Il dibattito antispecista si arricchisce. Ma non in Italia.
di Alberto Pitton
Le voci nel panorama antispecista internazionale si moltiplicano e, per fortuna, non solo all’interno del “movimento”. Anzi, la penetrazione della questione animale anche in ambito accademico ha prodotto una serie di interventi, studi e tendenze che vanno ad arricchire il panorama asfittico dei “classici”, proponendoci una serie di problemi e soluzioni inedite. Lungi dal configurare una sorta di “annacquamento” del pensiero antispecista, come paventato da alcuni, la diffusione dei problemi da esso sollevati nei Dipartimenti universitari, nei gruppi di ricerca, nei convegni ecc. sta producendo una capillare diffusione delle sue istanze che, seppure ancora largamente minoritarie e non ancora accettate, non possono più essere ridicolizzate e ignorate. È triste che, della ricca produzione internazionale nelle sue varie correnti, in Italia si sappia ancora ben poco, complice probabilmente un duplice effetto regressivo: da un lato, una certa allergia alla riflessione teorica (per cui tutto ciò che non si traduce in attivismo qui e ora diventa “perdita di tempo”…come se un corso universitario frequentato da centinaia di studenti che vengono per la prima volta a leggere di argomenti antispecisti in modo serio e non attraverso un volantino fosse qualcosa che non dovrebbe rallegrarci, per dirne una); dall’altro, una certa tendenza dei nostri pensatori antispecisti a pensare più al proprio successo personale che all’interesse della causa: così si diffondono “marche” di antispecismo acchiappatutto invece di mostrare quanto complesso e articolato è (e dovrebbe essere) il dibattito attualmente in corso.
Con questo breve intervento non pretendo certo fare una disamina anche solo approssimativa di ciò che bolle in pentola ma presentare alcuni nodi problematici che altrove sono già stati affrontati e sono luogo comune della riflessione antispecista, mentre da noi sono appannaggio di una esigua minoranza. In particolare mi sembrano interessanti i temi relativi alla “virtù” e alla “natura” umane.
In ambito etico si è negli scorsi decenni affermata una tendenza che si rifà all’etica della virtù (di matrice aristotelica ma non solo) e che si è di recente confrontata con la questione dei diritti animali. Si pensi, ad es., a lavori come quelli di Rosalind Hursthouse [1] e di Martha Nussbaum[2]. L’etica della virtù, detto in soldoni, considera concetto morale fondamentale quello della definizione di ciò che costituisce il perfezionamento di un essere. Le “virtù” sono ciò che vanno a costituire le potenzialità che ci definiscono: la virtù, in generale, consiste dunque nella capacità di coltivare le nostre potenzialità, di farci raggiungere la pienezza di ciò che siamo/possiamo essere. Opposto alla virtù è dunque sia ciò che, internamente, ci svia da tale realizzazione di noi stessi (il vizio) o che, esternamente, ci impedisce di farlo (l’ingiustizia). Il contributo fondamentale di questi autori alla discussione sui diritti animali è sia di tipo critico che propositivo. Dal punto di vista critico, perché spostano il discorso dalla sua fissazione alla definizione del soggetto morale. La Hursthouse ha ben chiarito quali sono i limiti di ogni discorso etico che si imperni sulla determinazione del soggetto morale: inevitabilmente esso finisce nell’astrazione e nell’arbitrio. Perché ogni volta che pongo, sulla base di qualsivoglia argomentazione, una serie X di soggetti come soggetti morali, ecco che si dischiude l’immenso campo di tutti i non-X che non lo sono e che non lo sono senza alcuna differenziazione al loro interno. Al pari della famigerata distinzione kantiana tra “persone” e “cose” che astraeva completamente da tutto ciò che poteva differenziare le “cose” (fossero essi mammiferi, insetti, piante o sedie), la ricerca delle qualità del “soggetto” come discrimine dell’azione morale inevitabilmente deve riprodurre un vasto campo di non-soggetti che, a fronte della propria infinita differenziazione, saranno tutti omologati in una massa indistinta. In secondo luogo, l’etica della virtù sottolinea sempre l’importanza del contesto dell’azione, perché l’applicazione del criterio in base a cui qualcosa va a vantaggio o a detrimento di un essere non può che definirsi di volta in volta. Erede della cautela empiristica di Aristotele, all’astrazione della ricerca di una soggettività morale, l’etica della virtù contrappone una pluralità di esseri aventi tutti delle specifiche virtù da poter/dover sviluppare e nei cui riguardi si apre un campo amplissimo di casistiche che non è possibile ridurre a qualche formula a priori. Certo, l’etica della virtù si concentra sull’umano – l’unico di cui abbiamo diritto di parlare – e si preoccupa di sviluppare la nozione di ciò che l’uomo deve ritenere giusto. Si tratta forse di una visione antropocentrica? Non necessariamente, spiega ancora la Hursthouse. Dal fatto che l’unica virtù di cui ci possiamo attivamente occupare e sviluppare sia la nostra non consegue né che solo noi umani possediamo delle virtù né che tutto ci sia permesso, né che dobbiamo chiuderci in noi stessi: perché mai, infatti, il rispetto e la curiosità verso il diverso non dovrebbe costituire una virtù e, dunque, qualcosa che è giusto perseguire, così come il contrario sarebbe da condannare?
