La politica sessuale della carne

di Carol J. Adams

iris-schiefferstein

Diventare vegetariana sembrava avere poco a che fare con il mio essere femminista. O almeno così pensavo. Solo ora comprendo come e perché queste due cose sono tra loro connesse, come essere vegetariana risuoni di armonici femministi. E’ stato grazie al femminismo che le mie preoccupazioni etiche e salutistiche si sono chiarite e sono apparse correlate tra loro. La politica sessuale della carne analizza questa correlazione ed esamina i rapporti tra il dominio maschile e il carnivorismo. La sua tesi centrale è che il discorso sull’abolizione della carne tenta di rimuovere uno dei mezzi di controllo del maschio. Esso mostra inoltre i modi in cui l’oppressione degli animali e l’oppresione delle donne sono tra loro connesse.

            In un certo senso tutti riconosciamo la politica sessuale della carne. Quando pensiamo che i maschi, in particolar modo gli atleti maschi, hanno bisogno della carne o quando le donne affermano che potrebbero smettere di mangiare carne ma che continuano a prepararla per i loro mariti, realizziamo un collegamento evidente tra mangiare carne e virilità maschile. Ma sono i collegamenti nascosti ad essere più elusivi e difficili da identificare in quanto sono più profondamente radicati nella nostra cultura.

            L’intento di questo libro è di rendere evidenti tali collegamenti nascosti spiegando come la cultura patriarcale autorizzi il cibarsi di animali e identificando così l’intreccio tra femminismo e vegetarismo.

            Oltre a contribuire alla teoria femminista, questo libro costituisce parte del corpo emergente di studi in difesa degli animali. Un’attenta analisi del mangiare carne è una parte essenziale della teoria animalista poiché il mangiare carne costituisce la forma principale e diffusa di distruzione degli animali. Questo libro si differenzia da altri testi animalisti nel rapporto che stabilisce tra cultura patriarcale ed oppressione animale. Il vegetarismo cerca un senso in una cultura patriarcale che lo distrugge; esso è costretto continuamente a scontrarsi con la politica sessuale della carne. Già Catone aveva messo in guardia: “è un compito arduo, cittadini, fare discorsi a stomaci non hanno orecchie”.[1] E’ questo il problema di chi alza la voce contro il carnivorismo: è un compito arduo arogmentare contro le credenze dominanti sulla carne se esse sono state rinforzate dal piacere personale e caricate di un forte simbolismo.

            Di conseguenza, uno studio generale del vegetarismo e del femminismo dovrà considerare non solo ciò che il vegetarismo afferma, ma anche il modo in cui viene accolto. Perché il vegetarismo viene considerato una moda se, al pari degli ideali femministi, è una riforma ed un’idea che conosce esempi lungo tutto l’arco della storia? Perché il vegetarismo di una scrittrice o di una sua opera viene spesso ignorato dai critici letterari? Per rispondere a queste domande cerco di indagare la carne come testo.

            Parlando carne come testo situiamo la produzione di significato della carne all’interno di un contesto politico-culturale. Nessuno di noi sceglie i testi che costituiscono la carne nel suo aspetto testuale: vi aderiamo. A causa del significato personale che la carne ha per coloro che la consumano, in genere non riusciamo a vedere i significati sociali che in realtà predeterminano il significato personale. Riconoscere la carne come testo è il primo passo per identificare la politica sessuale della carne.

            La prima parte del libro La politica sessuale della carne tenta di definire la carne come testo patriarcale. Nel fare ciò esso poggia su una nozione allargata di ciò che costituisce un testo. Ad es.: un messaggio riconoscibile; l’invariabilità del significato del testo, di modo che attraverso la ripetizione anche il significato si ripete identico; un sistema di rapporti interni che ne mostrano la coerenza.[2] Lo stesso accade con la carne: essa porta con sé un significato riconoscibile (la carne è vista come cibo, in quanto gran parte della carne costituisce un cibo essenziale e nutriente); il suo significato ricorre continuamente durante i pasti, la pubblicità, la conversazione; essa è compresa in un sistema di rapporti che hanno a che fare con la produzione di cibo, con gli atteggiamenti nei confronti degli animali e, per estensione, con una dosa accettabile di violenza verso di essi.

