Senzienza, antispecismo e aborto

di Marco Lorenzi

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Il dibattito etico sui diritti degli animali e sull’aborto condividono una strana sorte, quella di essere da sempre funestati dallo stesso problema e di aver bisogno dello stesso approccio razionale per giungere ad una soluzione condivisa.

Il problema che accomuna i dibattiti è la palese inadeguatezza delle argomentazioni addotte dalle parti che si contrappongono nel dibattito pubblico, incapaci di andare al di là di slogan strillati tanto più forte quanto meno sono ragionati.

Gli antiabortisti sostengono che l’aborto equivale ad un omicidio dato che la persona umana è “sacra” fin dal concepimento. Dal mero incontro tra uno spermatozoo e un ovocita umano si avrebbe la creazione di una “persona” che in quanto umana è “sacra” e dunque da difendere a qualunque costo. In una prospettiva antiabortista cristiana l’immoralità dell’aborto è dunque assoluta, implicita nella stessa idea che si possa sopprimere una vita umana a qualunque stadio, per qualunque motivo. Seguono le solite accuse di omicidio per le donne che abortiscono e per i medici che praticano interruzioni di gravidanza oltre che di eugenetica nazista in caso di aborto di feti portatori di patologie congenite.

Nel dibatto pubblico i fautori della liceità dell’aborto spesso rispondono a queste accuse con argomentazioni francamente deboli, non decisive e che comunque non affrontano alla questione etica di fondo sollevata dagli abortisti. Argomentare infatti che l’aborto legale è il minore dei mali perché si minimizzano i rischi per la salute delle donne o che queste ultime hanno il diritto di gestire liberamente il loro corpo e dunque anche la gravidanza e la sua interruzione, è pienamente legittimo solo dopo aver argomentato persuasivamente che lo status morale dell’embrione e del feto è fondamentalmente diverso da quello del neonato o dell’adulto. Altrimenti è fin troppo facile controbattere che tanto varrebbe legalizzare l’omicidio o quantomeno l’infanticidio purché venga compiuto nel modo più “pulito” possibile e che l’assassino abbia un concreto interesse all’omicidio. In mancanza di tale argomentazione – e dunque se un feto avesse uno status morale equivalente ad un neonato – sarebbe legittimo domandarsi perché una madre dovrebbe poter abortire per vivere una vita libera dagli oneri della maternità mentre non dovrebbe poter uccidere il proprio figlio nella culla, se questa volontà dovesse maturare dopo il parto.

La questione non si risolve con unilaterali proclamazioni di libertà soggettiva se prima non si risolve il problema dell’eventuale rilevanza morale di un soggetto la cui sfera di interessi verrebbe danneggiata dalla realizzazione di tale libertà, dato che in ogni sistema sociale civile non esistono libertà assolute al di fuori della sfera prettamente individuale, ma solo libertà limitate dal rispetto degli interessi e dei diritti di ogni altro consociato.

Gli animali non-umani

Molto simile è lo svolgimento del dibattito, per altro molto meno sentito dall’opinione pubblica, sui diritti degli animali non-umani e sulle questioni direttamente connesse come la vivisezione, il consumo di carne, la caccia, etc.

Purtroppo anche in questo caso le argomentazioni che vengono generalmente avanzate nel dibattito pubblico tradiscono una generale mancanza di cognizione di causa e mostrano quanto distanti dall’approccio razionale siano i metodi argomentativi comunemente usati anche in tema di bioetica.

Le posizioni “animaliste” tendono ad usare l’emotività condivisa solo da una piccola parte delle persone, quelle in grado di manifestare un’innata empatia non solo intraspecifica, ovvero verso gli altri membri della propria specie, ma anche interspecifica, ovvero verso gli individui di altre specie. Tale approccio è destinato all’insuccesso perché una significativa empatia interspecifica è prerogativa solo di una minoranza di persone. Si badi, non mi riferisco alla diffusa avversione alla inutile sofferenza degli altri, non-umani inclusi, o al forte sentimento di affetto che alcuni provano verso il proprio “animale da compagnia” (sia esso il proprio coniuge o il proprio gatto). Mi riferisco a quella innata predisposizione a percepire sul piano emotivo e razionale le sorti di umani e non-umani in maniera equivalente.

Al contrario le posizioni speciste (1), siano esse di matrice umanista o di matrice religiosa, muovono da posizioni antropocentriche basate principalmente sull’eccezionalismo umano o sulla fallacia naturalistica. Le prime sostengono un primato ontologico dell’essere umano basato su alcune sue caratteristiche dimenticando che queste ultime non sono proprie solo degli esseri umani, che non tutti gli esseri umani le possiedono (cfr. l’argomento dei casi marginali) e che comunque esse non sono rilevanti nell’attribuire il diritto alla considerazione morale. La fallacia naturalistica invece eleva al rango di legge morale la mera constatazione fattuale della supremazia umana sulla natura, confondendo come al solito il piano prescrittivo da quello descrittivo secondo l’adagio “siccome è sempre stato così, allora è giusto così”.

Tutte le posizione speciste sono accomunate dalla sostanziale negazione della rilevanza etica dei non-umani, della possibilità di attribuire loro dei diritti o di porre i loro interessi sullo stesso piano di quelli degli umani.

La questione che tutte le posizioni contrapposte fin qui menzionate eludono è la fondamentale necessità di stabilire criteri razionali per determinare quali siano i soggetti portatori di interessi moralmente rilevanti, e quali siano invece gli oggetti, in quanto tali privi di interessi e dotati solo di rilevanza meramente strumentale per i primi.  Si tratta, in altre parole, di determinare i confini della rilevanza morale e i criteri razionali per tracciarli (2).

Ritengo che secondo una visione razionale, laica e priva di pregiudizi il criterio discriminante che consente di distinguere i soggetti moralmente rilevanti da enti solo strumentalmente rilevanti, ancorché dotati di una vita biologica, non possa che essere la senzienza, o capacità senziente, ovvero la capacità di percepire o provare sensazioni soggettivamente, in maniera cosciente (3).

La rilevanza etica della distinzione tra soggetti senzienti ed enti privi di questa caratteristica è assolutamente cruciale in quanto consente di stabilire, senza ricorrere all’arbitrarietà o all’irrazionalità religiosa, se feti, embrioni, animali non umani e magari le piante debbano essere inclusi o meno all’interno dei confini della rilevanza morale.

Necessità e sufficienza della capacità senziente

Che la capacità senziente sia condizione necessaria alla rilevanza morale diventa chiara se si prova ad immaginare di “mettersi nei panni” di un qualsiasi oggetto non cosciente: quello che si troverebbe è semplicemente il vuoto, l’inesistenza di un qualunque io, assente in ogni essere privo di senzienza e dunque del tutto indifferente al trattamento che gli riserviamo.

Una vita senza una coscienza è incapace di soffrire o provare piacere e quindi di percepire positivamente o negativamente qualunque cosa ad essa accada. Ne consegue che questa vita non può avere degli interessi di alcun genere in quanto qualunque azione compiuta verso di essa, non potendo essere percepita come positiva o negativa, come bene o male, è per essa irrilevante.

In assenza totale di interessi è evidente che non abbia senso attribuire diritti dato che questi ultimi presuppongono come condizione necessaria l’esistenza in capo ad un soggetto di interessi da tutelare tramite lo strumento del diritto stesso. Come dice Paola Cavalieri ne La questione animale  “…se, nel momento in cui prendiamo in considerazione in che modo un dato essere è affetto dalle nostre azioni, ci accorgiamo che tale essere non può curarsi di ciò che facciamo, perché dovremmo porre limiti al nostro comportamento [nei suoi confronti] ?” (4)

Siccome l’etica si fonda proprio sulla fondamentale distinzione tra “bene” e “male”, è ovvio che un ente incapace di qualunque percezione consapevole, neppure la più semplice come quella, appunto, di un generico “bene” o “male”, non può che rimanere fuori dai confini della considerazione morale.

Ma la senzienza è anche condizione sufficiente all’inclusione nella sfera della rilevanza morale. Una volta acquisita la consapevolezza che esiste un bene e un male per ogni Altro-da-me cosciente, e dunque non unicamente per il proprio Io, non solo cessa di essere giustificabile l’egoismo pre-morale, ma diventa evidente l’inaccettabilità di ogni arbitraria limitazione della considerazione morale solo ad alcune categorie di Altri-da-me. Come è evidentemente arbitrario e dunque inaccettabile negare i diritti fondamentali ai neri, alle donne o agli stranieri, allo stesso modo è inaccettabile negarli ai non-umani (o ai feti) senzienti poiché tutti condividono la stessa caratteristica che ha reso necessaria la nascita della morale, ovvero la senzienza stessa.

Diritti ai carciofi ?

Le attuali conoscenze in campo biologico non consentono di ritenere che le piante posseggano una qualche forma di coscienza essendo totalmente prive di qualunque organo che sia paragonabile strutturalmente o funzionalmente ad un sistema nervoso centrale e le tesi di chi riteneva che le piante fossero sensibili al punto di avere gusti musicali sono state scientificamente confutate da tempo. É dunque evidente che nessun appartenente al regno vegetale possa essere incluso nella categoria dei soggetti moralmente rilevanti con buona pace dei “difensori dei diritti dei carciofi” che criticano i vegetariani di incoerenza perché “uccidono insalate”, mentre loro fanno uccidere ogni anno 55 miliardi di animali nei macelli.

Un discorso analogo può essere fatto per lo zigote e l’embrione umano essendo lo sviluppo del sistema nervoso centrale in stadi troppo primitivi per poter generare una coscienza (5). Sebbene lo stadio di sviluppo fetale a partire dal quale il dolore può essere percepito è controverso appare altamente improbabile che questo possa avvenire prima della 29° settimana di gestazione (6). Inoltre la presenza delle componenti emotive e cognitive del dolore che potrebbero essere elementi essenziali per la sua percezione cosciente è difficilmente accertabile in un feto di qualunque età (7).

In una prospettiva senzientista dunque il problema del diritto del nascituro a non essere abortito può risolversi attribuendo tale diritto solo ai feti giunti ad un livello di sviluppo neurologico sufficiente a rendere ragionevolmente probabile il possesso della capacità di nocicezione. Ritengo che raggiunto tale stadio il feto debba essere considerato pienamente titolare di un inalienabile diritto a non essere fatto soffrire se non nel suo interesse (chirurgia prenatale in caso di impossibilità di anestesia fetale) e a non essere abortito a meno che non venga accertata la presenza di patologie che impedirebbero una ragionevole qualità di vita dopo la nascita.

Il dogma della “sacralità” della vita umana in ogni stadio deve dunque essere rifiutato in quanto privo di basi razionali e fondato su principi religiosi che non possono entrare negli ordinamenti degli stati laici. Parallelamente anche il principio della libertà assoluta della donna dovrebbe essere rifiutato in quanto non tiene conto dell’emergere della capacità senziente – e dunque di una soggettività degna di considerazione morale nel feto – a partire da un certo stadio di sviluppo neurologico.

L’approccio senzientista consente anche di definire se gli animali non umani siano o meno moralmente rilevanti e, dunque, se siano giustificabili i trattamenti che l’umanità riserva loro (vivisezione, macellazione, caccia, etc.). Sebbene sia ad oggi impossibile tracciare una linea netta che divida gli animali non umani dotati di capacità senziente e quali no, non vi sono dubbi che almeno alcune specie siano senzienti. Come minimo tutti i mammiferi e senz’altro una buona parte dei vertebrati percepiscono il dolore in maniera cosciente, possedendo le strutture cerebrali necessarie. Sebbene nessuno possa provare in prima persona la sofferenza di un maiale al macello, di una gallina ovaiola chiusa in una minuscola gabbia per tutta la vita, o di una cavia durante un esperimento biomedico, non è ragionevole dubitare che il dolore percepito sia paragonabile a quello percepito dagli umani, dato che esso svolge per tutti gli animali, umani e non, la stessa funzione biologica. Per tutti gli animali senzienti il dolore serve a fornire uno intenso stimolo negativo per indurli ad evitare un dato comportamento nocivo. In questo senso il dolore è per tutti il male per antonomasia.

Non è dunque razionalmente giustificabile la sistematica negazione della rilevanza etica dei non-umani, necessaria a legittimare pratiche come l’allevamento e l’uccisione di animali per l’alimentazione umana, gli esperimenti biomedici su modelli animali a prescindere dalla loro presunta e discussa utilità e i numerosi altri vergognosi trattamenti riservati a chi non appartiene alla nostra specie.

E’ invece doveroso attribuire a gran parte degli animali dei diritti fondamentali inalienabili ed inviolabili, anche in presenza di interessi umani opposti, o, in una prospettiva utilitarista, considerare il peso degli interessi dei non umani equivalente a quello degli stessi interessi umani.

L’approccio utilitarista e quello deontologico all’etica possono convergere nel ritenere il paradigma specista insostenibile, come ben argomentato dai filosofi Peter Singer e Tom Regan. Nonostante questo lo specismo delle principali religioni monoteiste ha trovato il pieno appoggio dell’umanismo ateo che è stato finora incapace di liberarsi di questo pregiudizio anti-razionale.

Sarebbe ora che ogni ateo razionalista prendesse coscienza di questa drammatica contraddizione cominciando dal realizzare che quella carne che troneggia spesso nel mezzo del suo piatto è in realtà un pezzo di un cadavere di un essere senziente e che la scelta vegetariana, assodata scientificamente la sua salubrità (8), non è una stranezza masochistica, ma è diretta conseguenza di una morale intellettualmente onesta, laica e razionale.

 (Articolo originariamente pubblicato su L’ateo, numero 3 / 2010)

 

Note

(1) Secondo Peter Singer lo specismo è il “…pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie contro quelli dei membri di altre specie.”   Liberazione animale, 1991, Mondadori ed. (p. 22).

(2) Abbiamo già argomentato più diffusamente su queste pagine (cfr. Per un’etica atea e antispecista, l’Ateo n.2/ 2009) circa l’esigenza imprescindibile di usare la razionalità come criterio fondante di ogni dibattito etico, pena l’inevitabile incomponibilità delle opinioni divergenti.

(3) Sebbene non necessariamente in maniera autocosciente. La capacità di ragionare sul proprio io inteso come ente separato dalle sensazioni che lo attraversano – ovvero l’autocoscienza – implica capacità cognitive superiori ma non necessarie ai fini della considerazione morale.

(4) P. Cavalieri, La questione animale, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 47-48.

(5) Indubbiamente ogni feto è in potenza un uomo adulto e dunque ha la potenzialità di diventare senziente. Tuttavia i diritti si attribuiscono sulla base delle caratteristiche soggettive in atto, non quelle che un soggetto potrebbe avere se si realizzano determinate condizioni: un ragazzo di 17 anni è in potenza un maggiorenne, ma non per questo ha il diritto di voto prima del compimento del 18° anno.

(6) Fetal Pain, A Systematic Multidisciplinary Review of the Evidence, Lee S.J. et al., JAMA 2005; 294: 947 – 954.

(7) Essential Reproduction, Martin H. Johnson, Wiley-Blackwell, pp. 215-216.

(8) V. p.e. la posizione ufficiale dell’American Dietetic Association, J Am Diet Assoc. 2009;109: 1266-1282: “It is the position of the American Dietetic Association that appropriately planned vegetarian diets, including total vegetarian or vegan diets, are healthful, nutritionally adequate, and may provide health benefits in the prevention and treatment of certain diseases.”

Comments
11 Responses to “Senzienza, antispecismo e aborto”
  1. feminoska ha detto:

    Ciao!
    Ho letto l’articolo, ed essendo molto interessata a questo argomento come femminista antispecista, mi permetto di porre alcune questioni/perplessità. Nel testo leggo infatti:

    “Nel dibatto pubblico i fautori della liceità dell’aborto spesso rispondono a queste accuse con argomentazioni francamente deboli, non decisive e che comunque non affrontano alla questione etica di fondo sollevata dagli abortisti (refuso, ci manca un anti- di fronte). Argomentare infatti che l’aborto legale è il minore dei mali perché si minimizzano i rischi per la salute delle donne o che queste ultime hanno il diritto di gestire liberamente il loro corpo e dunque anche la gravidanza e la sua interruzione, è pienamente legittimo solo dopo aver argomentato persuasivamente che lo status morale dell’embrione e del feto è fondamentalmente diverso da quello del neonato o dell’adulto. Altrimenti è fin troppo facile controbattere che tanto varrebbe legalizzare l’omicidio o quantomeno l’infanticidio purché venga compiuto nel modo più “pulito” possibile e che l’assassino abbia un concreto interesse all’omicidio.”

    Mettersi a discutere dello status morale dell’embrione a mio avviso sarebbe il peggiore degli autogol, ed esattamente il dubbio che vorrebbero instillare nella generalità delle persone gli ultrà cattolici. Non ci si deve dimenticare il fatto che la possibilità di interruzione di gravidanza è già inscritta all’interno di una regolamentazione severa che prevede un termine massimo di tempo per compierla, termini ben antecedenti al sorgere di qualsivoglia capacità di senzienza dell’embrione. Del resto, la legge 194 non è una legge pro aborto (mai stata!), ma una legge che regolamenta nell’interesse della donna ed eventuale futuro nascituro le condizioni per cui l’evento ‘maternità’ accada – o non accada – nei modi più opportuni. L’informazione falsa e fuorviante messa in atto dagli antiabortisti quando mostrano feti di 6 mesi nei picchetti di fronte agli ospedali, e i soliti interessi di chi alla faccia del giuramento di Ippocrate pensa solo alla propria carriera, hanno distorto tutta la prospettiva. Peraltro, guarda caso, la pillola abortiva, che permette di interrompere la gravidanza addirittura prima delle 7 settimane (contro alle 9 canoniche per un ivg chirurgica) è stata osteggiata con violenza inaudita… certo, mostrare cos’è davvero un embrione a 7 settimane, non far espiare alle donna la ‘colpa originaria’ di essere donne (oltre a liberare le donne dalla schiavitù dei ginecologi obbiettori) avrebbe assestato un duro colpo a chi tanto si interessa ai diritti degli embrioni (e di nessun’altro, umani o no, una volta diventati esseri senzienti!)
    Per quanto riguarda il paragone con l’omicidio, beh, esistono già molti casi previsti dalla giurisprudenza in cui un lo stesso venga considerato in qualche modo più ‘accettabile’ e sanzionato in maniere molto differenti a seconda della specificità della situazione – questo lo dico non per legittimare la pratica, ma per dire che anche il reato di omicidio in generale ammette diverse eccezioni e casi particolari.

    L’articolo continua:
    “La questione non si risolve con unilaterali proclamazioni di libertà soggettiva se prima non si risolve il problema dell’eventuale rilevanza morale di un soggetto la cui sfera di interessi verrebbe danneggiata dalla realizzazione di tale libertà, dato che in ogni sistema sociale civile non esistono libertà assolute al di fuori della sfera prettamente individuale, ma solo libertà limitate dal rispetto degli interessi e dei diritti di ogni altro consociato. Parallelamente anche il principio della libertà assoluta della donna dovrebbe essere rifiutato in quanto non tiene conto dell’emergere della capacità senziente – e dunque di una soggettività degna di considerazione morale nel feto – a partire da un certo stadio di sviluppo neurologico.”

    Affermazione a mio avviso un pò troppo lapidaria.
    E’ difficile considerare in maniera neutrale questioni attinenti il proprio corpo e la propria esistenza…soprattutto considerato che viviamo in società a matrice maschilista e patriarcale, ovvero per dirla in soldoni, società a ‘privilegio’ maschile innegabile e considerato che il caso della procreazione, per la sua unicità, è l’unico caso di conflitto ‘dall’interno’ (tra un individuo e un individuo in potenza) che una persona può trovarsi ad affrontare (mi viene il dubbio dei gemelli siamesi, ma anche in quel caso mi rispondo che alla fine nel caso di separazioni viene sempre privilegiata la salvezza di uno dei due, quell* con più ‘possibilità’, e la senzienza viene messa a tacere dai calcoli delle probabilità…e parliamo di bambin*!).
    Agli autori uomini mi verrebbe da dire (non me ne vogliate!): il vs. approccio è molto, molto situato politicamente! A volte mi chiedo, a puro titolo speculativo, cosa accadrebbe a tutto questo rispetto per la vita degli embrioni se a sostenere il peso della gravidanza e partorire fossero gli uomini… E non parliamo poi della biopolitica che si attua sul corpo delle donne e sulle loro capacità riproduttive da secoli, si allargherebbe davvero troppo il campo delle nostre speculazioni!
    La nostra società, ben lungi dall’essere ideale, ci dimostra che gli interessi dei più forti superano e plasmano costantemente le questioni etiche in maniera pervasiva – altrimenti guerre e schiavitù e specismo dovrebbero essere un ricordo del passato.
    Peraltro mi permetto di sottolineare anche un elemento quasi sempre ignorato e invece fondamentale della questione: se ci si accapiglia tanto sulla questione degli embrioni è perché l’oscurantismo e bigottismo della Chiesa in fatto di sessualità consapevole, che va a braccetto con una visione maschile (generalizzo ovviamente, conosco fortunatamente moltissime eccezioni) abbastanza radicata che vede la donna come unica interessata dall’eventualità di una gravidanza, non permettono di passare all’auspicato passo successivo, ovvero la PREVENZIONE della gravidanza indesiderata, che eliminerebbe in un sol colpo qualsiasi controversia o speculazione teorica sull’embrione e la necessità dell’aborto!
    Quello che io auspico come femminista, più di tutto, non è che i/le filosof* scoprano se il feto è senziente, ma che utilizzino al meglio e in maniera consapevole i mezzi anticoncezionali a disposizione, che facciano del loro meglio per liberare la sessualità umana dai retaggi medievali! Da femminista, sono la prima ad augurarmi che le donne non debbano più subire l’aborto, che comunque…non è una passeggiata!
    Ho sparso un po’ di pensieri di getto, spero non troppo inconcludenti… buona continuazione e grazie della condivisione dell’articolo!
    f.

    • Marco Lorenzi ha detto:

      Grazie per i commenti. Lo status morale dell’embrione e del feto sono dei tabu’ culturali dovuti all’influsso catastrofico della religione. Io sono dell’idea che i tabu’ vadano abbattuti tutti e il primo passo per farlo è metterli in discussione usando argomenti razionali. In questo senso l’autogol è non affrontare l’argomento per paura di sollevare un vespaio.
      Che l’aborto vada prevenuto è ovvio, ma talvolta la prevenzione (ovvero la contraccezione) non funziona. In questi casi il punto rilevante non è dove stia l’embrione ma se sia o meno un soggetto (una persona, se vuoi). Se l’embrione è una persona, il fatto che viva nel corpo della madre per 9 mesi non autorizzerebbe quest’ultima a disporne.

      • Matteo ha detto:

        A me pare che il presupposto razionale non tenga, aiuta a essere coerenti, ma non può essere risolutivo. A parte che recenti studi sulla neurobiologia vegetale parlano di coscienza, se ne discute, un essere umano quando dorme non è cosciente, ma questo non autorizza nessuno a ucciderlo. Porre la senzienza come condizione necessaria per avere status morale è arbitrario tanto quanto decidere che i neri non abbiano status morale. Non c’è nessuna possibilità di dire che una vita vale più di un’altra sotto nessun punto di vista.

      • Marco Lorenzi ha detto:

        La razionalità è il minimo presupposto per il dialogo e per fondare idee e ragionamenti su cui dialogare. Se non lo si condivide e dunque non si condivide p.e. il principio di non contraddizione che ne deriva, il dialogo è, piu’ che inutile, impossibile.
        “Neurobiologia vegetale” è come dire “ginecologia minerale” per l’ovvia ragione che le piante non hanno un sistema nervoso (e i sassi non hanno una vagina): i.e. fuffa.
        Quanto all’arbitrarietà della senzienza ti rimando a quanto ho già scritto nell’articolo e all’ampia letteratura filosofica e scientifica in merito.

  2. Matteo ha detto:

    io condivido la razionalità, ma non è con la razionalità che si arriva dove vuoi arrivare, perché porre la senzienza come condizione necessaria e sufficiente è un assunto arbitrario, ragionevole finché ti pare, ma non più ragionevole di altri criteri più estensivi o meno estensivi. è inutile che mi rimandi ad altre discussioni, perché non c’è da discutere su questo. i principi morali non hanno basi assolute. i diritti sono concetti umani che si autogiustificano.

    non sono uno scienziato, quindi sulla neurobiologia vegetale non ho molto da dire, ho letto e ascoltato Stefano Mancuso.

    • Marco Lorenzi ha detto:

      1) la razionalità impone la coerenza e la coerenza nega l’arbitrio del “relativismo etico assoluto”, tesi che appare rivoluzionaria, ma che ha una funzione straordinariamente conservatrice: garantire che tutto rimanga com’è perché tanto ogni opinione, di Gandhi o Hitler, è uguale ed equivalente. Dunque perché scomodarsi a difendere le vittime, specialmente quando si è carnefici e si ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo e i cadaveri nel proprio piatto?
      2) I diritti sono solo uno strumento, talvolta utile, ma da buon utilitarista non è un argomento che mi appassiona e non mi interessa cercare di assolutizzarli.
      3) la senzienza, ribadisco, non è arbitraria come criterio discriminante tra soggetti portatori di interessi e meri oggetti, almeno non piu’ di quanto sia arbitrario distinguere tra televisori e pappagalli usando come criterio discriminante la presenza di un becco. Se non sei convinto leggiti un buon libro sull’argomento. Non è questa la sede per i dibattiti sui massimi sistemi.

      • Matteo ha detto:

        1) ci scomodiamo a difendere coloro che pensiamo siano vittime perché ci stanno a cuore, perché siamo agenti morali. Le opinioni di Gandhi o di Hitler sono uguali proprio seguendo il principio razionalistico, per il quale, secondo coerenza, non si può arrivare a stabilire un principio primo da sé, come fosse una verità rivelata. Ma accettate certe premesse, quelle ad esempio della senzienza come buon criterio, non in senso assoluto, ma relativamente a certe condizioni, tenendo presente fra l’altro che ad oggi abbiamo a disposizione una certa conoscenza scientifica, per niente definitiva.
        2) qua non so che dire, se non è assolutizzare partire da un dovere etico per chi è ateo e razionalista, allora cos’è assolutizzare?
        3) è arbitrario porre la senzienza come discriminante, e non ad esempio il semplice essere vivi. Ogni essere vivente è portatore di interessi e non è un oggetto. Se un essere vivente non prova dolore e può essere ucciso, allora anche un essere umano sedato può essere ucciso ( cito dal testo “Tuttavia i diritti si attribuiscono sulla base delle caratteristiche soggettive in atto ).
        4) se non è questa la sede per discutere dei massimi sistemi qual è? qual è la differenza tra chi considera sacra la vita umana e chi considera sacra la vita senziente? dov’è la razionalità in un criterio per il quale è lo stesso soggetto a decidere cosa significa essere coscienti e che è questo il criterio migliore per stabilire chi può vivere e chi no? Ma non è più corretto ammettere i nostri limiti e dire che possiamo occuparci di alcuni e non di tutti?

      • simulAcro ha detto:

        1) se la razionalità (o forse qui sarebbe meglio parlare di linguaggio e di logica?) viene assunta (da chi “trasmette”) o percepita (da chi “riceve”) come presupposto/presunzione di obbiettività, allora può diventare un limite insormontabile “per il dialogo e per fondare idee e ragionamenti su cui dialogare”…
        e poi: la razionalità che dovrebbe implicare di condividere “il principio di non contraddizione che ne deriva” o la razionalità che “impone la coerenza”, quando assunti (e con quale giustificazione, anche razionale?) come presupposti necessari per qualsiasi discorso e dialogo possono diventare presupposti (dogmi?) buoni anche per scientismi e religioni… si può argomentare e dialogare e ci si può confrontare in modo proficuo anche contraddicendosi, e si può essere perfettamente coerenti sia nelle vesti di un Ghandi che in quelle di un Hitler…
        insomma: la necessità di “razionalità” è un terreno scivoloso su cui aggrapparsi e non può bastare a stare saldamente in piedi…
        2) i diritti: non credo sia rilevante più di tanto la questione se assolutizzarli oppure no, molto più interessante sarebbe semmai ragionare sui diritti in termini di rapporti e dinamiche di potere
        3) assumere la senzienza “come criterio discriminante tra soggetti portatori di interessi e meri oggetti” sembra anche a me arbitrario: da un lato per l’implicità arbitrarietà (e indeterminatezza) rispetto a chi siano i soggetti (e gli oggetti) e quali siano gli interessi di cui si parla, dall’altro lato perché i criteri -magari altrettanto arbitrariamente- potrebbero essere anche altri (come l’essere vivi, o l’interagire con l’ambiente circostante, o l’essere parte di un ciclo vitale o di una catena alimentare ecc.)
        4) già solo la prima parola nel titolo dell’articolo (“senzienza”) mi pare possa riguardare i “massimi sistemi” e, se è così, allora non capisco neanche io perché questa non possa essere una sede in cui discuterne…

      • Marco Lorenzi ha detto:

        Rispondo in sintesi alle ultime obiezioni di Matteo e Simulacro.

        2) in merito ai diritti leggete Singer e comprenderete quello che intendo dire, concordando con la prospettiva utilitarista. Qui non ho il tempo di spiegare quanto altri hanno già detto molto meglio di quanto possa fare io.

        1) Da una prospettiva razionale Gandhi e Hitler non sono affatto equivalenti. Da una prospettiva relativista effettivamente si. Prima facie mi pare un ottimo motivo per avere dei dubbi su una posizione che consideri Treblinka uguale al Satiagraha. Il relativismo etico è intrinsecamente arbitrario proprio perché nega che si possano stabilire scale di valori oggettive, neppure minimali. Torturare o far del bene cessano di essere assiologicamente distinguibili al di fuori dell’individuo e delle sue preferenze arbitrarie. Sostanzialmente rimane solo la legge del piu’ forte, chiunque esso sia. Il razionalismo è in grado di formulare dei minima moralia non arbitrari, coerenti, universalizzabili, facilmente compatibili con le intuizioni morali dei piu’: bene e male individuali sono definiti dall’esperienza empirica e soggettiva dell’individuo che ha come interesse primario di massimizzare il primo e minimizzare il secondo. Dal momento che la prospettiva etica deve essere universalizzabile per definizione l’unica prospettiva non arbitraria è quella che considera tutti gli individui equivalenti e dunque non assume il punto di vista di nessun singolo individuo (cio’ che sarebbe arbitrario: perché quello di Mario Rossi e non di Giuseppe Bianchi) ma l’insieme di tutti gli individui. Quindi è moralmente giusto cio’ che massimizza il bene e minimizza il male per l’insieme di tutti gli individui portatori di un interesse. La senzienza e non la mera vita è il presupposto per la possibilità di percepire un bene o un male (una pianta o un batterio non prova alcun bene o alcun male, qualunque cosa gli e’ indifferente perché manca una soggettività che possa distinguerli) e dunque per avere un interesse. Niente senzienza, niente interessi, niente bene/male. Ecco perché la specie è un criterio totalmente arbitrario, mentre la senzienza no.

  3. Stanislao ha detto:

    Poco chiaro. Si confonde la percezione del dolore con la consapevolezza del dolore. Che alcune specie animali (btw, e i pesci?) siano in grado di percepire il dolore, lo inferiamo da somiglianze anatomiche tra il nostro sistema nervoso ed il loro; ma che sappiano di stare soffrendo, così come un essere umano intende questa esperienza, è dubbio, per il semplice motivo che l’animale non è auto-cosciente. Anzi: a rigor di termini, è proprio il fatto stesso che esistano movimenti come l’animalismo, il quale si propone di prevenire la sofferenza animale, a provare che l’uomo è in grado di esperire il dolore in modo consapevole mentre l’animale no, dal momento che non mi risultano ad esempio mucche particolarmente attive nel cercare di prevenire il dolore di altri che di se stesse e della propria prole. Dunque no, la percezione del dolore non basta a colmare il divario ontologico tra bestia ed essere umano.
    Quanto all’embrione, la banalizzazione della questione operata con il riferimento alla sacralità della vita è francamente sconfortante. Il problema, in teologia, è l’attribuzione di una “anima” anche al prodotto del concepimento, laddove con anima si intende, in soldoni, il concetto di essere umano così come immediatamente evidente al nostro intelletto. Per la chiesa, questa “uomezza” è inestricabilmente associata al suo sostrato materiale. Naturalmente c’è molto da mettere in discussione qui, ma certo non è scegliendosi a bella posta i bersagli più facili su cui sparare, come le prediche della domenica del curato, che si può veramente sperare di avere confutato la posizione del clero.
    Quanto alle conclusioni etiche espresse dal testo, dalla confusione fra percezione e consapevolezza di cui sopra nascono immediatamente alcune aporie. Tanto per cominciare, e dal momento che esistono ormai anestetici di ogni specie e genere, c’è oggi modo di evitare le sofferenze di chiunque. Se ci limitiamo alla percezione del dolore, quindi, mi basta anestetizzare il maiale prima di scannarlo e sono eticamente salvo. Il problema sorge invece quando ci spostiamo a livello di consapevolezza, perché è evidente che non posso anestetizzare un essere umano senza chiederglielo e poi disporne liberamente senza avere la sua previa autorizzazione. Posso invece farlo tranquillamente con l’animale, convenendo di domandare al bovino se vuole essere anestetizzato e mangiato e decidere che ‘muuu’ vale come risposta affermativa. Già da qui si capisce benissimo che non si possono mescolare arbitrariamente percezione e autocoscienza. Adesso peggiora: poiché accettiamo che una persona che decide di porre liberamente termine alla sua esistenza possa farlo, o perlomeno molti si battono per questo fine, è chiaro che di fatto noi poniamo la possibilità ultima di essere soggetto di diritto nella capacità di autodeterminarsi. Non accetteremmo però mai questa conclusione nel caso di neonati o persone con gravi handicap mentali. Appurato quindi che partendo dalla percezione non si va da nessuna parte, e che bisogna arrivare almeno all’autocoscienza per non incorrere in contraddizioni, ci troviamo che proprio a partire da quest’ultima la società che verrebbe a costituirsi sarebbe scellerata o quantomeno incoerente, essendo impossibilitata ad attribuire diritti all’infante e al cerebroleso ma di fatto tutelandoli come e più degli esseri umani “veri”.
    Come si vede, quindi, si tratta di problemi spinosi che non hanno facile risoluzione. Il modo migliore di affrontarli, perciò, non è solo l’uso della razionalità a conforto delle proprie opinioni, ma anche una dose discreta di elasticità mentale che permetta di evitare di schierarsi su posizioni stupidamente oltranziste, come quella di chi chiama mostro assassino la donna abortista o pezzo di cadavere il cibo del carnivoro.

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