La posizione della Nussbaum, che ha lavorato a stretto contatto con l’economista Amartya Sen, si muove invece in direzione di una maggiore determinabilità fattuale di queste potenzialità (che nel discorso teorico sulle virtù inevitabilmente rimangono nel vago). La Nussbaum parla di “capacità” (Capability approach) e si sforza di definirle come i presupposti di uno “sviluppo” (flourishing) adeguato della natura umana. Ne elenca dieci (seppure tale elenco non viene da lei considerato né esaustivo né immodificabile) e ognuna definisce un caratteristica della vita che si deve essere messi in grado di sviluppare fino in fondo, senza arbitrarie distinzioni determinate dal potere e dalla discriminazione: la vita stessa, la salute, l’integrità corporea, la sensibilità/l’immaginazione/il pensiero, le emozioni, la ragion pratica (cercare il bene e discutere razionalmente le finalità della propria esistenza), l’affiliazione, coltivare il rapporto con le altre specie (il che implica anche il prendersene cura, agendo in modo responsabile), il gioco, la possibilità di esercitare un controllo sul proprio ambiente in senso politico e materiale (diritto ad un’equa distribuzione della proprietà ecc.). L’importanza che la Nussbaum attribuisce al suo “approccio delle capacità” nell’ambito dei diritti animali ha, di nuovo, una dimensione critica e una propositiva. La critica che la Nussbaum rivolge, soprattutto all’approccio utilitaristico di Singer, è quello di non tenere in considerazione ciò che nell’individuo è irriducibile ad un calcolo aggregato dell’utile sociale. In altri termini, laddove per Singer è possibile sacrificare alcuni individui o classi di individui nell’interesse di un calcolo collettivo dell’utile a misura della loro incapacità o minore capacità di provare dolore o di avere interessi, l’approccio difeso dalla Nussbaum vorrebbe spostare invece il discorso sulle potenzialità di sviluppo di tutti gli attori coinvolti ponendo così un baluardo ad una loro possibile squalificazione preventiva (senza però ricorrere alla nozione reganiana di “valore inerente”).
Il dibattito che si è in seguito sviluppato ha mostrato come il campo dei problemi posti sia intricato e che costituisca anche un modo di chiarire posizioni che preventivamente erano state giudicate forse troppo frettolosamente. Singer, ad es., ha risposto alla Nussbaum in un interessante articolo[3] che getta una luce nuova sulle implicazioni politiche del suo pensiero. La critica fondamentale che Singer muove al capability approach è di non definire in modo adeguato l’oggetto del suo interesse o, meglio, di definirlo in modo arbitrario e non cogente. Non tutte le potenzialità di un essere, infatti, si sviluppano e non tutti i limiti allo sviluppo delle potenzialità inerenti ad un essere possono essere giudicate come ingiuste. In che modo è possibile identificare e definire quelle capacità che, una volta bloccate, impediscono il libero sviluppo dell’umanità (o dell’animalità propria) di un individuo? Chi dovrebbe decidere di ciò e in base a quale criterio vincolante? A tutto ciò, come noto, Singer dà una risposta semplice ed empirica: non c’è altra istanza che la libera scelta del singolo, nella misura in cui è capace di provare piacere/dolore, di perseguire gli interessi che egli considera essenziali alla propria realizzazione. Vediamo così in azione un paradosso. Da un lato, l’etica della virtù e la Nussbaum in particolare, si muovono contro una possibile deriva totalitaria dell’utilitarismo singeriano: se, infatti, il calcolo dell’utile sociale deve avere la meglio sulle pretese del singolo a misura della sua ridotta capacità di provare piacere/dolore, si apre la strada all’invasività biopolitica di uno Stato che “protegge” nel momento stesso e con lo stesso atto con cui “distrugge” la vita. Dall’altro però, la visione di Singer contiene un elemento di irriducibile democrazia radicale quando fa poggiare uno stato sociale ottimale sulla scelta libera ed esclusiva dell’individuo, al di fuori di ogni visione paternalistica che pretenderebbe imporre dall’alto ciò che è bene per gli individui. Il potere non può decidere in nome del bene della “natura umana” poiché la definizione di quest’ultima si presterebbe sempre ad abusi e a interpretazioni di parte.