            Tra i testi della carne che assimiliamo nella nostra vita c’è la convinzione che si debba mangiare carne e che la carne faccia bene. Come risultato, la riduzione degli animali a corpi consumabili è uno dei presupposti che strutturano il nostro comportamento. Accade raramente che si analizzi con attenzione questo testo culturale che determina l’atteggiamento prevalente nei confronti del consumo di animali. La principale ragione per cui ciò non accade è la natura patriarcale del discorso culturale in difesa della carne. Il messaggio evidente della carne implica un collegamento con il ruolo del maschio; il suo significato ricorre all’interno di un sistema di genere prefissato; il messaggio che identifica la carne come cibo diventa coerente grazie ad una serie di atteggiamenti patriarcali tra cui l’idea che il fine giustifica i mezzi, che l’oggettivazione degli altri esseri è una parte necessaria della vita e che la violenza può e deve essere mascherata. Questi costituiscono tutti elementi della politica sessuale della carne.

            Nel capitolo seguente mostro che le assegnazioni dei ruoli sessuali determinano la distribuzione della carne. Quando la carne scarseggia essa va ai maschi. Assumere che la carne è cibo per i maschi e, conseguentemente, che i vegetali sono cibo per le donne ha conseguenze politiche importanti. In sostanza, poiché mangiare carne è una misura della virilità di una cultura e di un individuo, la società identifica il vegetarismo con l’evirazione o la femminilità.

            Un altro aspetto della politica sessuale della carne si rende visibile se esaminiamo il mito di Zeus e Meti. Lui, il patriarca dei patriarchi, desidera Meti, la corteggia, la costringe su un giaciglio con “parole di miele”, la seduce, la violenta e, infine, la divora. Ma afferma di ricevere i suoi consigli dallo stomaco, ove essa ora dimora. In questo mito, violenza sessuale e carnivorismo si identificano, un argomento affrontato nel secondo capitolo: “Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne”. Si tratta di un mito che ha anche a che fare con il consumo maschile del linguaggio femminile. Il discorso sulla carne deve infatti anche occuparsi del modo in cui il linguaggio patriarcale definisce il consumo; questa discussione si trova nel terzo capitolo.

            E’ difficile che ci si soffermi ad analizzare il proprio consumo di carne. Questo è un esempio di come coloro che si trovano nell’ordine dominante riservino per sé il diritto di stabilire ciò che è degno di essere discusso e criticato. Da ciò risulta che anche i vegetariani più seri sono intrappolati da questa visione del mondo e mentre essi ritengono che sia sufficiente elencare i numerosi problemi causati dal consumo di carne (la salute, la morte di animali, la distruzione ecologica) per convertire qualcuno al vegetarismo, non si accorgono che in una cultura strutturalmente carnivora tutto ciò non ha alcun valore. Questo problema è affrontato nel quarto capitolo: “Il verbo si è fatto carne”.

            La seconda parte del libro – “Dallo stomaco di Zeus” – delinea un abbozzo di una storia femminista del vegetarismo concentrandosi sul periodo che va dal 1790 al presente (in Gran Bretagna e negli USA). Essa tenta di liberare la voce di Meti dallo stomaco di Zeus, emancipando il significato vegetariano dalla politica sessuale della carne e le voci di donna dall’interpretazione patriarcale che ne viene data. Questa sezione di mezzo non analizza la cultura contemporanea ma si rivolge ai testi letterari e alle loro influenze vegetariane. Si tratta di analisi storico-letterarie che fanno comunque uso delle idee introdotte nella prima parte e che tentano di rispondere alla domanda: “come si configura un testo che sfida la politica sessuale della carne?”. Una possibile risposta a tale domanda – l’idea di “testimonianza vegetariana” – è affrontata nel quinto capitolo, rendendo più agevole l’ipotesi di un rapporto tra testi femminili e storia del vegetarismo.

