Un movimento? Sì, ma uno tsunami

di Antonio Volpe

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Si sente ripetere sempre più spesso, dall’interno del movimento antispecista, che la lotta per la liberazione insieme non umana e umana sarebbe un tentativo di fornire alla lotta per i non umani un’ipocrita aura di legittimazione, facendo l’occhiolino a movimenti antropocentrici che si occupano in realtà di umani soltanto e delle altre specie se ne infischiano. Le loro grigliate sono a base di salcicce di maiale e non di seitan.
Un inganno messo in atto da alcuni liberazionisti antispecisti che si ritorcerebbe contro lo stesso, intero, movimento, dato che i movimenti antropocentrici a cui si fa l’occhiolino sono più forti, e sono capaci di prosciugare e fagocitare, o almeno snaturare nelle sue intenzioni e nella sua essenza, il movimento antispecista. Ingannati così gli ingannatori e tutti gli attivisti.
Fra chi sostiene questa tesi c’è chi afferma apertamente che gli umani siano parassiti del pianeta e, che la prospettiva in cui si collocano questi argomenti sia l’estinzionismo attivo o meno, violenza e crudeltà umane siano esclusive e insanabili. Altri, invece, che anche gli umani soffrano – anche se meno dei non umani – e – sempre meno dei non umani – siano colpiti dall’ingiustizia: ma, sic stantibus rebus, l’antispecismo deve viaggiare per conto suo. Siamo liberi di occuparci di migranti, donne e popoli bombardati, ma separatamente da vacche, ermellini e cavie da laboratorio. Se proprio devi andare alla manifestazione della Fiom, guai a metterti una maglietta dell’ALF. Viceversa, a una manifestazione contro la costruzione di un macello, è sconveniente presentarsi con un cappellino di Emergency. E comunque, se sei un attivista antispecista degno di questo nome, meno confidenza con sindacati e pacifisti e più presidi per gli animali.
Al fondo di questa confusione che alcuni liberazionisti radicali avrebbero generato, ci sarebbe l’errata convinzione che dominio e sfruttamento animale da una parte, dominio e sfruttamento umano dall’altra, si intreccerebbero secondo strategie multiple, ma saldate fra di loro, o – ancora peggio – secondo la logica di un’unità originaria. In realtà la necessità della liberazione umana sarebbe uno dei cosiddetti argomenti indiretti: come la salubrità della dieta vegan, la difesa dell’ambiente, la presunta falsità scientifica della sperimentazione animale, ecc… che non si riferiscono direttamente agli animali e non operano direttamente per la loro liberazione, ma cercano di sostenerla attraverso strategie discorsive che aggirerebbero la questione in sé. Detto altrimenti, una manovra un po’ sporca per giustificare la liberazione animale e richiamarvi obliquamente chi non ne è davvero interessato.
Mi si perdoni a questo punto una nota autobiografica: quando sono entrato nel movimento antispecista, a fare per me da “parola guida” era il bello slogan dell’ALF «Animal Liberation/ Human Liberation», e ad entusiasmarmi che fra le linee guida di questo gruppo informale e molecolare ci fosse il “divieto” di nuocere, durante le liberazioni dirette, a qualsiasi essere vivente: il sottotesto che leggevo perciò nello slogan di cui sopra era «Animal Liberation is Human Liberation»: cosa sono infatti gli “umani”, se non animali? In effetti chi critica la necessità di pensare e praticare insieme liberazione animale e umana, non fa che ripetere specularmente la l’artificiale separazione antropocentrica fra la specie umana e tutte le altre. L’uso stesso del termine “animale” contrapposto a “umano” in questo contesto non fa che rafforzare questo antropocentrismo di ritorno. Basterebbe questo a far cadere a pezzi le critiche che abbiamo elencato. Ma manca ancora una dimensione, diciamo, di profondità, per cogliere tutta l’estensione del cripto-specismo implicito nella posizioni da cui muovono quelle critiche. La parola antispecismo è stata coniata sul modello di termini come antirazzismo e antisessismo. Essa si riferiva all’inizio semplicemente alla discriminazione di specie. Ma negli ultimi anni essa ha cambiato progressivamente tonalità, accennando sempre di più alla caduta della tassonomia del vivente. Detto altrimenti antispecismo suona sempre di più come rifiuto di mettere le categorie di specie davanti alla singolarità in relazione dei singoli viventi, nella loro incalcolabile pluralità.
