Quo vadis, ricercatore?

di Leonora Pigliucci

Gli ultras della sperimentazione sugli animali, Garattini, Coscioni, Giovanardi, Marino si sono dati appuntamento qualche giorno fa in Senato per reagire all’ondata animalista che a partire dalla liberazione dei cani dell’allevamento Green Hill di Montichiari, e il suo temporaneo sequestro, ha fortemente danneggiato l’immagine di quella ricerca scientifica, di base e preclinica, che ancora fa uso di modelli animali.

Mentre all’interno si svolgeva un incontro tra sole voci favorevoli alla vivisezione, strutturato senza contradditorio e tutto giocato con toni da levata di scudi rispetto alle più frequenti questioni sollevate dagli animalisti, un folto gruppo di attivisti manifestava nel frattempo fuori dai palazzi con una formazione interessante che potrebbe in futuro incidere nella società civile con modalità inedite. Accanto allo zoccolo duro di autonomi, che notoriamente costituisce la base di questo tipo di manifestazioni, è comparso infatti il PAE, il Partita animalista europeo, che alle prossime elezioni correrà insieme ai Verdi, e la neonata associazione antispecista Parte in causa nata in casa radicale dallo scontento di molti rispetto alle posizioni pro-vivisezione dei colleghi dell’associazione Coscioni, promotori del convegno, di cui contestano l’incongruenza con le radici ideologiche del partito che affondano nei principi della nonviolenza gandhiana.
I giornalisti accorsi al convegno dal titolo “Perché è ancora necessario sperimentare sugli animali prima che sugli umani” si aspettavano forse, e a ragione, dati, numeri e statistiche dettagliate circa l’obbligatorietà scientifica di andare avanti su questa strada, e in tempi in cui la medicina ufficiale è sottoposta a forti attacchi da parte di una vera e propria controinformazione serpeggiante su internet, che contesta sopratutto i protocolli vigenti in campo oncologico e l’opportunità dei vaccini, non sarebbe stato superfluo che venissero indicati con chiarezza i traguardi recenti ottenuti dalla medicina grazie al sacrificio animale. Il consesso di illustri scienziati e senatori ha preferito invece concentrare i propri sforzi su una difesa tanto strenua, quanto astratta, di una pratica che trae origine dai secoli scorsi e che non è mai stata sottoposta ai test di validazione che servono a selezionare invece le tecnologie innovative messe a punto in sostituzione del modello animale, verso le quali esiste ancora, tanto in campo industriale, che accademico e politico, una forte resistenza che anch’essa raramente viene dettagliata.

Eppure inizia a sfuggire il senso di una opposizione partigiana ai difensori degli animali da parte di coloro che dovrebbero avere a cuore innanzitutto un progresso medico e scientifico saldamente ancorato all’etica, e non una difesa prioritaria ed acritica del metodo finora privilegiato per inseguirlo. Che per gli animalisti sia la salvezza delle cavie l’elemento centrale della disputa pare ovvio, ma d’altra parte, un arrocamento ideologico in favore della vivisezione, dimostrato oggi quantomeno dai ricercatori più esposti politicamente, che ragioni può avere? E che senso ha da parte loro opporsi alle modifiche approvate dalla Camera all’art. 14 della legge di recepimento della direttiva europea che vieta l’allevamento degli animali da laboratorio su suolo italiano, quando la ricerca su di loro resta comunque legale? Quale se non il timore di un effetto domino che delegittimerebbe questa pratica crudele, ma che potrebbe innestarsi solo sulla base di un’autentica disapprovazione da parte della società, la cui espressione, democraticamente, deve essere riconosciuta come centrale?
Posto quindi l’ interesse generale che la ricerca progredisca e che le malattie che ancora incombono sulle nostre teste possano iniziare a fare meno paura, non è dunque chiaro perché in un tale frangente, serissimo, sia opportuno concentrarsi sul contrasto, anziché invitare le parti opposte, filosofiche e scientifiche, ad un’esposizione finalmente circostanziata e profonda sulla effettiva necessità oggi della sperimentazione sugli animali, con contradditori aperti che gli antivivisezionisti lamentano come impossibili da ottenere.
E invece no, tante lamentele per la violenza verbale espressa degli animalisti sui social network, con la Coscioni che medita addirittura di scriverci un libro, e largo spazio a diatribe vecchie di 50 anni, come la tragedia del farmaco Talidomide, con un lungo intervento della presidentessa dell’associazione che riunisce i focomelici, a sostenere che il problema in quel caso fu una sperimentazione animale non adeguata, e che solo ingiustamente quella tragedia sia considerata prova della pericolosità e dell’ inaffidabilità della vivisezione. Cosa che affermano però non solo gli animalisti,  ma che stabilirono anche i giudici, che assolsero i vertici della multinazionale Grünenthal, in virtù della non trasferibilità dei dati ottenuti sugli animali all’uomo.
Che questo tema, seppure a scapito di ciò che accade oggi, sia stato così con fatica portato finalmente all’ordine del giorno, fa davvero pensare che la critica mossa dal mondo animalista sia più che salutare e che la sperimentazione scientifica debba finalmente essere spinta fuori dal recinto protetto che le garantiscono i privilegi baronali, come i legami stretti con l’industria farmaceutica, per essere sottoposta all’esame del giudizio popolare.
Il vero nodo della questione, cioè l’inquadramento etico che consente la tortura vivisettoria per milioni di animali, di cui è dimostrata dalla stessa ricerca scientifica una complessità mentale impensabile solo pochi anni fa, in questo frangente è stata invece aggirata con nonchalance. Questo è francamente inconcepibile per chi operi in una società che incanali il suo progresso sulla via dell’equità.