            Nel sesto capitolo esploro il significato vegetariano di Frankenstein, un testo femminista che fa testimonianza vegetariana. Attenzione: non tento di trasformare Frankenstein in un trattato di didattica vegetariana! Ma esso presenta delle sfumature vegeteriane che sono importanti per il delinearsi della vicenda.

            La seconda parte esamina anche testi rappresentativi di scrittrici che – a partire dalla Prima Guerra Mondiale – hanno messo in relazione il consumo di carne, il dominio maschile e la guerra. A partire da testi come La Grande Guerra e la memoria moderna – da cui è tratto il titolo del settimo capitolo – cerca di rintracciare idee che si sono cristallizzate al tempo della Grande Guerra, seguendo il loro sviluppo nell’arco del ‘900. Tali idee inlcudono quella di un’Età d’Oro di femminismo, vegetarismo e pacifismo.

            La critica del carnivorismo non è stata ovviamente appannaggio esclusivo delle donne. In effetti, a leggere i testi vegetariani classici si potrebbe concludere che le donne non abbiano contribuito molto in questo campo. D’altra parte, a leggere molti scritti femministi non sembra ci siano nulla di sbagliato a mangiare carne. Infine, ci sono testi storici che sembrano confermare che il vegetarismo è solo una moda e niente più. Ma la teoria vegetariana non è né infondata né qualcosa di vago; al pari della teoria femminsta deve esser vista come una teoria “generale e cumulativa, in cui ogni stadio mantiene alcuni valori e limiti dei suoi predecessori”.[3] Tra i nostri predecessori vegetariani ci sono state parecchie femministe.

            Gli argomenti in favore del vegetarismo che sentiamo oggi esistevano già nel 1790, ad eccezione, ovviamente, dell’analisi della produzione di carne del tardo ventesimo secolo. Gli scritti vegetariani fanno consapevolmente parte di una tradizione di protesta in cui sono chiaramente riconoscibili temi e immagini ricorrenti. Tuttavia essi non sono stati considerati parti di una tradizione generale e cumulativa, né li si è considerati espressioni di una letteratura di protesta. Ma questo atto mancato riflette la stasi del discorso culturale sulla carne, piuttosto che l’inadeguatezza del vegetarismo.

            L’ampia documentazione di questo libro intende dimostrare proprio quel carattere generale e cumulativo che è stato a lungo negato. Non sono io a creare attestazioni di vegetarismo nella letteratura e nella storia. I fatti sono là, ma la tendenza a considerare il vegetarismo una cosa poco seria ha significato che questi fatti venissero ignorati. In un certo senso, i vegetariani non sono più predisposti dei carnivori rispetto alle proprie scelte culinarie; ma essi non beneficiano, come i carnivori, del fatto che la cultura dominante approva di fatto le loro inclinazioni.

            Poiché considero l’oppressione femminile e quella animale come interdipendenti, sono costernata dall’incapacità delle femministe di vedere come le problematiche di genere siano intrinseche al fatto di cibarsi di animali. Si tratta però di un fallimento istruttivo. Laddove identifico una connivenza del femminismo con la politica sessuale della carne, sto simultaneamente identificando uno schema mentale che la carne come testo impone su tutti noi. Su questo argomento, quindi, il discorso femminista riproduce ironicamente il pensiero patriarcale; la terza parte – “Mangaite riso e abbiate fiducia nelle donne” – costituisce una sfida per entrambi: essa argomenta che il vegetarismo rappresenta un segno di autonomia per un essere femminile e un segnale di rifiuto del controllo e della violenza maschili.

            Ritegno che come la teoria femminista ha bisogno di concetti vegetariani, così la teoria dei diritti animali debba incorporare dei principi femministi. La carne è il simbolo di ciò che non si vede ma che è sempre presente: il controllo patriarcale sugli animali.