Oppure no? Un altro campo di indagine che ha avuto notevoli sviluppi negli ultimi anni è quello relativo all’enhancement (o “potenziamento”). La distinzione tra natura e cultura, tra naturale e artificiale è stata messa in discussione da tempo e sempre meno costituisce un criterio univoco di definizione e soluzione dei problemi bioetici ed ecologici. Se dobbiamo definitivamente abbandonare al romanticismo il sogno di una natura “pura” e “incontaminata”, il vacillare dell’opposizione tra naturale e artificiale porta delle conseguenze di cui ancora fatichiamo a misurare la portata. Ne abbiamo avuto un assaggio nel primo numero della rivista Animal Studies, in cui gli studiosi Arianna Ferrari e Adriano Mannino hanno dibattuto dell’enhancement soprattutto in riferimento alla sperimentazione animale[4]. Dalla prospettiva post-humanista e consequenzialista difesa da Mannino, infatti, la nostra stessa capacità tecnologica di ridurre il dolore – sia nella specie umana che nelle altre specie – ci obbliga moralmente a perseguire le strategie pratiche di riduzione di tale dolore anche attraverso la sperimentazione animale. Ovvio che tale visione, anche se idealmente giusta (e anche questo non è scontato) si scontra con l’attuale situazione politico-economica di sfruttamento della vita animale e dunque fa bene Arianna Ferrari a sottolineare i limiti e i pericoli di tale approcci. Ma il discorso può essere portato anche oltre e non è più possibile non affrontare anche l’estrema conseguenza della nostra capacità tecnologica. Julian Savulescu e Ingmar Persson, ad es., lavorano in direzione di una teoria del “potenziamento morale” (Moral Enhancement)[5]. Il punto di vista di questi autori può apparire sconvolgente ma non può essere ignorato con un’alzata di spalle o rigettato con stizza. Essi muovono da una nozione di “natura umana” molto diversa da quella dell’etica della virtù e, in parte, da quella discussa da Singer (se si escludono le avventurose parentesi “sociobiologiche” di Expanding Circle e di A Darwinian Left): essi affrontano il problema in termini neodarwiniani e dunque discutono di natura umana in termini biologici ed evoluzionistici. Ed ecco allora che l’essere umano appare un animale la cui evoluzione storica ha surclassato i limiti imposti da quella biologica. Non solo in termini tecnologici disponiamo ormai di un potenziale distruttivo che è largamente sfuggito al nostro controllo e per il quale non siamo stati, per così dire, “programmati” dall’evoluzione; ma anche in termini sociali ci troviamo a gestire situazioni molto diverse e molto più complesse e difficili di quelle cui ci ha preparati un’evoluzione fatta per piccoli gruppi ristretti. La nostra disposizione morale e le nostre possibilità di comprensione e di scelta rispetto alle dinamiche in corso, quindi, si rivelano ridicolmente inadeguate. Ed ecco allora che la prospettiva di un intervento biotecnologico volto al potenziamento della nostra natura morale non solo appare possibile ma addirittura desiderabile e necessaria se si vogliono impedire catastrofi a venire. Anche in questo caso il discorso degli autori non è scevro di ambiguità e difficoltà. Non ultime quelle relative a chi/come dovrebbe gestire il processo auto-poietico di superamento dell’attuale natura umana, con quali garanzie di democraticità ecc. Tuttavia, come accennato, anche laddove le analisi e le soluzioni proposte non sono accettabili, appare chiaro che il dibattito antispecista non potrà in futuro che allargarsi e affrontare di petto questioni come quelle qui poste se non vuole ridursi ad un provincialismo che lo relegherebbe nell’ambito delle questioni superate dalla storia.
[1] Rosalind Hursthouse, Ethics, Humans and Other Animals, Routledge, 2000
[2] Martha Nussbaum e Cass Sunstein (ed.) Animal Rights: Current Debates and New Directions, 2004; Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Roma 2007.
[3] Peter Singer, “Reply to Martha Nussbaum, Justice for Non-Human Animals”, The Tanner Lectures on Human Values, November 13, 2002: http://www.utilitarianism.net/singer/by/20021113.htm
[4] “La natura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – un dibattito” (interventi di A. Ferrari e A. Mannino), in Animal Studies- Rivista italiana di antispecismo, anno I, n. 1, pp. 74 e sgg.
