Annamaria Manzoni, introduzione a “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”
di Annamaria Manzoni
(ripubblico qui la mia introduzione a Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche (Sonda 2012) di Melanie Joy)
Perché amiamo i cani è domanda in grado di suscitare risposte eccitate, incontenibili nel fornire motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che i nostri animali preferiti, ne siamo certi, posseggono. Sono gli altri due interrogativi che compongono il titolo di questo libro a provocare in genere più di un momento di latenza, necessario a riordinare le idee e faticosamente cercare argomentazioni a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da risultare, per l’appunto, difficile da spiegare. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste domande, essere trovate se non all’interno di una spiegazione tautologica riferita al fatto che la ragione ultima e vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova semplicemente nella considerazione disarmante che le cose stanno così. Nel fatto, cioè, che siamo talmente immersi in una cultura che stabilisce le regole di riferimento in fatto di rapporto con gli animali da indurre le persone , pure educate ad una sorta di criticismo tale da sottoporre a una ruminazione dubbiosa persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, a non porsi alcuna domanda davanti al piatto di carne che consumano e ad astenersi da qualsiasi riflessione sulla sua origine e sulla sua essenza.
L’autrice racchiude nel neologismo carnismo l’insieme delle argomentazioni alla base di questo atteggiamento riferendosi ad uno schema mentale, ad una ideologia, ad un insieme di credenze, talmente diffuse e radicate da essere interpretate come verità e realtà anziché come opinioni e punti di vista, come regole anziché come scelte.
E’ all’interno di questo schema che si sviluppano le dinamiche psicologiche, operanti e riconoscibili in ognuno, fondamentali nel consentire l’espressione di quella violenza legalizzata, alla base dell’alimentazione, che prescinde dalla presenza di tratti di sadismo e brutalità dei singoli ed entra in un universo che è necessario indagare, nel suo essere popolato da persone per bene che supportano direttamente o indirettamente il martirio quotidiano degli animali senza neppure ritenere che la questione sia meritevole di un dibattito.
Nel mondo occidentale, il sistematico sterminio degli animali avviene senza che ve ne sia consapevolezza e che venga ingenerato senso di colpa: non è considerazione secondaria che, in modo del tutto analogo, anche le forme di violenza legittima intraspecifiche, che hanno luogo cioè all’interno della specie umana (pena di morte, orridi sistemi carcerari, punizioni fisiche sui bambini…) non siano oggetto di studio, in se stesse e nelle loro conseguenze sociali, se non in modo indiretto e marginale come per esempio attraverso l’estensione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva.
Di fatto sono molti i meccanismi che consentono il perpetuarsi dell‘attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, proprio perchè legalizzato, insito nel rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi inconsci, tesi a proteggerci dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. La cornice antropocentrica in cui ci muoviamo è centrale per fare chiarezza, perchè induce a misconoscere l’animale come essere sofferente e senziente, e finisce per reificarlo, negandone la natura che gli è propria: ne è estrema testimonianza la sagoma, non raramente usata a scopo pubblicitario, di una mucca divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. A questa imprescindibile cornice cognitiva, si affiancano rimozione e negazione del problema, resi possibili dal nascondimento dell’eccidio, che è parte integrante del meccanismo di obnubilamento delle coscienze: è incredibile che, pur essendo miliardi gli animali imprigionati negli allevamenti intensivi e macellati, sia possibile che neppure l’ombra della loro presenza venga in contatto con moltissima parte della gente, che mai, nel corso di un’intera vita, li vede in carne ed ossa, nella loro interezza anziché ridotti a cibo.