            Le donne che si vedono negare ogni possibilità di dialogo dalla cultura dominante divengono fonte di intuizioni fondamentali per l’oppressione animale. Figure importanti della tradizione femminista – scrittrici come Asphra Behn, Mary Shelley, Charlotte Perkins Gilman, Alice Walker, Marge Piercy, Audre Lorde – hanno prodotto opere che sfidano la politica sessuale della carne.

            Stabilendo un collegamento tra vegetarismo e donne non sto sostenendo che il vegetarismo è solo per le donne. Al contrario, vedremo come molti individui di sesso maschile che hanno abbracciato i diritti delle donne, sono diventati anche vegetariani. Affermare che solo le donne dovrebbero smettere di mangiare carne rinforzerebbe la politica sessuale della carne! Ciò di cui mi occupo in primo luogo è di rendere evidente come la teoria femminista ospiti logicamente una critica vegetariana che non è stata riconosciuta; al tempo stesso e inversamente, mi occupo di mostrare come il vegetarismo costituisca una sfida alla società patriarcale. Ciò non toglie che il sessismo di molti vegetariani, di gruppi e culture vegetariane dimostri come sia necessario assumere una prospettiva femminista.

            Bronson Alcott, il padre di Louisa Mary Alcott, è un esempio lampante di come il vegetarismo senza femminismo sia incompleto e di come esso riproduca, così, atteggiamenti patriarcali. Alcott trasferì la famiglia in una fattoria, Fruitlands, sperando di vivere dei frutti della terra, senza schiavitù animale – né per cibo, né per il lavoro. Non era però tipo incline al lavoro manuale e aveva la tendenza a sparire da Fruitlands per discutere delle sue idee in astratto, piuttosto che viverle in carne e ossa. Durante i periodi di mietitura, abbandonava la moglie e le figlie costringendole a compiere i lavori pesanti necessari; in questo modo, le “bestie da soma” non era sparite dalla sua utopia: erano le donne! Rispettare gli animali e non le donne è come separare teoria e pratica, la parola dalla carne.

            Si può affermare che la maggioranza silenziosa di questo mondo è stata vegetariana. Certo, questo vegetarismo non fu il risultato di un punto di vista che cercava un rapporto giusto tra umani e animali, tuttavia si tratta di un fatto importante. Se una dieta di fagioli e semi è stata la base di sussistenza per la maggioranza della popolazione mondiale fino a tempi relativamente recenti, allora la carne non è essenziale.[4] Ad ogni modo, se conoscere le diverse culture più o meno vegetariane è importante per scuotere la fissazione occidentale sulla carne, ciò che mette veramente in crisi il discorso culturale dominante è l’assunzione di un vegetarismo consapevole e determinato in culture in cui la carne è una presenza ingombrante.

            Ciò di cui mi occupo in questo libro  la rinuncia consapevole alla carne in base al vegetarismo etico, cioè quel vegetarismo che nasce dalla decisione etica che considera il mangiare carne una forma ingiustificabile di sfruttamento degli altri animali. Questo argomento in favore del vegetarismo non è quello che viene diffuso dalla nostra cultura: sono stati invece i benefici alla salute individuale che ha portato molti a convertirsi al vegetarismo. Tale vegetarismo però non implica preoccupazione per gli animali e può arrivare a non aver problemi con la carna “biologica”. Ovviamente non posso che rallegrarmi del fatto che una decisione etica abbia conseguenze positive per la salute, che diventando vegetariani per motivi etici si riducano conseguentemente i rischi, ad es., di malattie cardiache o del cancro. Esamino questo punto in “La distorsione del corpo vegetariano”. Tuttavia, nel capitolo conclusivo descrivo lo schema che porta all’assunzione del vegetarismo e che definisco: la ricerca vegetariana. Tal ricerca consiste in questo: scoprire la nullità della carne, chiamare per nome i rapporti che si instaurano con gli animali e, alla fine, rifiutare il carnivorismo e il mondo patriarcale.

