Quel che accade quando due più due fa cinque
di Francesca Testi
Quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù e il codice dei duelli? Quanto è tornato o sta tornando? Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?
(P. Levi)
Cominciamo con una definizione.
Etica: termine introdotto nel linguaggio filosofico da Aristotele (ethikè theoria, per es. in Analitici posteriori, 89b 9) a indicare quella parte della filosofia che studia la condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte (in greco ethikos deriva da ethos, che significa appunto “comportamento, costume”). Per lo più, la filosofia non si è limitata a descrivere la condotta morale e i valori che la orientano, sebbene spesso abbia sostenuto di proporsi solo questo compito: essa ha anche inteso fornire indicazioni su quali criteri e valori devono essere rispettati da chi agisce.[1]
Esistono dunque due realtà parallele: la condotta effettiva e la condotta auspicabile. La prima dotata di valore quantitativo, è sicuramente la più diffusa e accettata, la seconda, invece, dotata di valore qualitativo, può non rispondere agli stessi aggettivi. Insomma, ciò che va chiarito è che non sempre l’ethos è l’unica scelta possibile.
Questo breve articolo non vuole di certo proporre risposte a quesiti immensi, ma solo tracciare il profilo globale di una questione. È possibile che la legge, interprete del senso comune di giustizia sia, in realtà, immorale? Se sì, come si orientano i comportamenti?
Dopo la Seconda guerra, e la tragedia della Shoah, il mondo fu costretto ad ammettere l’evidenza del più grande collasso etico mai ricordato. Di colpo i valori condivisi erano stati spazzati via per far posto a una logica di sterminio serrati alla quale, evidentemente, non si è stati capaci di opporre resistenza. I solidi cardini costruiti in secoli di riflessione filosofica, religiosa, giuridica e politica hanno smesso di guidare le scelte abbandonando le persone a quello che, di fatto, è stato un abominio legalizzato.
Che fine aveva fatto la morale condivisa? Perché nessuno è riuscito a opporsi?
Adolf Eichmann, responsabile della cosiddetta “soluzione finale”, ossia l’organizzazione e la messa in opera del trasporto degli ebrei verso i campi di concentramento, giudicato dal tribunale di Gerusalemme per crimini contro l’umanità e crimini di guerra[2] durante il nazismo, rispose in questo modo all’imputazione: “non colpevole nel senso dell’atto di accusa”.
Non colpevole? Eichmann non riteneva di aver effettivamente operato per lo sterminio di massa durante il regime?
Cambiamo – solo apparentemente – discorso e proviamo a tracciare brevemente il profilo di un altro argomento spigoloso e complesso, ossia il rapporto fra gli esseri umani e gli animali. Tutti gli animali.
Che il cane e il gatto accompagnino l’uomo dall’alba della storia è più che risaputo, ma tutti gli altri? Che ruolo hanno avuto e hanno?
Senza dubbio siamo portati a considerare gli altri esseri viventi non umani in due maniere assolutamente antitetiche, da un lato riconosciamo loro una natura senziente, dall’altro abusiamo delle loro vite come se non fossero altro che risorse da sfruttare per i nostri fini.
Incredibile è come uno stesso individuo sia al contempo chiamato mucca e carne, a seconda dell’utilizzo che se ne vuol fare.
Ovviamente il problema non è solo una sottile questione linguistica, distinguere tra un soggetto e un oggetto è essenziale per indirizzare i nostri comportamenti e, dunque, la nostra condotta morale. Se ho avanti a me un prodotto gastronomico di certo non mi pongo il problema di quali obblighi ho nei suoi confronti, il discorso cambia se mi rapporto a un soggetto senziente.
In questi termini ha senso interrogarsi sul rapporto fra uomini e animali non umani.
Quand’è che dovrei rispettosamente dissentire da qualcuno e quand’è che, nel nome di valori più profondi, dovrei prendere posizione e chiedere ad altri di unirsi a me? Quand’è che un determinato evento lascia spazio al dissenso di persone ragionevoli e quand’è che ci impone di agire? Non ho insistito sul fatto che mangiare animali sia sempre sbagliato per chiunque o che l’industria della carne sia irredimibile malgrado le sue incresciose condizioni presenti. Quali posizioni sul consumo di carne oserei dire che sono essenziali per la dignità morale?[3]
Il pensiero di Foer fa riflettere su una questione delicatissima, ossia la legittimità di prese di posizione opposte in termini di condotta morale nei confronti degli animali. È lecito e moralmente accettabile trattare un essere senziente come se fosse un oggetto? È lecito sfruttarlo, violentarlo, ucciderlo e mangiarlo per rispondere a nostre presunte esigenze? Davvero è solo una questione di punti di vista? Fino a che punto è giusto rivendicare le proprie posizioni, qual è il limite tra il legittimo esercizio delle proprie idee e l’invasione della libertà degli altri? E, ultimo ma non meno importante, tutte le scelte hanno pari dignità, o alcune contano più di altre?
Esistono, sono esistite, ed esisteranno ancora situazioni nelle quali la giustizia non coincide con la legge, o addirittura questi due termini sembrano andare in direzioni opposte. La risposta di Eichmann al processo di Gerusalemme ne è la prova, “non colpevole nei termini dell’accusa” significa proprio questo, equivale a spostare la responsabilità delle proprie azioni al di fuori della nostra sfera di competenza e non risponderne più, agire come semplici ingranaggi di un meccanismo insindacabile. È agghiacciante scoprire come gli esecutori di uno dei più grandi crimini legalizzati della storia non fossero persone crudeli o patologicamente sadiche, ma ordinari “impiegati” che si limitarono a svolgere un compito assegnato. Senza mai porsi il problema delle loro azioni.
Gli ebrei, gli omosessuali, i malati di mente erano solo scarti, soggetti indesiderati meritevoli di quel trattamento. Ucciderne uno, ucciderli tutti non era di certo considerabile un atto criminoso, ai loro occhi. Se qualcuno lì per lì li avesse interrogati a proposito, probabilmente avrebbero risposto così: “sono solo creature inferiori”.
Se crimini efferati e ingiustificabili sono già stati commessi da persone simili a noi, se questi crimini hanno già mietuto vittime innocenti con la sola colpa di essere considerate esseri inferiori perché oggi, qui, noi ci sentiamo protetti da questa crudeltà? Lontani e incontaminabili? È imperdonabile arrecar dolore a chiunque possa soffrirne, o è imperdonabile arrecar danno a un essere umano?
L’etica non può essere solo la descrizione di un costume, le tradizioni e la cultura hanno già dimostrato di essere troppo fragili per servire come unico riferimento. Occorre un fondamento più stabile se vogliamo costruire una giustizia che non resti vittima della contingenza, e questo fondamento non è da cercare al di fuori, ma in noi stessi. Come Eichmann, siamo sempre più insensibili al dolore che causiamo, forse è questo il nodo del problema. Scrive Hannah Arendt,
se prendete il caso di quei pochi, pochissimi, che durante il collasso morale della Germania nazista rimasero immuni da ogni colpa, scoprirete presto che costoro non hanno mai dovuto affrontare alcun conflitto morale o alcuna crisi di coscienza. […] Non dubitarono mai che i crimini restavano crimini anche una volta legalizzati dal governo. […] In altre parole, essi non sentirono in se stessi un’obbligazione, ma agirono semplicemente in accordo con qualcosa che per tutti loro era auto evidente, benché non fosse più auto evidente per gli altri. La loro coscienza, se di questo si trattò, non parlò loro in termini di obbligazione, non disse loro «questo non devo farlo», ma semplicemente «questo non posso farlo» […] Non posso uccidere gente innocente, esattamente come non posso dire che due più due fa cinque.[4]
A prescindere da quanto viene imposto, dalla condotta comunemente accettata, solo soffrendo del male che commettiamo potremo arrivare a dire: io non posso; solo allargando la nostra sfera di empatia potremo giungere a una giustizia più integrale che coinvolga noi stessi, gli altri esseri umani e tutte quelle creature che, come noi, hanno il diritto di non provare sofferenza.
Vigiliamo su noi stessi, proviamo a comprendere, al di là dei pregiudizi, che differenza sostanziale c’è fra il dire: “è solo un ebreo” e dire “è solo un animale”, perché se questa non esiste qualcuno continua a pagare con la vita il nostro errore di calcolo.
[1] AA. VV, Enciclopedia Garzanti di filosofia, Garzanti Editore, ed. 1981
[2] Adolf Eichmann venne accusato di aver «commesso “in concorso con altri”, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale» H. Arendt, La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, ed. 2011, p.29
[3] J. Safran Foer, Se niente importa – Perché mangiamo gli animali, Guanda, ed. 2011, p. 216
[4] H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, ed. 2012, pp. 35 – 36
Sono in estasi… Grazie Francesca!
Grazie mille a te, Barbara