NOTE SUL TEMPO PRESENTE
di Annamaria Manzoni
Il saggio di Edmondo Marcucci che sintetizza le sue considerazioni sul senso e la necessità del vegetarianesimo, risale al 1953, vale a dire a 22 anni prima che Peter Singer, con la pubblicazione di “Liberazione animale”, portasse alla luce la sua scioccante denuncia sulla tragedia della condizione degli animali, e che il neologismo antispecismo compisse i suoi primi incerti passi, aprendo con essi nuovi campi cognitivi ad una diversa visone del mondo; altri decenni dovevano ancora trascorrere nell’attesa che nel mondo occidentale poche minoranze trovassero la determinazione necessaria per parlare di animali e del rispetto loro dovuto facendolo con orgoglio, a testa alta, sprezzanti delle critiche che ridicolizzano e svalutano la mobilitazione in loro favore.
Incredibilmente è davvero raro che Edmondo Marcucci appaia ricordato tra i padri di riferimento della nuova etica: incredibile in quanto le sue tesi, nell’ottica non violenta, pacifista, egualitaria che contraddistingue il suo pensiero, fanno riferimento con rigorosa semplicità a considerazioni non certo limitate al dovere della pietà nei confronti degli animali, ma alla necessità di un approccio che riveda dalle fondamenta i rapporti di potere che sono alla base di tante nefandezze, intra e interspecifiche.
Il vegetarianesimo, “la pratica pacifista più facile”, è per lui la strada ineludibile e imprescindibile che deve marcare il nostro rapporto con gli altri animali, che non possiamo mangiare senza contravvenire ad un ideale di armonia, di rispetto, di equilibrio cosmico. Lo argomenta andando a ricostruire, come in tempi recenti ha fatto Jim Mason con il suo “Un mondo sbagliato” (1), la nostra genesi di esseri umani vissuti sulla terra inizialmente quali raccoglitori, e non cacciatori come tanta storiografia vorrebbe, aggrappandosi ad un ipotetico passato originario che giustificherebbe ogni brutalità presente in quanto inscritta nei nostri geni. La nostra stessa anatomia, che ci differenzia dai carnivori, testimonia invece di un passato in cui l’uomo si nutriva di frutti: e quel passato era un tempo in cui l’approccio all’esistenza era pacifico, esente dalla contaminazione aggressiva in seguito supportata dall’uso delle armi: il vegetarianesimo conviveva con la non violenza come, in modo speculare, la nascita del regime carnivoro è andata di pari passo con l’invenzione di armi e fuoco. L’idea del pacifismo è allora dalle origini impregnata della necessità di una relazione di rispetto con tutte le forme di vita, con la terra che non viene violentata e con gli animali che non vengono uccisi: questa idea centrale e assolutamente contemporanea si sviluppa nella convinzione del Marcucci che il vegetarianesimo deve essere situato all’interno di una “riforma” che non può prescindere dalla presa in carico etica del rigetto di tutte le altre forme di violenza.
In questo senso lui, insieme ai grandi pacifisti della storia moderna, Tolstoj , Gandhi. Swhweitzer, Capitini, fa da ponte tra l’idea di un’armonia essenziale e fondamentale tra tutte le forme viventi sostenuta dalle grandi religioni orientali e l’attuale antispecismo che rappresenta oggi l’essenza dei movimenti a difesa degli animali. Il denominatore comune è l’ideale di un rapporto solidale con le altre specie, che sostituisca all’ubiquitario atteggiamento predatorio e competitivo quello del rispetto e della collaborazione: “La vita non è un gioco a somma zero”, dice Paul Watzlawick (2) argomentando, lui purtroppo solo in merito alle relazioni intraspecifiche, sulla difficoltà degli uomini a prendere atto che non si può vincere contro gli altri, ma solo insieme a loro, perché il bene, per essere tale, deve essere di tutti: quello degli altri, lungi dal limitarlo, amplifica il proprio. L’ideale di giustizia che coinvolga nel proprio orizzonte anche le forme di vita degli altri animali, per realizzarsi deve essere in grado di liberarsi di quel fondamentale utilitarismo di cui sono invece purtroppo impregnati i pensieri di tanti progressisti e detentori di verità assolute, a partire da partiti anche se colorati di verde, da ossequiate associazioni ecologiste che si battono per gli animali in estinzione ma mai contro l’estinzione di singole vite individuali, da movimenti a difesa della vita purchè rigorosamente umana: tutti costoro, nel porsi quali paladini del rispetto per gli altri, mantengono una posizione drammaticamente antropocentrica, costruita intorno allo scranno dove resta bene insediato, quale incontrastato padrone e signore, l’uomo.