            Questo libro sarebbe completamente diverso se non fossi diventata io stessa vegetariana, se non avessi preso parte in prima persona alla ricerca vegetariana. Avere opinioni di minoranza in una cultura dominante è illumante: gli schemi di risposta dei carnivori al vegetarismo sono stati molto istruttivi mentre cercado di definire la resistenza intellettuale a discutere il fatto di mangiare animali. Affrontare il consenso culturale muovendo da una posizione di inferiorità mi ha mostrato quanto siano saldi e inamovibili gli atteggiamenti dei maschi. Ma questo libro sarebbe stato completamente diverso se negli stessi anni non mi fossi occupata di violenza domestica, dei movimenti contro razzismo e la povertà. Venire a conoscenza e parlare delle vite reali di altre donne mi ha aiutato a capire che dobbiamo discutere i testi della carne, non un singolo testo monolitico. Mangiare carne è un costrutto, una forza, una realtà economica, oltre che una questione molto personale.

            Ammetto che il coinvolgimento nelle lotte giornaliere contro le forze dell’oppressione mi ha fatto minimizzare il compito che mi ero prefissa di scrivere su questo argomento. Come potevo infatti passare il mio tempo a scrivere quando c’erano così tante persone analfabete? Come potevo discutere di scelte alimentari quando c’erano così tante persone che non avevano cibo di nessun tipo? Come potevo discutere di violenza contro gli animali quando donne che erano vittime di violenza maschile cercavano aiuto? Tuttavia, standomene in silenzio stavo aderendo ad uno dei testi fondamentali della carne: il fatto che il vegetarismo non sia una cosa importante. Con il mio silenzio stavo dando forza al discorso dominante che volevo decostruire.

            E’ venuto il tempo di prendere sul serio la politica sessuale della carne perché non è qualcosa di separato dalle altre importanti questioni del nostro tempo.


[1] Citato in Dudley Giehl, Vegetarianism: A Way of Life, Harper & Row, New York 1979, p. 128.

[2] Questa è il modo in cui interpreto le proprietà di un testo descritte da Thomas A. Sebeok, “Poetics in the Lion’s Den: The Circus Act as a Text”, in Modern Language Notes 86, n. 6, dicembre 1971, p. 845.

[3] Dall’Introduzione a Blanche W. Cook – Clare Coss – Alice Kessler-Harris – Rosalind P. Petchesky – Amy Swerdlow, Women, History and Theory: The Essays of Joan Kelly, University of Chicago Press, Chicago 1984, p. xxiv.

[4] Cfr., ad es., l’affermazione di Frances Moore Lappé: “tutte le soceità tradizionali hanno di fatto basato la propria dieta su proteine complementari: hanno usato combinati di cereali e legumi come fonte primaria di proteine ed energie”. F. M. Lappé, Diet for a Small Planet: Tenth Anniversary Edition, Ballantine Books, New York 1982, p. 161. Nel 1965 Aaron M. Altschul scrisse: “in Estremo Oriente le persone mangiano in media 50 grammi di proteine al giorno di cui 39 grammi sono di origine vegetale, mentre nel nord Europa se ne mangiano al giorno 95 grammi, di cui circa 53sono di origine animale”. A. M. Altschul, Proteins: Their Chemistry and Politics, Basic Books Inc., New York 1965, p. 13. Jane Brody cita la American Dietetic Association e il fatto che “la maggior parte dell’umanaità per la maggior parte della storia umana è vissuta su diete di tipo quasi-vegetariano”. Jane Brody’s Nutrition Book, W. W. Norton & Co., New York 1981, p. 438. Cfr. anche Thelma Barer-Stein, You Eat Waht You Are: A Study of Canadian Ethnic Food Traditions, McClelland and Stewart, Toronto 1979.

I commenti sono chiusi.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: