Etica? Scienza? Grazie, tutt’e due
di Alessandra Colla
Seguo da sempre il dibattito su AVS e AVE, ma confesso di non essere mai riuscita a coglierne il senso.
Per quanto mi riguarda (parlo come al solito a titolo personale) non può darsi scienza che non sia anche etica. Perché credo che a furia di tirare in ballo il logos si finisca per dimenticarsi del mythos: come diceva Giambattista Vico, «La storia riguarda le cose o le parole, l’etimologia dà la storia delle parole; la prima storia delle cose è la mitologia».
Così, “scienza” è la traduzione dal latino scientia, che deriva da scio, sapere. Ma scio riporta, secondo alcuni, a una radice sanscrita *ch che significa “tagliare”, come si vede meglio nel greco keìro (e a me viene in mente il francese scier, tagliare, segare). Dunque sapere significherebbe proprio “tagliuzzare, sminuzzare, separare le cose” per vedere come sono fatte. Il che suona come la perfetta giustificazione della scienza moderna.
Ma la differenza fondamentale tra gli antichi e i moderni consiste in un fatterello tutto sommato semplice — la consapevolezza e il riconoscimento del limite. Gli antichi ce l’avevano, i moderni no. Il rovesciamento della morale kantiana — non più «puoi perché devi» — ma «devi perché puoi», è l’esito ineludibile della morte di Dio: dove per “Dio” è da intendersi qualunque referente metafisico che dia ragione dell’agire umano oltre la dimensione biologica. Ritengo che non ci sia alcun bisogno di essere “credenti in” o “fedeli di” qualsivoglia religione per nutrire un sano rispetto nei confronti di ciò che non siamo in grado di comprendere.
L’incapacità di riconoscere l’esistenza di un limite è già un segno di immaturità; ma il rifiuto di farlo è qualcosa di ancora peggiore, è la hybris, l’oltracotanza ovvero lo spingersi in pensieri parole ed opere oltre il limite lecito statuito dalle leggi umane e divine. Nulla, per gli antichi, era più esecrabile.
La scienza senza limite diviene tecnica — mera attuazione di potenzialità, pura messa in pratica di fattibilità spinta all’eccesso senza presa in carico delle conseguenze, esercizio egoistico di volontà individuale, ostentazione di potenza non molto dissimile dal battersi il petto del gorilla dominante.
La tecnica è Efesto che dal fondo della sua fucina forgia armi e strumenti, in un’oscurità senza cielo e senza sole rischiarata dal fuoco della fornace e popolata di schiavi.
La tecnica è Prometeo che ruba il fuoco per darlo agli uomini — il fuoco ambivalente, rimedio e veleno al tempo stesso, datore di vita ma distruttore senza nessuno che lo controlli — il fuoco che Zeus non voleva donare agli uomini perché li giudicava non ancora pronti a riceverlo.
La tecnica è Faust, che vende l’anima — la coscienza, la responsabilità, l’accettazione della finitezza — per conquistare la “libertà di…”, antitesi perfetta e perfetta negazione della “libertà per…”.
La tecnica è l’apprendista stregone, incalzato dalle forze oscure che ha incautamente evocato e che non riesce a imbrigliare perché di fatto non le conosce — non le sa.
Vogliamo prendere in esame anche l’aspetto scientifico della S.A., e non soltanto quello etico? E sia. Volando più basso, ho sempre pensato che il principio di indeterminazione di Heisenberg trovasse pratica e profittevole applicazione anche al di fuori della fisica atomica e sub-atomica. In breve, Heisenberg sostiene che nel momento e per il fatto stesso in cui c’è un soggetto che osserva, l’oggetto osservato si modifica: quindi non sarà mai possibile nessuna osservazione oggettiva e attendibile, perché l’oggetto osservato risentirà sempre e comunque della presenza del soggetto osservatore.
Ora, credo che sia evidente a tutti come l’animale da laboratorio si trovi costantemente in uno stato alterato rispetto a quello “di natura”, per così dire. Sappiamo che la paura è data dal non sapere cosa sta accadendo, ovvero dal non sapere quale comportamento adottare per garantirsi la sopravvivenza: e sappiamo che l’animale conosce sostanzialmente due comportamenti — la fuga e la lotta. Quando non può mettere in pratica nessuno dei due, va in tilt. Letteralmente. Bombardato da una moltitudine di stimoli che non è “programmato” a riconoscere, subisce una serie di alterazioni organiche e comportamentali variamente complesse: non credo di dover essere io a spiegare agli “scienziati” quali profonde modificazioni intervengano in un organismo a seguito dell’alterazione dei parametri del sistema neuroendocrino. Il che, plausibilmente, esercita un’influenza determinante sulla risposta della cavia all’esperimento — con le conseguenze del caso.
Credo di non dire cose nuove, e mi chiedo perché di questo non si tenga conto in laboratorio o quando si magnificano le virtù della vivisezione.
Mi pare allora che emergano qui la solita arroganza e la solita presunzione di sapere che fanno da contraltare ideale alle considerazioni etiche precedentemente esposte: lo “scienziato” pretende — vuole, crede, s’illude — di manipolare la vita stessa, quando ancora non ha la più pallida idea di cosa essa sia in realtà. Avendo individuato alcune leggi fisiche e avendole codificate crede di conoscerle tutte. Avendo intravisto una parte, crede di aver compreso il tutto. Ma la Gestalttheorie insegna che «il tutto è più che la somma delle parti». E siamo daccapo…
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Appena la scienza si trova di fronte a oggetti non quantificabili (gli animali in questo caso), inizia a delirare.
Una critica alla scienza empirica attuale è fondamentale per una teoria antispecista credibile.
Bell’articolo.
Tempo addietro lessi alcuni articoli della LAV in cui si sosteneva proprio quello che dici tu, e cioè che gli animali usati nei laboratori non potranno mai dare risposte attendibili perché posti al di fuori del loro habitat e perché sollecitati da uno stress – fisico e psichico – indicibile.