L’etologo sciamano. Gli animali di Roberto Marchesini.
di Marco Maurizi
Roberto Marchesini, Ricordi di animali, Mursia, Milano 2013.
Quando ho letto il titolo dell’autobiografia di Roberto Marchesini mi è immediatamente venuto in mente, per contrasto, l’autobiografia di uno dei più grandi filosofi italiani, Emanuele Severino, che porta l’inevitabile titolo Il mio ricordo degli eterni. Un contrasto che mai avrebbe potuto essere più stridente e più appropriato: da un lato, il parmenideo, con la sua convinzione che la realtà nel suo strato più vero e profondo sia Essere immutabile ed eterno del quale le nostre esistenze terrene non sono che effimere e illuorie manifestazioni; dall’altro, un novello Eraclito che crede nella realtà del Divenire, una sottile e complessa trama di esistenze in perpetua metamorfosi.
Quella di Marchesini è una biografia sui generis, forse sarebbe più appropriato chiamarla una zoografia. Perché al centro non c’è un soggetto che sovranamente occupa la scena del suo mondo e riduce il resto a comparse, bensì un vero e proprio intreccio di incontri con quegli animali evocati nel titolo e che costellano la storia personale dell’autore in tutte le fasi del suo percorso. Ricordi di animali perché Marchesini ricorda la propria vita attraverso gli animali che ha incontrato ma anche, e forse soprattutto, ricordi di tutti gli animali – Marchesini incluso – che hanno scritto con lui questa storia e che lo ricordano in qualche modo come lui ricorda loro. Perché l’autore qui scrive anche nel senso di essere a sua volta scritto dagli animali che l’hanno attraversato e che si porta dietro perché, come dice l’autore, “l’etologo è lo sciamano di oggi”.
Il costante flusso, parola che compare spesso nel testo, la confluenza, l’ibridazione costituiscono quindi il vero “soggetto” di questa strana biografia senza soggetto. Se la biografia è un “raccontarsi” Ricordi di animali rompe lo schema classico del genere perché assume la biografia come eterografia, ma anche perché, conseguentemente, modifica la stessa forma del “raccontare”. L’interesse mostrato da Marchesini nella narrazione, infatti, risale all’adolescenza e ancor prima all’infanzia. Risale a quei racconti strani che sorprendevano sempre i suoi lettori perché non erano “storie”, perché descrivevano gesti, volti, situazioni senza pretendede di imporre una parabola costrittiva, un plot preordinato, lasciando al lettore il compito di costruire a suo piacimento un percorso. Una narrazione che “come il volo degli uccelli” descrive un movimento ma non un senso prestabilito, specchio così della vita stessa in quanto libero percorso in cui si sedimentano nel fragile ordine della contingenza degli incontri che solo a posteriori assumono un significato per chi li vive.
Anche nell’infanzia di Marchesini c’è questo sogno di fare da grande il “comico” e lo “scrittore” cose che nell’universo dell’autore si fondono in modo profondo. Perché la casa che il piccolo Marchesini riempie di insetti, uccelli, lucertole, pesci ecc. si trasforma in un universo bizzarro in cui si sperimentano interazioni pacifiche e creative tra umani e non-umani (e tra i non-umani stessi), in un “dadaismo zooantropologico” che costantemente produce soprese e situazioni buffe che la precoce intelligenza dell’autore trasforma prontamente in succulenti aneddoti da raccontare. Perché l’umorismo, come hanno insegnato Bergson, Pirandello e Freud, segna il momento in cui il consueto si sfalda, l’inatteso irrompe nello schema dell’abitudinario, in cui la certezza vacilla e il riso accoglie il momento liberante della novità.
