La catena del potere

di Alberto Pitton

 

dominio

 

Ieri, mentre ero sull’autobus contemplando diversi tipi umani (pensionata, migrante, giovane disoccupato, ragazzina edonista etc.), ho cominciato a pensare a quante difficoltà si incontrano nel far capire alla “gente comune” o, per dirla in termini più precisi, alla “classe lavoratrice”, come va il mondo e cosa si dovrebbe fare per cambiarlo. Le difficoltà, mi sono reso conto subito guardando quelle persone, sono di varia natura e intensità.

1)  Anzitutto, certo, la difficoltà principale è la condizione oggettiva di “benessere relativo” che impedisce – ormai da 50 anni – alla stragrande maggioranza della classe di percepire il proprio sfruttamento. L’intreccio tra sfruttamento interno e sfruttamento imperialistico (con il peso maggiore accordato a quest’ultimo dal sistema complessivo) – coadiuvato dalla cooptazione nei centri di potere delle tradizionali forze politiche e sindacali operaie – impedisce di cogliere in modo immediato il proprio interesse al cambiamento di sistema politico ed economico. Quando scrivevano i socialisti dell’800, il rapporto tra sofferenza e sfruttamento era più evidente, tanto la prima quanto il secondo erano concentrati all’interno dello stesso stato e dello stesso corpo: per questo si aveva tanta fiducia sul fatto che “l’emancipazione della classe sarebbe stata opera della classe stessa”. Oggi il rapporto sofferenza/sfruttamento è talmente complesso e multiforme da non poter essere più colto  in quel modo immediato e, dunque, rende difficile anche il lavoro di innalzamento della coscienza politica nei singoli (da notare che il “benessere relativo” vale anche per il migrante che probabilmente vive molto meglio sfruttato qui in Italia che i suoi connazionali in patria!).

2)  A questa difficoltà si aggiungono poi tutta una serie di preformazioni “culturali” che qualificano la specifica forma ideologica di percezione/distorsione della realtà nelle varie figure di cui sopra: l’ideologia cattolico-tradizionalista della pensionata, l’ideologia mussulmana/induista/buddista etc. etc. del migrante, l’ideologia edonista-consumista del/la giovane che coincide quasi totalmente con un azzeramento culturale e storico e, dunque, con la totale incapacità (a fronte di una scolarizzazione più elevata della pensionata e del migrante) di trascendere l’orizzonte esistente.

3)  Quest’ultimo elemento si fonde con il potere diffusivo e ottundente dell’industria culturale nel suo complesso. Al sostanziale ammortizzamento della percezione immediata del proprio sfruttamento e alla mancanza di “strumenti cognitivi” per leggere una realtà complessa, si accompagna un’inadeguata e spesso coscientemente mistificata informazione mediatica sulla realtà stessa che produce un’ulteriore forma di distacco ideologico da essa. Si consuma qui la paradossale “crisi delle ideologie” che altro non è se non il dominio universale di una ideologia che, sotto l’aspetto di un pensiero “debole” (cioè senza imporre precetti particolarmente rigidi e precisi) indottrina sul comportamento da tenere in forma diffusiva e surrettizia.

4)  Ciò determina l’eclissi di tutta una serie di discorsi anti-ideologici e anti-autoritari che – in tempi di sommovimento sociale acuto – trovavano maggiore ascolto e diffusione. Se è divenuto difficile far comprendere al singolo il proprio ruolo di “ingranaggio” nello sfruttamento complessivo di cui è parte (attiva e consenziente), ancora più difficile risulta far apparire forme di sfruttamento/oppressione che non toccano l’identità individuale (o, che è lo stesso, la toccano determinandola “negativamente”…comprendere ciò presuppone, evidentemente, un livello di riflessione e coscienza ancora più elevato):

  • Il migrante e il giovane disoccupato non avranno alcuna percezione né comprensione dell’oppressione di cui sono vittime la pensionata e la ragazza (che, a loro volta, non avranno probabilmente alcuna coscienza di cosa ha significato e significa per loro la posizione subordinata al maschio che o non percepiscono o accettano supinamente come “coscienza del proprio ruolo”, “fatto naturale” etc.).

  • La pensionata, il disoccupato e la ragazza avranno al massimo una percezione “buonista” e “paternalista” della posizione del migrante. Il fatto che essi non colgano il ruolo dei paesi “in via di sviluppo” nell’ordine di sfruttamento complessivo, determina anche il fatto che la solidarietà nei confronti di chi migra da quei paesi sia del tutto accidentale e soggettiva, elaborata nelle discutibili forme imposte “dall’alto” dall’indottrinamento bipartisan del dopoguerra (Razzismo = Auschwitz = Benigni) contro cui si scontrano sempre più le insofferenze locali dovute ad uno stato oggettivo di insicurezza e incertezza globale.

  • C’è la questione da sempre negletta della “gerontocrazia” o, in senso più ampio, del dominio della parte più anziana della società sulla più giovane, in particolar modo dell’oppressione dei bambini. Pensionati e migranti non si figureranno certo la possibilità che il loro potere decisionale e l’autorità ad essi garantita dalla legge sulla famiglia possa costituire una forma di ingiustizia nei confronti dei bambini, degli adolescenti e dei giovanissimi, spossessati di ogni capacità di pensare/agire in modo autonomo e costretti a riprodurre i meccanismi tradizionali di apprendimento e di subordinazione all’ordine di cui genitori e nonni sono stati a loro volta vittime (è significativo che – mea culpa – non abbia nemmeno nominato bambini, adolescenti e giovanissimi quando ho fatto la lista degli oppressi, benché sull’autobus ce ne fossero un’infinità!)

  • Il fatto che nella lista manchi il riferimento a gay, lesbiche, transgender e queer è invece testimonianza del fatto che queste soggettività sono ancora costrette forzatamente a celare la propria identità in pubblico. Ed è probabile che tutti i soggetti oppressi da me citati in precedenza quando non adottino nei loro confronti un atteggiamento di chiusura violenta (magari nel caso del migrante mussulmano…tanto per contribuire un po’ al qualunquismo), avranno probabilmente un atteggiamento di solidarietà del tipo “debole e indotto” che abbiamo visto nel caso del razzismo. E quindi: grazie alle fiction si è capito che i “froci” possono essere brava gente che va lasciata in pace, basta che non si sposino e non pensino di avere dei figli.

  • Inutile dire che la coscienza ecologica di queste persone sarà nulla o appena appena abbozzata. Avranno tutti sentito che c’è un problema ecologico da qualche parte ma – visto anche il distacco dalla politica globale di cui sopra – penseranno fermamente che è colpa di “qualcun altro” (il che è vero) e che loro “non possono fare nulla” (il che non è vero). Ciò si rifletterà nei loro comportamenti generali (scarsa incidenza del tema ecologico nell’agenda politica) e quotidiani: la pensionata comprerà detersivi industriali a tutto spiano e farà scorrere acqua a ettolitri per pulire l’insalata GM, il migrante e il giovane disoccupato misureranno la propria virilità con la cilindrata della macchina, la ragazza avrà magari in testa un miscuglio non meglio precisato in cui salutismo, agricoltura biologica e medicina omeopatica si saldano con l’idea di “fare la dieta”.

  • Scontato, infine, il fatto che nessuna di queste persone si sarà mai posto il problema della sofferenza animale. Al limite ci sarà qualche traccia di zoofilia nella pensionata gattara e il giovane potrà essere amante dei pitbul, il tutto ovviamente condito dall’onnipresente antropomorfizzazione e dal buonismo/paternalismo mediatico. Vorrei però sottolineare subito che tra i vari motivi per cui la questione animale non rientra nella coscienza normale di queste persone c’è un fatto a monte da non sottovalutare: non essendo per essi in alcun modo concepibile che si possa cambiare la società e riorganizzare la vita in comune, men che meno verrà loro in mente che ciò possa essere fatto anche a beneficio di soggetti non umani.

Tutto ciò mostra la “complessità” della coscienza e, dunque, dei fattori “ideologici” che si frappongono ad una percezione e ad una comprensione adeguata della realtà. Ho cercato di mettere in mostra questa struttura a partire dal punto in teoria più evidente (la percezione del proprio sfruttamento), passando per quello che lo è di meno (la percezione dello sfruttamento altrui), e chiudendo con quello che non lo è per nulla (la percezione dello sfruttamento di una alterità radicale). Le difficoltà ideologiche che si frappongono alla percezione/comprensione di queste forme di oppressione sono, come detto, di ordine e intensità diverse: per quanto incredibilmente difficile è certo più agevole dimostrare a qualcuno che è sfruttato piuttosto che fargli accettare lo sfruttamento altrui di cui è magari (parziale) beneficiario. Se non si iniziano ad attaccare i nodi in cui questa rete di sfruttamenti e di oppressioni si intrecciano, sarà veramente difficile portare i singoli soggetti di cui ho parlato alla consapevolezza della struttura complessa del potere. E’ compito nostro fare in modo che l’ultimo gradino di questa scala gerarchica, gli animali non-umani, venga percepita come un soggetto sfruttato anche al vertice della catena di potere e oppressione. Ma non sarà possibile farlo se non si intaccherà contestualmente questa stessa catena di potere laddove ferisce e mutila gli uomini, impedendo loro di sentire compassione per l’altro umano.

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