Non è superfluo ricordare che nel 1984 Edward Wilson ha introdotto il concetto di “biofilia”, vale a dire di predisposizione innata, di bisogno sostanziale di relazioni intraspecifiche come presupposto ineludibile alla vita stessa: l’isolamento dal contatto con animali e vegetali è fonte di inaridimento, impoverimento, provoca sensazioni di estraneazione, incompletezza e disagio e una tensione fondamentale a ripristinare in qualche modo una perduta unità originaria, che tentiamo di ricreare portando nelle nostre case animali d’affezione e piante, nell’illusione di un piccolo, talvolta patetico eden in miniatura. Ancora una volta niente di nuovo sotto il sole: si danno nomi diversi, mediati dal gergo di discipline moderne, alla tensione all’equilibrio , al senso del divino dentro ogni essere, di cui ci parlano filosofie antiche e religioni orientali: la tesi di Edward Wilson torna a parlarci della insufficienza a noi stessi della nostra specie e della complementarietà di tutte le forme di vita, ma ostinatamente rifiutiamo di accorgerci della nostra limitatezza e dipendenza : la ferita narcisistica ci è intollerabile e, contro ogni evidenza, continuiamo a considerarci il centro di un universo che sappiamo non avere un centro, lo scopo di una creazione che è evoluzione priva di scopo. Insomma la posizione eretta è portatrice di angoscia, dice Kafka, e, se non ci sdraiamo in terra in mezzo agli animali, non possiamo nemmeno vedere il cielo con le stelle: ma l’ottundimento del potere è droga irrinunciabile nel cui nome di tanta bellezza ci priviamo senza neppure averne consapevolezza.
Essere vegetariani è per Marcucci la risposta immediata, individuale, necessaria, la rivolta morale e pacifica all’inferno in cui abbiamo sprofondato il mondo, è la giustizia dovuta a tutti gli esseri violentati nel corpo e oltraggiati nei sentimenti, è la ribellione all’indifferenza davanti al quotidiano oceano di sangue versato da animali inermi. Marcucci non fa sconti all’orrore che l’uomo compie per soddisfare il suo ventre, e non elude descrizioni raccapriccianti, per poi solleticare altre visioni: “la vacca è un poema di compassione” provoca con le parole di Gandhi, aprendosi poi alla luce e alla bellezza con “le alte grida di gioia con cui la scimmia saluta il sole”proprio con la stessa emozione del primitivo che lo adorava.
Al di là di ogni ragionamento, è attraverso una ritrovata identificazione con gli altri animali che si situa la possibilità (l’illusione? Il sogno?) di un mondo un po’ meno sbagliato di quello in cui viviamo. E’ dalla capacità di sentire sulla nostra pelle e nei nostri nervi la ricchezza delle altre vite, di sentire ribollire nel sangue la loro paura e la loro sofferenza che può ripartire la costruzione di società non violente, in cui il rispetto per ogni altro da noi, qualunque altro, fosse il leit motif di ogni relazione.
E’ fin troppo facile capire chi è come noi; ma tutto ciò che si differenzia e si presenta come diverso è da sempre la vittima ideale delle nostre peggiori reazioni: lo sono i folli, lo sono i minorati, lo sono semplicemente quelli di un altro credo e di un altro colore che rappresentano il non conosciuto e quindi il temuto, il disprezzato, il nemico e sempre un capro espiatorio. Verso tutti costoro l’empatia, che è alla base dei comportamenti non violenti, della pro socialità, dell’intelligenza emotiva troppe volte viene meno; se questo altro è tanto diverso quanto lo è ogni animale, allora saltano tutti i riferimenti e la sua sofferenza non è più la nostra, la sua paura non ci commuove più, le sue richieste non ci riguardano.
Ogni comportamento morale che si ferma sulla soglia delle differenze di specie propugna una moralità imperfetta: solo attraverso la sua universalizzazione l’empatia può avere senso, quando travalica i confini fittizi di specie, quando comprende nel proprio orizzonte gli altri animali. Solo allora potremo apprestarci al compito necessario che è quello di ingentilire le nostre vite e, con le parole non di un poeta ma di un economista quale è Rifkin, “di coprire di grazia la terra” (3).
E’ molto probabile che gli animali non abbiano bisogno di noi: come negare che le loro vite sarebbero infinitamente migliori senza la nostra presenza? Le nostre, invece, sarebbero infinitamente più povere senza di loro. Che altra consapevolezza occorre allora per riposizionarci all’altezza che ci compete, esseri finiti tra altri esseri finiti, a loro accomunati da uno stesso destino di nascita, di vita e di morte? Millenni di storia hanno celebrato la vittoria del più forte sul più debole, in ossequio alla legge della sopraffazione e della prepotenza: i passi in avanti che stentatamente sanciscono nuove uguaglianze sono ancora tutti macchiati dal grande errore della dimenticanza del mondo animale, che anzi ogni volta è chiamato a pagare con più grandi stermini ogni vera o falsa vittoria.
Il legame che unisce la violenza contro gli animali a quella contro gli uomini è stato riconosciuto già dall’antichità e in qualche momento storico ha visto incrociarsi e sovrapporsi nella difesa degli oppressi anche la presa in carico delle altre specie. E’ interessante ricordare che nel 1870 a New York Mary Ellen Wilson, una bambina sottoposta a grandi sevizie in famiglia, dove le autorità non avevano diritto di intromettersi perché non avveniva in luogo pubblico, potè essere soccorsa solo dal presidente della Società per la prevenzione della crudeltà sugli Animali; che i primi attivisti in difesa degli animali erano anche parte dei movimenti abolizionisti e in favore del suffragio femminile: la causa di tutti i deboli e di tutti gli oppressi ha uno stesso denominatore, e deve indignare in uguale modo. Deve, ma gli imperativi troppo spesso non trovano attuazione.
Richard Wagner, nel suo scritto “Sulla vivisezione” (4), andava oltre, affermando che il dolore degli animali, privo come è di qualunque possibilità di essere sublimato nella ricerca di un significato, di diventare mezzo di liberazione, è inutile e assoluto, e proprio per questo merita una compassione non uguale, ma maggiore di quella destinata agli uomini.
Il sogno matto che si impone, infine, è, alzando lo sguardo, diventare visionari e progettare un mondo diverso, non so se possibile, di certo necessario.
1: Jim Mason, “Un mondo sbagliato”, ed Sonda 2007
2: Paul Watzlavick, “Istruzioni per rendersi infelici”, Feltrinelli 1984
3: Jeremy Rifkin, “La civiltà dell’empatia”, Mondadori 2010
4: Richard Wagner, “Sulla vivisezione”, ETS 2006
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“… un passato in cui l’uomo si nutriva di frutti: e quel passato era un tempo in cui l’approccio all’esistenza era pacifico, esente dalla contaminazione aggressiva in seguito supportata dall’uso delle armi: il vegetarianesimo conviveva con la non violenza”… E gli esseri umani erano circa 100 milioni, adesso siamo più di 7 miliardi.