L’umorismo, di cui Ricordi di animali è piacevolmente costellato, segna così il momento in cui l’identità antropocentrica, chiusa su se stessa dell’umano, mostra le proprie crepe e lascia intravedere la costitutiva alterità che in realtà la sorregge. E, in conseguenza di ciò, sono molte le rigide distinzioni e opposizioni che vengono a crollare una volta perso il proprio ancoraggio nell’identitarismo antropocentrico. Immagini stereotipate che rappresentano altrettante proiezioni dell’umano che si recide dal resto del vivente e non può che interpretarlo in modo distorto. Il libro è pieno di momenti in cui l’autore destabilizza certezze e introduce uno sguardo diverso, laterale, spiazzante: quando richiama l’attenzione sul fatto che la metropoli non è una pura e semplice “antroposfera” e restituendola alla sua natura propria di insieme di società animali intrecciate tra loro, oppure quando, inversamente, inforcate le lenti del fotografo di insetti, riconosce nel giardino delle vere e proprie “architetture vegetali”, una metropoli non meno complessa, caotica e conflittuale di quella ideata dagli umani; quando contesta la classica distinzione tra il cane “compagnone fedele” e il gatto “individualista e traditore”, sottolineando le diverse forme di socialità che appartengono a queste specie, rivelandoci la paradossale “socialità conviviale” del felino sognatore; oppure, ancora, quando nel pieno della contestazione studentesca si estranea dal suo tempo per dedicarsi a degli human safari paradossali nei giardini pubblici. È un passo molto importante, credo, nell’architettura del libro. Marchesini si mette a fotografare anziani e bambini, figure marginali in quei tempi di machismo politico, figure a margine dell’umano che “contava” e che invece ne rivelano qualcosa di più profondo e reale.
È qui che si rivela l’atteggiamento fondamentale che Marchesini cerca di trasmettere al lettore, quel modo di porsi che è anche un modo d’essere e che penso si possa sintetizzare in queste due esigenze apparentamente contrapposte ma convergenti: 1) la natura si mostra a chi si ritrae e 2) la natura si vive se la si ama. Da un lato c’è la necessità della distanza, di fare un passo indietro per lasciare emergere l’altro per come si dà. Dall’altro, l’esigenza del contatto e dell’incontro reali con l’eterospecifico, senza i quali quest’ultimo si trasforma nella vuota astrazione filosofica dell’animale. Fin da bambino, mi sembra, Marchesini ha avuto la capacità di comprendere la necessità di tale duplice approccio. E descrive molto bene come fin dai suoi primi passi da entomologo in erba abbia imparato la disciplina dell’attesa, la pazienza della catalogazione che esercita l’intelligenza alla sensibilità verso le minuzie dell’ordo rerum. Come tutto questo possa muovere lo sguardo alla ricerca del contatto, all’empatia verso il dissimile, sviluppando la fantasia come ricerca di una libertà che non può che essere dell’altro. Perché solo laddove libera la libertà non si riduce ad illusoria e autocompiaciuta sovranità.
Tutto questo prelude alla svolta fondamentale che la storia di Marchesini prende, verso la metà degli anni ’80, quando l’esigenza di frequentazione degli animali si traduce in impegno e militanza in favore della loro liberazione. Un salto importante, preparato dal lungo apprendistato di etologo, da veterinario per animali “da affezione” e negli allevamenti intensivi, che è però anche un ritorno indietro, al tempo dell’infanzia in cui gli animali erano vissuti in modo immediato, ingenuo ma anche più vero. Marchesini si sente, così racconta, improvvisamente lontano da animali che in teoria incontra ogni giorno senza incontrarli più effettivamente: gli animali “edipici” dell’ambulatorio che sono poco più che vuoti involucri in cui i loro “padroni” riversano i propri vissuti esistenziali, per tacere degli animali negli allevamenti ridotti ad ammassi di carne schiacciati negli ingranaggi dell’industria alimentare. In una società che introna l’umano attraverso la rimozione, distruzione e asservimento dell’eterospecifico, l’incontro con l’animale non sembra più possibile se non come effetto di una scelta. Scelta di liberare gli animali dalla morsa in cui sono costretti dagli interessi di una società costruita sull’asservimento dell’altro. E che coincide con una prassi condivisa che ci porti verso una società diversamente orientata per umani e non-umani. Una società che smetta di murarsi viva per paura dell’alterità, una società che renda finalmente possibile l’incontro l’animale e per estensione con l’altro in tutte le sue forme.