Comunicare

di Serena Contardi

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C’è un capitolo de I sommersi e i salvati di Primo Levi che torno di tanto in tanto a leggere, nonostante lo conosca quasi a memoria, perché mi sembra di trovarvi insegnamenti così belli e vivi che non temo, ripassandolo, il gusto mi si possa guastare: Comunicare. Levi descrive il bisogno intenso, a tratti straziante di comunicare dei deportati, una fame dello spirito non inferiore a quella del corpo; e d’altronde, per imparare sottovoce qualche esigua parola di tedesco, Levi barattò il suo pane con un alsaziano.
L’aver sperimentato sulla propria pelle questa asfissiante deprivazione della parola fa sì che egli, anche diversi anni più tardi, condanni come pretto chiacchiericcio teorie molto in voga sulla cosiddetta incomunicabilità umana, e allo «scrivere oscuro» preferisca energicamente un linguaggio articolato e chiaro, che assurge al compito di vero e proprio «servizio pubblico»:

Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. […] Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. [1]

«In un codice suo o di pochi»: la sanzione di ogni esoterismo, non solo terminologico, è qui evidente. In effetti Levi confessa di scrivere sempre con la curiosa impressione di avere accanto il suo lettore: ed è veramente commovente la premura con la quale si impegna a indossare costantemente i suoi panni, tutto assorto dall’imperativo di non umiliarlo con una prosa troppo aspra o una troppo ammiccante, testimonianza di una fiducia rimasta intatta nel verbo umano, intatta anche dopo quello che aveva passato.

Ora, io credo che della lezione di quest’uomo singolare gli animalisti abbiano appreso ben poco, benché non facciano altro che parlare di olocausto. Se davvero credono di avere una missione – o una mission, che in inglese fa meno oratorio – non possono permettersi di trattare troppo sbrigativamente le modalità con cui trasmettono informazione. Anzitutto molto spesso danno prova di uno scarsissimo rispetto verso se stessi e verso il proprio interlocutore, ad esempio quando, per pura pigrizia mentale, non controllano la fonte di una citazione che s’apprestano a tramutare in slogan da cartellone (l’aforisma «Auschwitz inizia ogni volta che si guarda a un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali», attribuito ad Adorno da Patterson e reso popolare da una campagna della PeTA, è un falso, e siamo anche un po’ stanchi di doverlo ribadire). Ma del resto questo non è un caso isolato, quanto una spia utile a inquadrare un fenomeno più generale: gli animalisti mettono se stessi dalla parte del giusto, e credono che ciò possa bastare. Parlano «il linguaggio del cuore», e l’enormità del dolore animale rende accessorio ogni sforzo di comprensione ulteriore. Lasciando in sospeso per un momento se davvero essi abbiano assolutamente ragione (e io rabbrividisco davanti ad ogni assoluto), questo li rende colpevoli due volte: verso le persone alle quali si rivolgono, cui il linguaggio del (loro) cuore può risultare difficilmente decifrabile; e verso gli animali che hanno la pretesa di rappresentare, i quali si ritrovano in sorte, come se non fossero già abbastanza disgraziati, rappresentanti tutt’altro che validi e ben preparati.