Essendo inevitabile che tale nascondimento venga a volte attraversato da lampi incontenibili di conoscenza, occorre poi altro, occorre che il mangiare gli animali abbia assunto nelle nostre coscienze i caratteri della normalità, dell’essere un comportamento naturale e necessario, al di là e contro ogni evidenza scientifica e logica, tanto da consentirci di negare la responsabilità delle nostre scelte, intese come atti secondo natura. Da qui il paradosso, la falla logica che costringe a dovere quotidianamente argomentare le ragioni delle scelte vegetariane e vegane, giudicate contro natura, a fronte della acritica accettazione della banalità del male contenuta nel nutrirsi di cadaveri animali. Falla logica per altro evidenziata già un paio di millenni fa da Plutarco quando diceva: «Mi domandi per quale ragione mi astengo dal mangiare carne. Io d’altra parte mi meraviglio come tu possa appressarti alle labbra la carne del morto animale, mi meraviglio che non trovi ripugnante masticare la carne di animali scannati e smembrati»
E sono poi la dittatura della consuetudine, la pervasività stessa del fenomeno ad indurre a delle non scelte: l’abitudine si propaga nelle nostre vite e ci induce a reiterare gesti e comportamenti in automatico. E così si continua a mangiare ciò che si è sempre mangiato, grazie anche a quell’adattamento positivo ai gusti e ai sapori a cui fin da bambini ci siamo assuefatti: staccarsene richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede per inerzia. Quando nuove consapevolezze inducono a prendere atto della realtà di dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in aiuto: si tratta di un’abitudine condivisa, ubiquitaria, “normale” e ciò induce a non assumere il senso della propria responsabilità, talmente parcellizzata da risultare incorporea. Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupano delle propria sopravvivenza riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti che perpetuano l’esistente e sostengono come valore quello dell’obbedienza, del conformismo, dell’adattamento alle norme. Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro. Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che ha tante frecce al suo arco: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita spesso sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati, amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan ( “Gabbie vuote” Sonda 2005). Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti , la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il discorso va arricchito di tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che di conseguente sofferenza, lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di affermazioni generali (“la violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche, è considerata ancora oggi educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.
Melanie Joy , nella sua ricerca all’interno dello psichismo umano della chiave che renda conto del nostro colpevole immobilismo, osserva che il numero esorbitante di animali torturati e uccisi, anziché sollecitare una reazione proporzionale, ci anestetizza, in ossequio al meccanismo per cui se una vittima mobilita il nostro coinvolgimento, ne bastano due perché non venga più colta l’individualità dei soggetti interessati e l’intorpidimento emotivo sia la non reazione in agguato. E spiega che il “pregiudizio di conferma” induce ad applicare filtri alla conoscenza in modo da respingere tutte le informazioni che screditano le nostre convinzioni e ad acquisire solo quelle che ci rafforzano nelle nostre idee: che per l’appunto relegano gli animali nei sottofondi dei non diritti.
Se sono le dinamiche mentali a costruire quel mondo di difese che ci permette di mantenere intatto il nostro funzionamento, nel ruolo di comprimari, sulla scene di un crimine dalle proporzioni enormi, l’autrice sembra credere che la possibilità di un cambiamento esista. Dopo avere smantellato con rigore logico le assurdità, le incongruenze e i paradossi, che sostengono lo schema del carnismo, è alla parte emotiva della gente che si rivolge in cerca del cambiamento che urge. Ed è nell’esistenza dell’empatia che vede la possibilità del riscatto di un’umanità alla deriva da tempo immemorabile; nella considerazione che il mondo è sì pieno di violenza e sofferenza ma anche di bellezza e potenzialità; nel potere della testimonianza collettiva che impedisca di sotterrare la verità; nella possibilità del superamento della dissociazione che ci attanaglia e consente che il male, disconosciuto, conviva costantemente con il bene che diciamo di volere. Se davvero la civiltà è un cammino che volta le spalle alla distruzione e persegue lo sviluppo armonico delle potenzialità positive degli individui, allora non è più possibile tollerare che l’amore verso gli animali tanto esibito, nella nostra cultura, coesista con la loro contestuale riduzione a vittime di crudeltà estrema. Certo, per mobilitarsi è necessario prima diventare testimoni di tutta la loro sofferenza, e per farlo bisogna superare quell’attitudine al benessere, dato fondante della nostra cultura, che tende a rimuovere dolore e morte in favore di tutto ciò che è leggerezza, gioia, facilità del vivere. Lottare per la liberazione degli animali richiede il coraggio di una full immersion in quanto di più inaccettabile le nostre coscienze riescano ad immaginare, richiede di scendere negli abissi infernali a prendere su di sé una sofferenza inguardabile, anche se farlo implica il rischio di un disagio psichico che sfiora e talvolta sfora i limiti della patologia, che da una insopportabile sofferenza, appunto, viene generata. Non può essere da una pacata analisi del problema che può ripartire il cambiamento: la rabbia, la disperazione, la condivisione sono imprescindibili nella lotta per la liberazione degli animali, così come lo sono stati in ogni lotta di liberazione contro ogni ingiustizia, che ha tratto convinzione e vigore dal coinvolgimento passionale.