Non sono accettabili chiose come quella proposta da Fornasier, veterinario di laboratorio, che ha pensato di tendere una mano agli animalisti sottolineando come la vivisezione sia utile anche per i progressi in campo veterinario e dunque sia necessaria per la salute dei nostri animali domestici. Affermazioni del genere sono rivelatrici di un’impostazione di ricerca ancora intellettualmente confinata entro una logica di contrapposizione “mors tua vita mea”, che vede prevalere, da parte di chi è privilegiato, il valore della propria vita e quella dei propri cari, siano anche non umani, rispetto alla tutela dei più deboli che non hanno diritto di parola. Questa stessa logica, del resto, apre la strada a derive molto pericolose che la cronaca rivela come non solo potenziali, se si pensa alla condanna emessa a gennaio nei confronti della farmaceutica Glaxo per la morte di 14 bambini in seguito alla sperimentazione di vaccini sui figli di famiglie povere argentine. Un argomento come quello utilizzato da Fornasier mostra la totale incomprensione da parte sua rispetto alle obiezioni portate avanti dall’antispecismo cui intendeva rispondere. Antispecismo che non sostiene un interesse particolare tra gli altri, per sensibilità personale di qualcuno o per prossimità, ma al contrario propone un’istanza di rispetto universale, che apre lo sguardo oltre i confini di specie per mettere in discussione il valore stesso del confine e la possibilità del sacrificio imposto all’uno per l’altro.

C’è urgenza di confronto su questi temi e il convegno in Senato può essere il segnale positivo di una sospirata apertura democratica al dialogo da parte di quell’ambito violento della ricerca scientifica che per la prima volta sente il bisogno di giustificarsi. Magari la prossima volta i vivisezionisti troveranno l’umiltà di confrontarsi davvero, risponderanno alle domande che effettivamente vengono poste loro, e non quelle che attribuiscono ai loro detrattori, e si degneranno di motivare la pretesa di incontestabilità di un antropocentrismo che invece è ormai evanescente. In caso contrario, difficilmente si può pensare che la temuta controinformazione popolare e democratica e le martellanti campagne animaliste non erodano infine la credibilità di un’ élite accademica che crede di poter fare a meno di un’etica condivisa, e di basi più salde su cui fondare la propria attività rispetto a quelle di un cartesianesimo ridotto oramai a dogma, ovvero a ciò che il pensiero scientifico, per natura e vocazione, dovrebbe più di tutto temere e rigettare, pena la negazione di se stesso.

Comments
2 Responses to “Quo vadis, ricercatore?”
  1. devetag ha detto:

    Brava!

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