Lo stesso paragone con l’olocausto attesta in realtà della poltroneria tipica di chi s’è già dato ragione dal principio, e a cui non resta altro che cantarsela e suonarsela da solo. Esso è altamente fuorviante dal punto di vista della ricostruzione storica, e terribilmente fallimentare da quello di una comunicazione efficace. Fuorviante dal punto di vista della ricostruzione storica perché, come osserva Susan Witth-Stahl, pur di trovare analogie (meramente esteriori) fra orrori tanto diversi, strappa il genocidio ebraico al suo contesto, lo spoliticizza e finisce per diagnosticarlo come pura miseria etica; fallimentare da quello di una comunicazione efficace perché produce una dissonanza cognitiva tale da scaldare i cuori già roventi degli attivisti, e far scappare tutti gli altri.
Si direbbe che la sua utilità consiste soltanto nel rimpolpare il senso di appartenenza di un gruppo, quello animalista, già sufficientemente gravato da deliri identitari. E, sintomaticamente, non appena si osi contestare l’opportunità di questo paragone molti animalisti rispondono proprio come risponde ogni gruppo identitario quando viene minacciato da critiche fondate che ne mettono in crisi, o anche solo in discussione, l’identità chiusa: con la violenza sottile del ricatto, dell’attacco ad hominem. Rifiutare di accostare la tragedia degli animali alla Shoa significa allora sminuirla, essere “antropocentrici”.
C’è una confusione alla base di quest’accusa che mi sembra strettamente legata all’impostazione rigidamente moralistica da cui l’animalismo non riesce a sganciarsi neanche per un attimo: differenziare è un gesto teorico del tutto necessario che consente di calarsi più a fondo nella realtà data e intuire magari come fare a cambiarla, ma da nessuna parte sta scritto che operare opportune distinzioni sia sinonimo di giustificare. Spinoza diceva che, riguardo alle cose umane, prima di ridere, piangere o indignarsi, bisognerebbe capire. Ecco io temo che chi abbandona completamente la prospettiva umana per guardare soltanto attraverso gli occhi degli animali venga (comprensibilmente) accecato dal dolore, e rinunci a capire. Il fare rabbioso e singhiozzante con cui, al di là di ogni possibile logica, il paragone tra olocausto e questione animale continua ad essere posto non mi sembra diverso da un lamento inarticolato, dal disperato guaito animale. E, come il guaito animale, esso “parla” soltanto a chi gli è già sensibile.
Chi intende realmente fare qualcosa per gli animali non può limitarsi a urlare e piangere con loro, o verrà lasciato solo a gridare nel deserto, e perirà con loro. L’analisi seria e disciplinata del fenomeno sfruttamento animale e la parola argomentata sono preferibili alla provocazione fine a se stessa e al rantolo perché, se «il maiale non fa la rivoluzione» [2], difficile pensare la faremo noi al suo posto, straniandoci completamente dal nostro prossimo umano.


