Il peggior discorso che potrai mai sentire
di Serena Contardi
Pubblico il paper del mio intervento di mercoledì 9 maggio a Riva del Garda in occasione della serie di incontri “Il nostro rapporto con gli animali non umani. Una questione marginale?”:
Paradossalmente, ad avere una definizione chiara e netta di antispecismo sono proprio coloro che l’antispecismo lo contestano fortemente. Se dovessi ora, così, su due piedi, racchiudere l’antispecismo in una formuletta, avrei più di qualche difficoltà. Fate un esperimento: provate a chiedere ad un attivista cosa intenda per antispecismo. Riceverete svariate risposte, più o meno accurate, più o meno convincenti, più o meno distanti tra loro. Una volta mi venne fatto notare da un convinto anti-animalista che nessuno tra i suoi interlocutori gli avesse fornito un’interpretazione univoca dell’antispecismo. Me lo disse come rimprovero: il fatto che gli fossero giunti pareri contrastanti gli sembrava una prova dell’inconsistenza dell’antispecismo stesso. Ora, può darsi che l’antispecismo sia davvero la cosa più sciocca e inconsistente che testa d’uomo abbia mai partorito, ma non certo perché esistono diverse versioni della faccenda. Poiché diffido di tutto ciò che è facile, lineare, stabilito una volta per tutte e immune a incertezze e ripensamenti, a me questa pluralità di vedute è sempre parsa una nota positiva. E in effetti c’è chi ha suggerito che, piuttosto che di “antispecismo”, sarebbe opportuno parlare di “antispecismi”, per rendere conto dell’eterogeneità delle teorie che vanno a comporre il variegato universo antispecista, come l’utilitarsimo di Peter Singer, il giusnaturalismo di matrice kantiana di Tom Regan, la prospettiva giuridica di Gary Francione, l’eco-femminismo di Carol Adams e alcune correnti continentali che teorizzano la liberazione del vivente a partire dalle intuizioni della scuola di Francoforte.
Ma è anche vero che stasera sono qui a parlare di antispecismo, dunque da qualche parte bisognerà pur cominciare. Cominciamo dai detrattori, allora, che è sempre più divertente. Recentemente un filosofo spagnolo, Fernando Savater, appassionato di corse di cavalli, ha dato alle stampe un libriccino, piccolo in tutti i sensi, che si propone di stabilire se la corrida sia o meno una tradizione accettabile. Per fare questo, Savater dichiara d’aver deposto ideali e giudizi d’ordine estetico e di essersi inoltrato nel campo della filosofia morale (la questione, ci dice, non è se quel che succede nell’arena sia brutto o bello, ma se sia giusto o ingiusto in senso morale). Poiché Peter Singer, in quel grande classico che è Animal Liberation, aveva concluso che gran parte delle nostre azioni nei confronti degli animali sono eticamente scorrette, Savater avrebbe dovuto perlomeno procedere alla sua confutazione. Cosa che non ha fatto, limitandosi ad affermare che l’antispecismo di Singer sia diretta conseguenza del rapporto patologico, disneyano, che l’uomo moderno intrattiene col mondo animale e che la tesi di Animal Liberation si risolva nell’idea che tra le specie animali non vi siano distinzioni di sorta. Tutto ciò è palesemente falso, oltre che offensivo nei confronti della nostra intelligenza. All’epoca della stesura di Animal Liberation Singer non possedeva animali: ciò che gli importava, e ciò che continua, credo, ad importargli, non è la creazione di scenari edenici in cui il leone dorma accanto alla gazzella, ma la possibilità di un mondo meno violento, dove gli animali non umani vengano riconosciuti per gli esseri sensibili che sono. Non che fosse strettamente necessario rispondere a Savater su questo punto: attaccare l’uomo Singer, o più in generale la persona dell’antispecista – e ciò avviene spessissimo, ci si potrebbe pubblicare un libro – è una strategia retorica di nessun valore euristico (argomentum ad hominem) e, se anche fossimo davvero tutti dei bambinoni un po’ scemi assuefatti alle tinte pastello dei cartoni animati, un filosofo dovrebbe valutare i nostri argomenti, non pretendere di sdraiarci sul lettino dello psicanalista blaterando che si stava meglio quando si stava peggio e ci siamo tutti rammolliti.
