, un pochetto, ti rompi i coglioni. Lo sanno tutti che quel maledetto colore non andrà via; qualcuno sospetta che addirittura sia il metallo della spazzala a dare quella sfumatura; ma ti hanno insegnato che i denti vanno sfregati e, alzatoti, sei così ubriaco e vulnerabile, che non ti metti a fare certo discussioni con te stesso, a fare critiche del sistema: prendi lo spazzolino, spezzi le ossa, tagli la carne, con forza, con mestiere; come deve essere.
Il gracchiare della porta della gabbia che ti si chiude dietro, nei primi tempi, ti fa venire la pelle d’oca e, a volte, quando hai la mia età, sollevi la maschera e guardi i ragazzini delle celle vicine fare quell’espressione ingenua di orrore; a noi delle linee precedenti il rumore non fa più né caldo né freddo; è un gracchiare fra gli altri e, delle volte, mi pare che non esista. Anche la fatica, che mi accompagnerà per tutto il giorno, mi sembra sia irreale o, meglio, una condizione normale. Arrivi alla tua catena, metti i ferri a gambe e braccia, tiri giù la maschera, inizi a spingere il tuo carico e quello, ogni giorno più pesante, stenta ogni giorno un poco di più a ripartire. Le forze mancano. All’inizio, quando eri verdolino, il peso era davvero piccolo eppure, non di rado, rimanevi impalato appena dopo che ti avevano bloccato gambe e braccia. Qualcuno, addirittura, urla e si divincola quando chi lo ama lo porta alle catene e, con una mano piena di amore, gli carezza la nuca “E’ per il tuo bene”. Allora, di questi, qualcuno comincia a capire e diventa sempre più sereno, si dà una calmata, e dopo qualche mesetto lascia che le braccia e le gambe portino il loro peso di metallo; qualcuno però non riesce proprio a capire e continua a gridare, a fare casino: è fastidioso sentirli fare tutto quel bordello e la maschera credo ti sia data per non avere la tentazione di correre continuamente con lo sguardo verso quella povera testa di cazzo. Sono giovani, e forse si potrebbe anche aspettare che, col tempo, imparino la lezione; ma, davvero, fanno troppo chiasso e non si può non fare nulla. Corrono allora gli uomini scarlatti e cominciano a trattare col ragazzo, gli dicono che se non fa come gli altri, loro saranno costretti a farglielo fare suo malgrado, gli dicono che loro sono costretti a fare quello che faranno e che lui non deve costringerli a fare ciò che loro stanno per fare; poi prendono delle barre di metallo, questo lucido, non arrugginito come quello che solitamente conosciamo, e gli danno qualche colpo, giusto per fargli capire che non scherzano, che sono costretti a fare quello che devono fare. Alcuni, allora, cedono impauriti e lasciano si mettano loro le catene; cominciano a spingere un poco piagnucolando; altri, invece, se ne fregano degli uomini scarlatti e continuano a divincolarsi, a fare violenza; addirrittura qualcuno attacca i legatori, arriva a ferirli o, peggio, ad ucciderli.
Ci sono delle croci in fondo alla sala in cui si svolgono le nostre vite. Alle pareti di queste, enormi, delle croci. Qui gli scarlatti sono autorizzati a bloccare il rivoltoso con chiodi in mani e piedi e a lasciarlo in alto, alcuni dicono a monito universale; altri, più realisti, dicono per farci sentire più protetti dalle loro molestie. Rimangono lì finché necessario e, quando liberati, i più sono contentissimi di mettersi alle caviglie e ai polsi le catene; qualcuno però non sente ragioni e torna a contorcersi, a fare casino, a dare fastidio. Allora arrivano di nuovo gli scarlatti, il metallo, la trattativa. Qualcuno sembra davvero non sia nato che per la croce; qualcuno dalle croci non scende mai.
C’è anche un terzo gruppo di rompi palle. Questi, dopo che gli scarlatti hanno stabilito che il loro intervento è inutile, vengono soccorsi da uomini dal becco di corvo che accorrono con amorevoli siringhe e iniettano nelle vene chissà quali intrugli. Allora, se ti va un attimo di scostare la maschera, li vedi con viso beato, pieni di piacere. Un poco allora, lo confesso, li invidi. Perché loro, che non fanno un cazzo, che rompono le scatole, possono ricevere quel piacere e noi, che facciamo tutto come va fatto, quei privilegi non ce li sogniamo? Ma sono malati, ci viene detto, e a volte, in effetti, se li guardi, dopo che il liquido ha iniziato a mangiarseli da dentro, hanno sguardi cavi, bava dalla bocca e si reggono poco in piedi; meglio non invidiare.
Anche tutti noi, obbedienti, ogni tanto vediamo uno scarlatto. E’ normale, specie quando sei giovane. Si tratta un poco, ti chiede perché non stai mettendo le catene, non stai spingendo e, qualche volte, con bonomia, ti fa assaggiare il suo acciaio ben levigato. E’ normale quando sei giovane e pigro. A quel punto però inizi a spingere, a far sfregare il tuo metallo contro il metallo, e il tuo gesto, il tuo chiasso, si perde in quello di mille altri. La fatica diviene un destino, una cosa che ti porti addosso e che non vedi più e, quando danno un segnale, te ne torni soddisfatto nella tua cella a riposare per qualche ora. Solitamente tutto fila così, sempre uguale, salvo i momenti i cui sei libero e, magari, vai alla cella vicina e ti scopi l’occupante o sua figlia.
A me, un giorno, è successa una cosa strana.
Mi ero messo le catene a polsi e gambe, come si deve, come sempre. Ero ancora giovane e le avevo già prese un paio di volte da quelli che mi dovevano insegnare il da farsi. Ero già diventato mansueto, e, dunque, avevo abbassato la maschera e mi ero messo a spingere con tutta la mia forza quando, con un colpo improvviso, le catene si erano spezzate ed io ero caduto faccia in avanti. Stupito, mi ero scoperto il viso e avevo cominciato a studiare quello strano caso. Le catene sembravano tagliate, quasi che qualcuno si fosse preso la briga di venire al mio posto di lavoro e farmi quello scherzo. Non poteva essere, non poteva essere. E poi, chi poteva essere stato? E perché?
Mi abbandonai poco a quei pensieri. A cosa potevano portarmi? Adesso avevo solo paura, paura di quello che poteva succedermi, di quello che potevano farmi e, bloccato dal terrore, rimasi a sedere sul luogo in cui ero caduto. Mi guardai attorno. Non si avvicinava nessuno, nessuno sembrava aver notato cosa stava accadendo. Che dovevo fare? E cosa mi avrebbero fatto gli scarlatti se mi avessero scoperto? Lentamente, col cuore impazzito, osservandomi attorno, mi allontanai dalla mia postazione. Dove potevo andare? Cosa potevo fare?
Iniziai a camminare per il piano. I miei piedi, affondando nella ruggine delle grate, le facevano in parte affondare e, quando le lasciavo, queste tornavano indietro producendo un rumore che giungeva piacevole alle mie orecchie; quasi musica. Ma io non ero il solo a sentire quel suono. Gli altri, distratti, certo infastiditi dal rumore prodotto dal mio corpo libero, avevano alzato la maschera sulla fronte e mi seguivano con occhi sgranati ed espressioni folli sul viso; anche io avrei avuta quell’espressione, se qualcuno avesse turbato il mio lavoro come stavo facendo col loro; non li biasimavo. Anzi, quegli sguardi mi scavavano dentro, mi facevano sentire sporco, in colpa, e così cercavo di non incrociarli, di salvarmi da loro.
Ero nudo. Più procedevo, più il numero di coloro che mi guardavano cresceva, più il mio imbarazzo tendeva all’ infinito. Presi allora a correre, cercando un angolo, un cantuccio che potesse nascondermi; lo trovai dietro l’immenso triangolo di ruggine che un uomo come gli altri trascinava lungo le rotaie. Lì presi fiato.
Pensai. Se gli scarlatti mi avessero trovato, mi avrebbero picchiato con forza o, peggio, messo sulla croce perché tutti potessero vedermi. O magari poteva arrivare qualche corvo e strapparmi dalla faccia i miei occhi per darmi quelli cavi e lasciare che la saliva scorresse libera giù dalla mia bocca. Avevo paura. Però, per qualche istante, la mia testa prese a pensare in maniera anomala, tanto che devo credere di una visita dei corvi io avessi proprio bisogno in quel momento. Pensai che, forse, la stanza aveva una porta, qualcosa che potesse portarmi verso un mondo esterno.
Era folle. Non avevo mai sentito parlare di queste cose se non fra le urla degli scocciatori e, evidentemente, non erano una fonte molto attendibile. Però, per un attimo, mi parve possibile che esistesse un posto che non puzzasse di ferro, un luogo in cui esisteva della luce diversa da quella fioca emessa dalla lampadina che sta in alto al centro del soffitto. Pensai a quelle canzoni di folli con colori sgargianti di cieli e mari, di colline e fiori; sognai esistesse un mondo fuori da quella porta che non avevo mai visto. Chissà come sarebbe stato correre attraverso quella porta, gettarmi nelle acque dell’oceano, mangiare frutti freschi, fare sesso per amore e non per diversivo. Adesso il cuore batteva ad un ritmo differente. Il mio corpo era pieno di una strana e nuova energia; mi sembrava quasi di essere leggero, che da ogni poro del mio corpo venisse fuori un flusso che poteva devastare ogni barriera, sbaragliare mille e mille stuoli di scarlatti e corvi. Potevo, potevo!