Melanie Joy riesce ad essere ottimista in nome di una profonda fiducia nel genere umano in cui, nonostante tutto, riconosce la presenza di una attitudine innata all’empatia. La sua posizione è oggi condivisa da molti pur disincantati studiosi: Frans de Waal (“L’età dell’empatia”, Garzanti 2011) considera questa disposizione come un tratto cronico e robusto della nostra specie, destinato a non scomparire; Jeremy Rifkin (“La civiltà dell’empatia”, Mondadori 2010) rilegge la storia della civiltà alla luce della presenza di un sottofondo empatico che oggi ha la sua esplosione cosmica e, sulla base di una diversa narrazione delle cose, per la prima volta è in grado di superare i confini di specie, inglobando nel proprio orizzonte anche gli altri animali.
Forse solo l’ottimismo della volontà, contrapposto all’inevitabile pessimismo dell’intelligenza, può sostenere questa fiducia, perché, non lo si può negare, la realtà è devastante :“Questo mondo non va bene: che ne venga un altro” diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura. Il compito di cambiarlo dalle fondamenta è allora davvero ciclopico, imprescindibile da un atto di ribellione totale contro questo stato di cose, che parta da un primo in fondo banalissimo passo che è l’assunzione come stile di vita del vegetarianesimo, “la pratica pacifista più facile” come la definiva Edmondo Marcucci (“Che cos’è il vegetarismo”, Edizioni dell’Asino 2011), inserendo, oltre sessanta anni fa, il non mangiare animali nella prassi ineludibile di una società che si voglia non violenta.
Possiamo scegliere di continuare: l’immenso dolore degli animali è terribile atto d’accusa contro il genere umano; come nell’incomparabile film antimilitarista J’accuse (1918/19) di Abel Gance, tutti i soldati morti inutilmente nella guerra, che era allora la prima guerra mondiale ma poteva essere qualsiasi altra guerra, rinascono dalla piana cimiteriale come moltitudine di spettri mutilati a gridare il loro j’accuse contro gli uomini esortandoli a non distogliere gli occhi dall’ orrore che essi portano con sé (si veda “Davanti al dolore degli altri” di Susan Sontag, Oscar Mondadori 2003), tutti gli animali martoriati e uccisi avranno il diritto di entrare nei nostri incubi a buttarci in faccia il peso della ignominia nei loro confronti.
Possiamo scegliere di cambiare: è possibile se, come dice Albert Shweitzer, in fondo non diversamente dall’autrice di questo libro, “solo una parte irrilevante delle immense crudeltà commesse dagli uomini può essere ascritta a istinti crudeli. La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad abitudini consolidate. Le radici della crudeltà, quindi, sono più diffuse di quanto non siano forti”. Che il male non sia così profondamente radicato dentro di noi, se è vero, non può limitarsi a considerazione consolatoria: deve trasformarsi in un progetto cosmico di trasformazione in cui agli animali, che sono le vittime più innocenti e più inermi della storia del mondo, venga restituita la possibilità di occupare in pace il posto che è loro su questa terra.