[1] P. Levi, «Dello scrivere oscuro», in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1998, pp. 53-54.
[2] Chiedo scusa a Leonardo Caffo se continuo a pasticciare con i titoli dei suoi libri, ma mi è proprio impossibile resistere a questa tentazione.

Comments
19 Responses to “Comunicare”
  1. Leonardo Caffo ha detto:

    pure qua! 🙂

  2. stopthatrain ha detto:

    Serena visto che il presunto ricatto sottilmente violento immagino sarebbe il mio, ti rispondo qua e appena possibile lo farò più diffusamente.
    Nessuno pretende di sovrapporre due fenomeni che come comprende chiunque, animalisti compresi – pur nella loro immane idiozia, ovvio – hanno profondissime lontananze. Così come altrettante profondissime analogie. Per certi versi possiamo considerare più drammatico l’uno – animali incatenati e/o con le corde vocali recise che non hanno una sola possibilità al mondo di cavarsela, che di fronte hanno oppressori potentissimi che nemmeno provano ad intendere il loro linguaggio – per altri versi possiamo trovare peggiore il secondo: le vittime del nazismo erano perfettamente lucide nel comprendere quello che accadeva in una dimensione per loro intellegibile, comprendevano e soffrivano dell’offesa e dell’umiliazione che subivano senza illusioni di sorta, ed erano per giunta nella disperante consapevolezza di ciò che intanto accadeva ai loro cari, del tutto annullati anche nei loro ruoli di cura e di protezione.
    Bene, questo dal punto di vista delle vittime. Da quello degli oppressori, vediamo esseri umani “normali” (l’esperimento di Zimbardo di cui ho anche scritto su Asinus trasse spunto dall’interrogativo su come una civile popolazione tedesca si potesse essere resa complice ed artefice del massacro) sono stati all’epoca e sono – nel nazismo di oggi – in grado di straziare vite senza rimorso, privi di un barlume di sensibilità e di dignità animale/umana a fermarli in tempo. Allora, come oggi, sono padri e madri di famiglia, persone colte e ben motivate.
    Come si può sopprimere l’empatia in quel modo, in quei “due modi”? Non trovi sia folle commemorare l’Olocausto, senza avere la minima idea del perché esso sia avvenuto e far finta di non vedere che torture analoghe si infliggono agli animali in luoghi rispettabili e addirittura di eccellenza?
    E’ assurdo che l’analogia dei due fatti sia tabù persino tra gli antispecisti; che susciti addirittura indignazione, che si possa discorrere con paciosa tranquillità sulla catastrofe animale, persino amichevolmente con chi di persona li tortura, mentre tutt’altro riguardo si mantiene sui genocidi umani: questo atteggiamento denota un doppiopesismo pericoloso, che non so come altro si possa chiamare se non specismo. E non c’è nessun ricatto nel dire questo ed anzi la cosa mi interesserebbe ben poco, se non fosse che i protagonisti della liberazione animale siamo, purtroppo, noi umani, e non possiamo permetterci, noi che abbiamo deciso di provare a salvare gli animali, di stare dalla loro parte ma non del tutto, perché questo li umilia, li degrada ancora, legittima per l’ennesima volta la loro inferiorità ontologica ed in pratica li spinge di nuovo nelle gabbie che abbiamo costruito per loro. Continua a non considerarli degni di valore persino chi abbraccia la causa della loro liberazione e li pone al di sotto degli esseri umani. Se il paragone è tabù, differenziare è gerarchia.
    Stai poi mescolando due piani: il confronto non va bene perché i due olocausti non sono la stessa cosa (se esistesse solo l’identità potremmo fare a meno del termine “paragone”) o perché ritieni questo accostamento sia fallimentare da un punto di vista strategico?
    Mentre sul primo argomento mi troverai sempre all’erta, perché gli animali di una simpatia di padroni se ne fanno poco, sul secondo posso anche seguirti. I ragazzi israeliani che, in piazza a Tel Aviv, si sono fatti marchiare a fuoco il numero 269 del vitello, in segno di totale identificazione tra le vittime dei due massacri, e che davvero sono cresciuti in mezzo ai reduci, mi pare però che non la pensino come te. Guardiamo anche ai fatti: l’analogia non piacerà di certo ai vivisettori, ma nonostante tutto gli animalisti – sebbene qua si continui ad annunciare la loro immane disfatta – sono sempre di più in tutto il mondo, con tutti i loro irriverentissimi paragoni. Che pur nell’ articolazione imperdonabilmente rozza abbiano intuito qualcosa di vero che sfugge alle istituzioni commemoranti, che ipocritamente venerano i reduci, mentre condannano milioni di altri individui a sorte analoga?

    • rita ha detto:

      Che poi allora Charles Patterson, uno dei massimi studiosi dell’Olocausto (pure se avrà attribuito erroneamente la citazione ad Adorno, rimane purtuttavia uno studioso autorevole sul tema), formatosi anche presso la International School for Holocaust Studies a Gerusalemme, e autore di Un’eterna Treblinka, in cui si fa il paragone tra le condizioni in cui erano trattati gli Ebrei e quelle attuali del Nazismo, sarebbe dunque un cialtrone?

      E tranquilla Serena, che noi animalisti rozzi e grossolani non ci limitiamo solo a piangere con gli animali in maniera inarticolata, ci rimbocchiamo anche le maniche. Ma tanto il potere di imprimere rotte predeterminate alle rivoluzioni culturali, non ce l’abbiamo, come già ti ho detto, né io e né te. Qui forse la penso in maniera molto similare a Antonio, noi stiamo interpretando i sintomi di qualcosa di molto più grande che trascende tutti noi.