Questo implica ovviamente che criticare chi si batte per umani e non umani insieme ha ancora meno senso. Non solo non ci sono l’uomo e l’animale, animali umani e non umani, ma non ci sono che singolarità irripetibili insussumibili in specie e forse neanche regni: l’esistenza, nel senso di vita senziente esposta nelle relazioni, resta una stella polare per la ricerca e la lotta antispecista. Ma la trasgressione dei confini categoriali scuote perfino le frontiere fra organizzazioni della vita e della materia apparentemente incommensurabili. Si tratta forse persino, senza dimenticare affatto le differenze, di andare oltre ciò che chiamiamo vita, e ripensare la differenza e insieme la compresenza di organico e inorganico. In questo senso il pensiero di Deleuze[1] (ma anche – non stupisca – quello dello Heidegger della Cosa e della Quadratura[2]) può aprire vie inaudite, sulle traccie delle quali Massimo Filippi, Filippo Trasatti e, da un altro accesso, Matthew Calarco, hanno incominciato a incamminarsi.
Si direbbe quasi che si tratti di ripensare e fare una diversa esperienza di tutto. E in effetti si tratta di questo, per un pensiero e una prassi dell’esistenza davvero radicali, cioè senza radici e davvero liberanti.
In questo senso il ricorso a pensatori libertari classici, come gli anarchici storici, o certi radical-democratici, può servirci fino a un certo punto, oltre il quale essi si rivelano svianti. Allo stesso modo le categorie classiche della lotta politica, compresa quella disobbedienza civile di cui tanto si dibatte ultimamente, e, più spesso, si chiacchiera. Sapere di essere situati in una catena plurale di trasmissioni di saperi, idee della natura delle cose, pensiero, etiche e prassi è tanto necessario quanto la consapevolezza di essere abbandonati ad un orfananza irrimediabile di tradizione e maestri. La trasmissione è ormai disseminata, debordata fuori da ogni principio di autorità. Il passato ci riguarda, ma già il futuro ci getta in avanti verso l’ignoto.
Princìpi e categorie scoppiano, i prìncipi decadono e la singolarità si libera spargendosi sconfinatamente. Che attorno ad essa la morsa del potere sembri stringersi sempre più forte e secondo strategie sempre più sofisticate è solo la dimostrazione di questa deflagrazione in atto, la quale apre una contesa planetaria dall’esito sommamente incerto.
Noi non siamo profeti e non ci occupiamo di chiaroveggenza. Ma il presente impone di riconoscere che senza un movimento di ampie dimensioni, plurale e insieme convergente, la battaglia contro un potere sempre più raffinato e brutale è persa in partenza. Un movimento come quello no-global – o più correttamente new-global – ha per alcuni anni messo seriamente in dubbio che il destino del mondo potesse uno solo, necessariamente biocapitalista e neoautoritario. I pestaggi di Genova e la retorica emorragica dell’11 settembre (riassumibile nella formula l’Occidente superi le divisioni per difendersi dalla barbarie che lo minaccia), le guerre infinite (infinite non solo perché la macchina bellica non si ferma mai, ma anche perché non c’è modo di stabilire, a fronte delle guerriglie che tengono testa ai droni occidentali, quando finisca una guerra, quanto avvenga una pacificazione), la crisi economica che immiserisce i più e arricchisce i pochi potenti, hanno spazzato via quell’esperienza, di cui scorrono ancora solo alcuni rivoli.
Il movimento antispecista non può che crescere all’interno in un nuovo grande “movimento dei movimenti” che si occupi di tutti gli esistenti del pianeta, e della loro casa: non di proprietà, né in affitto, ma estranea, che li ospita come viandanti. Sarà sempre più difficile per chi si batte per una giustizia che non sia privilegio, distogliere lo sguardo dai non umani. Non si tratta però ora di sfruttare l’onda del recente consenso (o della simpatia) antispecista per andare a distribuire volantini alle manifestazioni o giornaletti porta a porta. Non si tratta di stipulare accordi tattici con chi si occupa degli umani. Si tratta di incontrarsi nelle intersezioni del potere che coinvolgono umani e non umani in un nodo stretto e soffocante sebbene per lo più nascosto. Come evidenziano Filippi e Trasatti nel recente Crimini in tempo di pace[3], chi “smonta” gli animali è a sua volta smontato dalla catena di produzione materiale e immateriale del lavoro in regime biocapitalista. Ma lo stesso destino è quello di chi monta, assembla merci, siano esse materiali o immateriali, oggetti o servizi. Materialmente, catena di montaggio delle merci e di smontaggio dei corpi animali non umani sono nate insieme a ancora oggi si scambiano tecnologie e modelli di organizzazione del lavoro. I laboratori di vivisezione sono luoghi di smontaggio della vita nella sua profondità biologica, a partire dai saperi riduzionisti che li organizzano, saperi incapaci di pensare i corpi viventi se non come somma di pezzi, organi e sistemi articolati fra di loro in macchine (sofisticate, certo, ma macchine), così come dall’industria pesante a quella tecnologica sono macchine ad essere costruite. Nell’alienazione del lavoro, anche di chi sta più in alto nella gerarchia socio-lavorativa ed è preso nell’immensa catena di montaggio-smontaggio immateriale a cui è ridotto il pianeta, ciò a cui è consegnato è esattamente una catena di smontaggio dell’esistenza e dello sguardo. Che di recente capiti che nell’incontro con lo sguardo altrui dell’animale non umano, a volgersi verso uno altro guardare sia l’occhio umano, che questo capiti più che in passato è segno della possibilità di riconoscersi in una comune vulnerabilità ontologica e insieme nel comune stato di sfruttamento sociale ed esistenziale. Se sia possibile riconoscere l’estorsione dell’e-sistenza come esposizione di tutti gli esistenti singolari gli uni agli altri, cioè come estorsione delle relazioni negate da un sistema che ci vuole tutti atomi irrelati in concorrenza gli uni contro gli altri, e se questa nuova esperienza dell’essere-in-comune e della sua distruzione possa diventare la base molteplice e frastagliata di una nuova con-divisione nella e della lotta è ancora indecidibile: materia, appunto, del possibile e non del certo. Ma tale condivisione che trasgredisce le categorie di specie, genere, cultura, provenienza ed esibisce la singolarità in quanto tale nella sua esposizione a tutti gli altri è l’unica possibilità oggi per riportare alla lotta quelle moltitudini care a Toni Negri[4] che hanno scosso il mondo più volte a cavallo degli ultimi tre secoli pretendendo l’innominabile e o-scena (cioè messa fuori scena) parola giustizia.
Insomma, quella cosa che chiamiamo antispecismo, se non si riduce alla sua versione neoanimalista e criptoantropocentrica, ma pratica la trasgressione categoriale in direzione della singolarità plurale, può riaccendere la speranza di un’opposizione planetaria al dominio biocapitalista.
Per un movimento simile l’unico anarchismo ormai possibile, al di là delle molteplici tradizioni di provenienza, è l’azione in assenza di principi, un an-archismo dei fondamenti, una politeia dello sradicamento che cor-risponda alla vertigine delle relazioni e dell’ogni volta delle relazioni, cioè degli incontri nel loro rischio. Non ri-fondazionista (come lo sono il pensiero e la proposta pratica identitarie del neoanimalismo), ma de-fondazionista, decostruttiva, che abbia iscritte nella proprie pratiche de-costituzione, de-istituzione e diserzione. Un esodo, un congedo dalle istituzioni e dalla politica istituzionale che non sia distruzione-e-ricostruzione della sovranità, ma erosione di essa proprio in nome di una giustizia senza giustificazioni a priori. Non microcomunità vegane di resistenza ultima, come vecchi bastioni di giapponesi dispersi fra le isole del Pacifico convinti che la guerra in atto sia ancora quella finita da un pezzo.
Soprattutto c’è bisogno di un movimento immenso. Non bisogna temere di pronunciare questa parola, non bisogna temere di cadere nell’utopia, e neppure attendere qualche miracolo della storia che lo coaguli. Si tratta solo, benché sia un azzardo tutt’altro che facile e certo, e al contrario assolutamente rimesso al rischio, di portare fuori dall’occultamento l’interdipendenza denegata delle lotte e di un destino comune, tanto più in un momento di spoliazione collettiva estrema come raramente ne ha conosciute la storia, se non nella storia atroce del colonialismo che ora si ripete persino nel suo centro di irradiazione. Come dicevo, siamo rimessi al rischio. Nessuno ci garantisce l’incontro né tanto meno il suo esito fra moltitudini al momento tanto separate dal potere. Ma è l’unica possibilità che abbiamo, in quanto animali umani e non umani (che non smettono di resistere e rivoltarsi), in quanto singolarità che eccedono perfino il proprio nome, com-parendo in un silenzioso “eccomi”. Non si tratta di aspettare qualcosa, ma di aprirsi davvero all’immensità del rischio della relazione e dell’incontro, aprendo varchi nella presa dei poteri.
Che, nonostante il potenziale della moltitudine del movimento antispecista, questo non stia avvenendo, è un fatto evidente coperto da mille alibi e scuse.

Certo, bisognerà pure aspettare i soliti momenti propizi. Ma, pure, questi momenti andranno in qualche modo preparati.


[1] Cfr l’ormai più che classico Gilles Deleuze-Felix Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2010.

[2] Cfr in particolare il saggio «La cosa» in Martin Heidegger, Saggi e discorsi, trad. it. G. Vattimo, Mursia, Milano 1970. Dove per l’autore a stare nel gioco di specchi di divini e mortali sono anche cielo e terra, disseminati nella pluralità dei loro fenomeni concreti, potremmo dire perfino “materiali”.

[3] Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Eleuthera, Milano 2013.

[4] Qui il riferimento inaggirabile è ovviamente Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, trad. it. di A. Pandolfi e D. Didero, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2003. Si noti che sia singolarità che moltitudine sono termini che risalgono alla filosofia di Spinoza, e sono ripresi innanzitutto da Deleuze.

Comments
6 Responses to “Un movimento? Sì, ma uno tsunami”
  1. Sergio ha detto:

    Direi perfetto!

  2. simulAcro ha detto:

    Analisi ed esposizione perfetta. Concordo pienamente.

    Trovo anche molto pertinente e “azzeccato” il riferimento a Deleuze/Guattari (“Capitalismo e schizofrenia. Millepiani.” è un’opera quanto mai attuale, che ha ancora molto da dire).

    Mi pare invece più “rischioso” il riferimento a Hardt/Negri (“Impero”), in quanto potenziale portatore di equivoci: l’approccio “classico” di fondo, forse un po’ troppo marxista/materialista/razionalista e antropologicamente “superato” (v. Sahlins, Clastres), rischia di tenerci ancorati ai (falsissimi) postulati di una natura “ferale” e di ineluttabilità di una società “divisa” (con strutture gerarchiche di potere “staccate”)…

    Ad ogni modo, questa da sola “vale” l’articolo (e me la metto in “memoria”):
    “la trasgressione categoriale in direzione della singolarità plurale, può riaccendere la speranza di un’opposizione planetaria al dominio biocapitalista”.

    Saluti
    A

    • derridiilgambo ha detto:

      Ti ringrazio.
      Sul superamento di Hardt e Negri i problemi che poni non sono peregrini. Ma loro sono gli unici per ora a permetterci di adoperare certe parole con una declinazione fortemente politica.
      Ovviamente, anche se non citato, io mi rifaccio molto a Nancy, soprattutto al Nancy lettore di Heidegger, e tento di radicalizzare entrambi. Ma Nancy è un pensatore “impolitico” per eccellenza: cioè non a- o anti-, ma che lavora sui margini del politico. Il che permette ai suoi testi una penetrazione politica inaudita, ci mancherebbe.
      Hardt/Negri ci propongono invece, incrociando vari vettori della tradizione filosofica, che possiamo fare politicamente. Quantomeno, nell’impianto del loro lavoro, la nozione di moltitudine può dirci come si può presentare la singolarità plurale nella lotta. La trovo la meno viziata delle parole pensate oggi dalla politica, idea filosofico-politica di messa in arresto di Agamben a parte.
      Indubbiamente servirebbe un grosso lavoro di scavo dei testi di Hardt/Negri che per ora non posso permettemi, ma è certamente necessario. Nonostante tutto il loro deleuzianismo, c’è un elemento di fondazionismo malcelato, per di più, che fa problema ulteriore.
      Per ora mi permetto di utilizzare quella stupenda parola astraendola un po’ dall’impianto complessivo del loro lavoro, riconnettendola alla singolarità plurale di Nancy.
      Perdonami il peccato. Al pensiero tocca “temporeggiare” (Derrida)

      • simulAcro ha detto:

        Grazie a te.

        In questo discorso, pare anche a me molto importante il richiamo a Nancy, sia rispetto ai concetti di ‘moltitudine’ e di ‘singolarità plurale’ (ma anche per le idee di ‘finitezza non-soggettiva della libertà’ e per la visione ontologica della ‘nuda esistenza’ e altro ancora), sia perche “risolve” il problema del “fondazionismo malcelato” (con Hardt/Negri) che hai evidenziato (andando alla radice di ciò che indendevo nel mio commento precedente).

        Ti ringrazio per aver meglio esplicitato le “motivazioni” circa il richiamo a Hardt/Negri fatto nell’articolo: detta così non ci dovrebbe più essere il rischio che chi legge possa “equivocare”.

        Approfitto per toccare un altro punto.
        Mi ritrovo, per varie ragioni, nell’affermazione che “il ricorso a pensatori libertari classici, come gli anarchici storici, o certi radical-democratici, può servirci fino a un certo punto”.
        Allo stesso tempo ho la sensazione che tra antispecismo (“politico”) e forme più moderne di anarchismo ambientale/ecologico (penso, giusto come esempio, all’ecologia sociale di Bookchin) vi siano, e vi possano essere, connessioni e intrecci -di pensiero, di ispirazione e prassi- molteplici e profonde.
        Credo sia un territorio vasto che forse meriterebbe di essere esplorato più a fondo. Anche questo un lavoro arduo…

        A

        Ps: Mi permetto di farti i complimenti per il tuo lavoro e i tuoi articoli.

  3. derridiilgambo ha detto:

    Ti ringrazio molto.
    Il pensiero ha però bisogno di tempo e di maturare in esso, nel costante pericolo del fallimento.
    Qui siamo ancora a un passo preliminare. Spero di non inciampare troppo nel cammino 🙂

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