Cercai con lo sguardo le pareti, lontane, della stanza. Forse la porta per uscire era evidenziata da un alito di luce, da un segno qualunque. Sforzai gli occhi. Incontrai il primo crocefisso, un ragazzo che era cresciuto nella cella vicino alla mia e che proprio non riusciva a rassegnarsi al lavoro, che era già alla terza volta in croce e che, ne ero ormai certo, sarebbe morto lì; incontrai una donna, una molto bella che gli scarlatti avevano colpito con altro metallo e che molti di noi avevano finto di non vedere sistemando meglio la maschera; vidi qualcosa, della carne agitarsi sbranata da vermi e mosche di ogni tipo: era già lì da qualche giorno e nessuno si era preso ancora la briga di staccarlo. Non sapevo cosa potesse succedere se mi fossi lanciato contro la parete e, affannosamente, avessi cercato la porta col tatto: non esistevano racconti di quelle imprese, forse perché non esisteva alcuna porta. Ma, se vi fosse stata, quale sarebbe stata la punizione per chi attraversava la porta? Forse ti avrebbero scuoiato lentamente, forse ti avrebbero fatto a pezzi piccoli piccoli o, forse, nulla, proprio nulla, chissà.
Ma, poi, se avessi trovato quella fottutissima porta, se, per fare un’ipotesi folle, avessi trovato quello che poteva esserci, cosa avrei fatto dopo? Sì, le corse a mare, il cielo, la luce della lampada del cielo ma poi? Magari fuori c’erano bestie feroci che non aspettavano che la mia carne, magari l’aria era contaminata e, dopo una sola inalata, sarei morto sul colpo o fra atroci sofferenze. E poi, quanta solitudine, in quel mondo esterno privo dei miei simili, quanta insostenibile sofferenza a non vedere nessuno che mi somigliasse…
Sorrisi del mio fantasticare. Era stato uno stupido delirio, bello, forse, se fossi stato un bambino connesso ancora alla macchina della realtà virtuale ma adesso non era più il tempo di sognare porte, soffitti d’aria, acque sconfinate. La realtà è ruggine, puzza di ferro, stridere di metallo. La realtà è questa e non può essere cambiata.
Continuai a cercare con lo sguardo, adesso più vicino, fra le linee dei lavoratori. Le piramidi di ferro scorrevano lente tutte attorno a me, tranne alcune. A terra, proprio davanti a quelle, corpi con ancora la maschera sul viso; qualcuno da giorni. Ne scelsi uno; il più vicino, e filai verso di lui quanto più velocemente potei. Quando toccai la carcassa, sentii la pelle gelida del vecchio scorrermi sotto le mani, quasi non fosse qualcosa che apparteneva alla carogna ma un capo che era stato calato su quella carne gelida. Lo staccai dalle catene e lo misi da parte; poi mi preparai a mettermi al suo posto e ricominciare a lavorare.
Lo guardai un attimo, abbandonato lì vicino. Chissà quanto tempo sarebbe rimasto lì a marcire prima che lo portassero via e, magari, una volta scopertolo, mi avrebbero accusato di essere stato io a fargli del male per rubargli la piramide che lui aveva spinto per anni e che, in effetti, era un poco più avanti della mia. Lasciai di nuovo le catene e presi di nuovo la carcassa con le mani; il suo contatto, strano e sgradevole, quasi mi fece vomitare. Mi feci forza. Lo presi con facilità, lo portai alle mie catene e lo legai mani e piedi ai ferri che avevano ceduto quella mattina alle mie spinte.
Tornai indietro. Guardai tutti i miei simili dare le loro spinte secondo il ritmo di una danza che trovai affascinate: era la mia. Mi sentii rassicurato, felice come se fossi tornato a casa dopo un lungo viaggio per un mondo pieno di pericoli. Lì sarei potuto morire ad ogni istante, ad ogni angolo, per una freccia avvelenata, per un masso caduto dall’alto; qui ero al sicuro, a casa mia; non poteva succedermi nulla. Feci un profondo sospiro; l’odore familiare mi colmò di gioia. Mi illuminai del più caldo e dolce dei sorrisi; cominciai a spingere.