      • Serena ha detto:

        Questa che usi è una fallacia nota come argomentum ad auctoritatem: per quanto mi riguarda Patterson può pure essere la regina d’Inghilterra, nemmeno la regina d’Inghilterra è immune dal dire stronzate. Poi ti ho già spiegato sotto al tuo post che io non ti ho mai accusata di essere una persona rozza, ma ti rifiuti di guardare agli argomenti, e continui a prenderla sul personale. Peccato.

    • Serena ha detto:

      Eccoti. Ho scritto immediatamente dopo la nostra discussione ma il ricatto non è solo il tuo, magari, me lo sono sentita ripetere decine di volte (ne ho parlato anche qui). Ora io ho creduto di individuarne l’origine nella più totale incapacità di sganciarsi anche per un attimo da una prospettiva rigidamente moralistica: e direi che tu continui a darmi ragione. Parli di gravità, di valore, e vuoi spingermi a ragionare attraverso categorie che non sono le mie: categorie morali. Io non intendo lo specismo nei termini di un pregiudizio e del resto mi interessa soltanto porre fine allo sfruttamento, dunque sono abbastanza immune al solito spauracchio del fare un discorso pregiudiziale. Quella frase che butti lì, “se il paragone è tabù, differenziare è gerarchia”, mi sembra ad effetto ma tutto sommato per niente giustificata. Come ha scritto Marco sempre a proposito di questa faccenda:

      ci sono orrori che sono qualitativamente diversi, mostruosità etiche di fronte a cui la semplice tentazione di fare confronti è indice di insensibilità. Si pensi a ciò che Harlow ha perpetrato psicologicamente e fisicamente alle scimmie (madri e figli) dei suoi esperimenti. Dire che la sofferenza provocata ad alcune scimmie è “meglio” (perché laddove c’è un “peggio” deve esserci, a rigore, un “meglio”) di quanto accade nei macelli industriali alle mucche dovrebbe far accapponare la pelle perfino di un animalista misantropo. Dunque, lo stesso si dovrebbe ammettere anche nel caso di Auschwitz. Il numero fa orrore, certo, ma il brivido del raccapriccio morale non ha bisogno della contabilità della ragione per emettere il proprio verdetto. Anzi, dovrebbe forse imparare a farne a meno ed allenare lo strumento delicato del sentire. Uno strumento che, proprio per la sua delicatezza, deve essere maneggiato con cura: dobbiamo imparare ad usarlo per vedere meglio, non per farci accecare dal dolore.

      Poi non penso di fare confusione fra i due piani. Ritengo il paragone sia fuorviante dal punto di vista della comprensione storica, sia fallimentare da quello della comunicazione. Pazienza se i tizi israeliani di 269 non la pensano come me. E dal fatto che i riti della falsa memoria non hanno alcun senso, come in effetti penso anch’io, non discende l’opportunità di questo paragone.

      • stopthatrain ha detto:

        Io sono d’accordo sull’inammissibilità delle gerarchie tra gli orrori – e non ho mai fatte, sono lontanissima anche dall’utilitarismo – ma il paragone in quanto tale a fini di analisi non offende né le prime né le seconde vittime, a meno che di mezzo non ci sia una differenza ontologica. Le categorie morali in questo non c’entrano un bel niente e infatti i termini “gravità” e “valore” li ho attribuiti alla gerarchia implicita che si intravede in ciò che scrivi, non li ho utilizzati come funzionali al mio ragionamento.
        Mi domando se opporresti la stessa reazione nei confronti di chi dovesse tracciare un parallelo tra Auschwitz e gli innumerevoli eccidi dei quali le vittime non sono mai passate dalla parte dei vincitori, il genocidio dei curdi, degli armeni o le innumerevoli persecuzioni dei rom. O se tu ritenga che ci siano validi motivi per trovare non plausibile solo il confronto con gli animali.
        Restiamo comunque delle nostre opinioni opposte, penso in ogni caso che caduto il limite specista concettuale, che resiste solo come convenzione, (tenere in piedi su pezze d’appoggio scientifiche il primato ontologico è ormai impresa ardua), le analogie tra fenomeni simili diverrano sempre più lampanti… a prescindere dalla sacralità di cui qualcuno di essi è ideologicamente rivestito. La residua indignazione generale, te ne sarai accorta anche tu, affonda le radici quasi sempre nella sensazione di lesa maestà data dall’arroccamento antropocentrico, e casomai in quella falsa memoria sulla quale concordiamo (e che è pericolosa perché trasmette un’alterata percezione di immunità dall’orrore, che infatti continua ad avvenire indisturbato!), più che in un interesse diffuso al rigore dell’analisi storica. D’altra parte non penso che l’animalista che trovi illuminante la similitudine pecchi di mancanza di riguardo nei confronti delle vittime del nazismo, tutt’al più evidenza la disparità assurda nella considerazione delle vittime dell’uno dell’altro massacro, ed in più non è indifferente il fatto che proceda un fisiologico raffreddamento emotivo dovuto allo scorrere del tempo, che ad esempio non ci fa struggere con grande trasporto per l’eccidio dei nativi americani e per la distruzione della loro pregevolissima cultura, e ci fa invece avere più slancio verso chi è ancora da salvare.

      • Serena ha detto:

        Leonora (e vorrei chiamarti con un nomignolo ma non so se gradisci venga storpiato il tuo nome), ma come fai a dire che sei d’accordo sull’inammissibilità delle gerarchie tra orrori? Gli animalisti non fanno altro che fare confronti (“Auschwitz era una bazzecola in confronto…”, “Mengele era un angelo in confronto…”, ecc.), è proprio questo che fa accapponare la pelle. E non vedo analisi seria e documentata degli eventi al fine di una più puntuale comprensione dello specismo (lo stesso Patterson mi sembra poco convincente sotto molti aspetti, a cominciare dal modo leggero con cui tratta le fonti), quanto la volontà di colpire con immagini di sicuro impatto emotivo, come accade nelle pubblicità. E d’altronde il Paragone è diventato virale proprio grazie alla campagna della PeTA…che per distinguerti dai “nazisti” ti invita a mangiare vegetariano. Così, se è certamente vero che l’indignazione generale davanti a quest’analogia affonda quasi sempre le radici nella sensazione di lesa maestà data dall’arroccamento antropocentrico, come dici tu, a un certo punto io vedo soltanto due fazioni umane che si urlano in faccia la propria rabbia e il proprio disprezzo, senza più nessuna sensibilità, nessun rispetto verso le vittime (umane e non umane) che pure ripetono ad nauseam di voler rappresentare. Siamo alle linguacce, agli sputi, e i morti in tutto questo non c’entrano davvero più niente: come si fa a non provare disagio davanti a questo? Non mi sembra questione di voler ripristinare indifendibili “differenze ontologiche”. E nemmeno credo sia particolarmente interessante indagare se opporrei la stessa reazione nei confronti di chi dovesse tracciare un parallelo tra Auschwitz e gli innumerevoli eccidi dei quali le vittime non sono mai passate dalla parte dei vincitori, il genocidio dei curdi, degli armeni o le innumerevoli persecuzioni dei rom, perché qui non si tratta di fare un processo alle mie intenzioni, quanto di capire se i partigiani dell’empatia non si rivelino invece un po’ troppo spesso carenti, in quanto a empatia.