[5] Julian Savulescu e Ingmar Persson, “Moral Enhancement”, Philosophy Now, Issue 91, July/August 2012: Human Enhancement
che dire? l’articolo e’ perfettamente allineato con l’immagine che l’introduce. Per quanto riguarda la tirata in causa di Arianna Ferrari – ditemi se sbaglio – non mi pare che essa abbia espresso solo “limiti e pericoli”, ma abbia fatto una vera e propria critica all’impostazione post-umanista.
non è chiaro il tuo intervento Aldo. Intendi il post-umanismo? Non pare che l’articolista avvalli il post-umanismo, anzi, nè pare abbia criticato la Ferrari…
si’, son stato un po’ troppo sintetico :-). Ma il pezzo che segue…
“Ed ecco allora che la prospettiva di un intervento biotecnologico volto al potenziamento della nostra natura morale non solo appare possibile ma addirittura desiderabile e necessaria se si vogliono impedire catastrofi a venire.” a me sembra avvalli il post-umanismo altrimenti non ho ben capito cosa sia tale prospettiva. Sulla Ferrari. Infatti non la critica. Semplicemente sottostima la sua risposta al post-umanismo riportata su Animal Studies n 1 che andava ben oltre, credo, alla presentazione di limiti e pericoli di quella corrente di pensiero. Cmq ho espresso delle sensazioni. Potrei anche aver frainteso.
Ma nella frase successiva a quella da te citata scrive: “Anche in questo caso il discorso degli autori non è scevro di ambiguità e difficoltà.” Sta riassumendo le tesi di Savulescu e Persson, non le sue! Siamo sicuri che nel numero di Animal Studies che citi Arianna Ferrari abbia criticato i presupposti ontologici ed etici del post-umanesimo e non la loro applicazione al campo della sperimentazione animale?
E’ interessante come è stato pensato il rapporto fra potenza ed atto da Agamben, per il quale l’atto non esaurisce mai la potenza, se non a costo di una fondazione totalizzante dell’agire. La questione è interessante per due linee di sviluppo del suo pensiero: da una parte quella dell’intelletto collettivo, che implica una comunanza di potenza che impedisce ogni riduzione della natura umana alla presenza, all’atto completamente compiuto. D’altra la lettura del rapporto paolino fra kathèchon ed éskaton, dove l’analisti tradizionale sulla “fine dei tempi” e ciò che la trattiene viene rovesciata in una paradossale “salvezza” che si sprigiona dal primo, cioè dalla “forza che frena”: anche qui in gioco c’è la prevalenza della potenza sull’atto, che lo mette in arresto, dispiegandosi in una potenza senza risoluzione. E’ la diversa angolatura dell’analisi della notte salva di Benjamin, in cui una volta che le anime sono risalite al cielo nel loro percorso di ritorno sulla strada della “processione” plotiniana, chi non ha anima e la parte non “animata” di tutti resta in una condizione enigmatica, di salvezza del suo essere insalvabile, cioè vulnerabile e mortale. Ciò che resta, in questa beatitudo senza salvezza è l’animalità stessa privata di trascendenza. Compimento che abbandona l’incompiuto, e quindi la potenza stessa incompiuta, sempre a venire. Mi pare che l’incrocio della riflessione di Agamben con l’utilizzo (annoso) dell’aristotelismo potrebbe darci, decostruttivamente, risposte inaspettate.
Sul potenziamento morale: sono quasi vent’anni che gli scienziati pensano a un futuro in cui viga un lamarkismo attivo, ovvero la capacità per gli stessi viventi adulti di modificarsi geneticamente durante il tempo della propria esistenza: qui siamo ancora prima della sfera morale, o al di là di essa perché il problema che si viene a porre è politico, e cioè: che regime disegnerà questo eventuale sviluppo della storia? Ovviamente se la condizione di partenza è la voraginosa disuguaglianza in cui siamo impiantati, un tale futuro non sarà che un potenziamento vertiginoso dei differenziali di potere che s’inscriveranno direttamente nella sfera biologica. Insomma chi avrà il denaro e il potere avrà ancora più potere e denaro fino a raggiunegere un gap senza ritorno. E’ la prospettiva di tanta fantascienza distopica, ma persino peggiore.
Il problema non è insomma solo come arrivare a questa utopia – se lo volessimo: ma sarebbe possibile una qualche decisione democratica al proposito? – senza massacrare miliardi di non umani. Questo stesso problema ricade infatti nella possibilità o meno di riafferrare la possibilità di un futuro di potenziamento biologico lamarkiano in direzione democratica ed egalitaria – e senza confini, anche se per ora sappiamo poco di cosa vorrebbero i non umani a proposito e manco come chiederglielo – oppure in un destino concretissimamente distopico-totalitario. Questione vertiginosa da pensare.
A cominciare dal capire se lo vogliamo o no.
“A cominciare dal capire se lo vogliamo o no.”
Questa è facile: NO!
La Ferrari oppone il transumanismo e critica una parte del discorso post-umano, ma non tutto! Sicuramente mi dissocio anche da Savulescu e Sandberg, transumanisti, e la loro specifica idea di “moral enhancement”. Forse sarebbe opportuno uno scritto nel quale chiarire le differenze fra i trans- e post-umanismi. …Stay tuned 😉