      • stopthatrain ha detto:

        beh è ovvio che se io dico che non condividere le gerarchie degli orrori, sto parlando per me, e non a nome degli animalisti in generale, come fossero una massa omogenea, che io non rappresento a nessun titolo.
        Io ho suggerito degli spunti sull’analisi del Paragone in quest’articolo: leggendo Zimbardo sui meccanismi psicologici che scattano negli individui posti in condizione di dominio, è impossibile, se non per presa di posizione ideologica, non pensare all’oppressione animale, sebbene tutto ciò nel suo scritto non sia mai esplicato consapevolmente (per l’appunto…). L’abuso e il crescendo di violenza gratuita, ma sopratutto la denigrazione degli oppressi e persino il sarcasmo si dimostrano indissolubilmente intrecciati al potere, quasi una sua modalità automatica, perché si direbbe che i suoi ingranaggi (quando esso è sostenuto da un’autorità validamente riconosciuta) abbisognino comunque, per funzionare, di una svalutazione delle vittime che si spinge senza più limite fino alle forme di violenza più estreme – Zimbardo parla letteralmente di disumanizzazione, quale perdita di uno status degno di considerazione oltre il quale ogni deriva è lecita – come base per la legittimazione della loro perdurante oppressione fisica, intellettuale, psicologica, morale. E’ davvero difficile poi credere ancora che cambi davvero qualcosa di sostanziale sul confine della specie.
        Di conseguenza non vedo perché mai nel criticare gli slogan o le comparazioni superficiali e strumentali, o le gerarchie, si debba anche affermare la definitiva non comparabilità tra l’olocausto nazista e qualsiasi eccidio umano e lo sfruttamento animale in tutte le sue forme, andando di fatto a sollecitare quelle reazioni indignate che come riconosciamo tutt’e due non sono altro che antropocentrismo. La comparazione regge anche se gli animalisti sono brutti, cattivi e antipatici e la usano irresponsabilmente!
        Questa che ti ho fatto comunque è una semplice critica: nelle mie osservazioni non voleva esserci alcun ricatto e sono anche ben lungi dal processare le tue intenzioni nel dirti che certe prese di posizione mi pare possano scaturire solo da un pregiudizio specista (anche a non condividere Singer l’educazione di tutti noi è specista, come tu stessa hai detto)… ma non è che il dissenso debba essere per forza un’infamata! 🙂

  3. rita ha detto:

    Beh, ma forse sull’Olocausto ne saprà più Patterson, di te, o di me, no?
    E la regina d’Inghilterra certamente dirà stronzate, come tutti, ma magari sulla storia della monarchia inglese ne saprà più di me e te. Einstein, di fisica, ne sapeva più di me e te, no?
    Dunque riconoscere che ci sono persone che su alcuni argomenti magari possono essere più ferrati di noi è ricorrere nella fallacia da te indicata?
    Comunque sia Patterson non è stato l’unico Ebreo a fare questo paragone, i primi a farlo furono proprio alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio. Si può dire che forse a ragione ne sapessero qualcosa in più di noi oppure è argomentum ad auctoritatem?

    • Serena ha detto:

      Sì, Rita, stai continuando a ragionare secondo il principio di autorità. Non sai che Patterson è un super-espertone: come osi tu, caccola, contraddire il suo verbo? La regina d’Inghilterra potrebbe nutrire un amore sentimentale nei confronti della monarchia e non riuscire a valutare limpidamente la sua utilità; i fisici di professione dicono cose anche molto diverse tra loro.
      Anche il ricorso agli Ebrei che utilizzarono il Paragone è argomentum ad auctoritatem. Particolarmente odioso perché si nutre del timore quasi sacro che aleggia su tutto ciò che ha a che fare con l’olocausto per zittire l’interlocutore senza troppa fatica: loro ci sono passati, quindi se lo dicono devi accettarlo e basta! E tutti gli altri che non la pensano affatto così e sono stanchi delle foto dei propri cari su un cartellone della PeTA vicino alle tette di Pamela Anderson? Se l’argomento funzionasse, non sarebbe una fallacia. Riconoscere che ci sono persone che su alcuni argomenti possono essere più ferrate di noi è lecito, impugnare quel che dicono come dogma lo è già meno.

      • rita ha detto:

        Ma non ho affatto detto che vada impugnato come verbo, dico solo che non è il primo, né l’ultimo che ritiene lecito il paragone, sul quale si può concordare o meno. Io concordo. Tu no.
        Pure tu mi sembra che ricorra spesso alle citazioni di personaggi vari per validare le tue tesi, i tuoi argomenti o comunque per sostenerli, dunque che c’è di male se ricorro a Patterson, che è appunto uno studioso dell’Olocausto?
        Allora alla stessa maniera dovrei dirti che non mi frega nulla di quello che ha scritto Singer a proposito del sesso tra specie diverse perché così ti appoggi al principio di autorità.
        Dai che se fossi stata d’accordo con la tua posizione e avessi citato un altro studioso che invece era contrario al paragone, non avresti risposto che mi sarei appellata al principio di autorità.
        Peraltro non è che mi sono limitata a citare il nome di Patterson senza argomentare con parole mie, nei commenti all’altro post l’ho fatto ampliamente.
        Se fossi entrata dicendo: “Lo dice Patterson, dunque la questione finisce qui”, avresti ragione, ma la mia citazione del suddetto è avvenuta alla fine di una lunga discussione, in cui appunto ho espresso le mie ragioni, come ha fatto Leonora con le sue, tu con le tue, e mai prima lo avevo citato. Di questo almeno dammene atto.

      • Serena ha detto:

        Io ricorro a citazioni di personaggi “illustri” quando mi paiono fornire argomenti solidi a sostegno di una determinata tesi, non in virtù del loro prestigio. Ad esempio Witt-Stahl ha lavorato molto sull’antisemitismo, ma io non la chiamo in causa perché è una che “ne sa a pacchi sull’argomento”, quanto piuttosto perché mette nero su bianco critiche serrate e puntuali a cui mi sembra veramente difficile ribattere. Continuo a trovare gli argomenti che porti a favore del paragone deboli e accessori, comunque sì, non ho mai detto che non hai argomentato.

  4. rita ha detto:

    P.S.: ripeto, comunque non si sta dicendo che i due fenomeni siano sovrapponibili, diversa l’eziologia, le motivazioni, il contesto ecc., solo riconoscere l’analogia di alcuni aspetti.
    Si gassano gli animali, si gassavano gli Ebrei, partono per i viaggi della morte i primi e partivano per quelli della morte i secondi e così via.

  5. rita ha detto:

    Ancora con la frase “Mengele era un angelo al confronto”, dopo che ti ho anche spiegato che il termine angelo si riferiva al suo nomignolo?
    E comunque sia, quello che si sta tentando di dire è che c’è una forma di nazismo in corso da millenni (pure se normalizzato, istituzionalizzato ecc.) sul quale si vuol porre l’attenzione. Che poi a livello di comunicazione sia giusto o sbagliato, se ne può discutere, ma abbiamo già espresso idee diverse su questo.
    Poi non capisco perché continui a tirare in ballo la Peta e le tette di Pamela Anderson, non tutti quelli che fanno paragoni col Nazismo ricorrono a pubblicità discutibili come quelle della Peta, scusa. Ma che c’entra?
    E l’empatia, se permetti, ce l’ho verso le vittime, non verso chi gli fa del male. Posso comprendere anche gli aguzzini, ma non giustificarli.

    • rita ha detto:

      P.S.: ma io comprendo anche Mengele, se è per questo, come ho già scritto.
      Faceva quel che faceva perché credeva di compiere un bene superiore, perché rispondeva a un’autorità superiore.
      Dio santo Serena, l’empatia si può provare anche per i serial killer in fondo, per chiunque abbia commesso orrori, anche per i pedofili, ma un conto è l’empatia, un altro la giustificazione o il dialogo pacato e lo stare attenti a non diffondere pubblicamente l’idea che i vivisettori siano persone che comunque commettono atti ignobili.
      Che poi si parlava dei vivisettori in effetti, nemmeno del voler fare il paragone tra nazismo e specismo, solo di mettere a confronto persone che egualmente hanno compiuto e compiono ancora oggi orrori innominabili.

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