Riguardo alla seconda questione: è vero che secondo l’antispecismo di Singer tra gli animali non esistono distinzioni di sorta? Absolutely not. Non so se Savater si sia limitato a leggere i titoli dei capitoli – effettivamente il I capitolo di Animal Liberation si intitola «Tutti gli animali sono eguali» – ma ridurre le conclusioni, per quanto contestabili, di Singer a una tale banalizzazione di contenuti è operazione disonesta e/o superficiale. Il sottotitolo del capitolo sopracitato recita infatti «Perché il principio etico su cui si fonda l’uguaglianza umana ci imponga di estendere l’eguale considerazione – eguale considerazione, sottolineo – agli animali». Non si sta descrivendo un’eguaglianza reale, biologica, ontologica, chiamatela come volete, si sta fornendo una prescrizione che verrà motivata nel testo a seguire sul modo in cui gli animali andrebbero trattati. È noto, e se non è noto lo ripetiamo ora qui, che Singer, riallacciandosi a Jeremy Bentham, individui il fondamento dell’etica nella facoltà di provare piacere/dolore. La sua mossa teorica è quella di estendere la sfera della considerazione morale agli altri animali sulla base di questo assunto (il famigerato argomento dei casi marginali): l’unico criterio di rilevanza etica che sia in grado di tutelare anche quegli umani che presentano uno sviluppo cognitivo inferiore a quello di alcuni animali e che non sono in grado di comprendere ed eseguire una norma morale (neonati, anziani senili, ritardati gravi) consiste nella capacità di soffrire, capacità che troviamo anche altrove nel mondo animale e che dovrebbe spingere il nostro sguardo al di là degli angusti confini di specie. Questo a meno di non voler compiere un gesto del tutto arbitrario e pregiudizievole, cioè accordare considerazione morale ai soli conspecifici, per il solo fatto di essere conspecifici: ciò che Singer chiama specismo. Per inciso, Savater, su questo punto, tace. E noi lo lasceremo nel suo colpevole silenzio per domandarci per quale ragione, dato che l’argomento di Singer sembra funzionare tanto bene, siano stati proprio altri antispecisti a prendere le distanze dalla sua posizione.
L’antispecismo di Singer (ma anche quello di Regan, che questa sera non approfondiremo, il quale considera ogni “soggetto di vita” depositario di alcuni diritti irriducibili) non è altro che un insieme di proposizioni morali. Esso nasce in ambito accademico, più precisamente in seno alla filosofia analitica: come teoria etica, ha forse il merito della limpidezza argomentativa, ma rimane del tutto incapace di cogliere l’origine storica e materiale della norma e più in generale del pensiero, di tutto il pensiero, ivi compreso quello astratto.
Non è un caso che quando gli attivisti cercano di applicare la teoria singeriana alla prassi di contestazione cadano in una serie di cortocircuiti logici: in Singer ad essere “specista” è la giustificazione di un’azione, non l’azione stessa. “Specista” è Savater che difende la pratica della tauromachia con argomenti viziati, non il torero José Tomas che uccide l’animale nell’arena davanti agli occhi ammirati degli spettatori. È chiaro quello che voglio dire? Se, con Singer, debbo limitarmi a considerare lo specismo un “pregiudizio morale”, non riesco a spiegare come questo “pregiudizio” nasca, come si sviluppi, chi lo abbia inventato. Toh, ci siamo sbagliati, diciamolo a più gente possibile e mettiamoci una pezza. Non funziona così. Non sono stati tanti individui specisti a dar vita alla società specista, come si pensa comunemente, è piuttosto nella società specista che gli individui, radicandosi, hanno imparato a svalutare gli animali non umani fino al punto di considerare giusto e tollerabile che essi patiscano le pene dell’inferno senza che ve ne sia la reale necessità.
L’impasse cui conduce la nozione singeriana di specismo, secondo cui lo specismo è un’ideologia e tale ideologia determina il comportamento degli individui, è stata messa in luce con particolare forza da Marco Maurizi – lo cito non perché mi sta simpatico ma perché, essendo perversamente marxista, è riuscito a ribaltare il rapporto che in Animal Liberation viene implicitamente istituito tra idee e realtà, mostrando che «non è affatto vero che noi sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo». L’intuizione di Maurizi, e qui finalmente cominciamo a parlare di antispecismo politico, sta nel considerare lo specismo come una prassi di sfruttamento storicamente determinata e stratificata che solo in un secondo momento viene giustificata ideologicamente. L’uomo ha infatti la strana tendenza a razionalizzare tutto ciò che fa, è animale razionalizzante prima che razionale; è, nelle parole di Daniel Dennett, un romanziere. Racconta, si racconta, ciò che c’è già. E lo giustifica. Chi rimane nel campo dell’etica formale, rinunciando a impastare le mani nella storia per cercare di capire come si sia via via costituito il rapporto che oggi erroneamente percepiamo come scontato e “naturale” tra l’umano e l’altro da sé, finisce per avvistare la punta dell’iceberg, denunciarla e cercare forsennatamente di smussarla, mentre il vero corpo del masso se ne sta sotto il filo dell’acqua, nascosto e micidiale.
Può darsi che a qualcuno di voi questa tesi sembri un poco contorta. Gli umani hanno sempre sottomesso gli animali, direte, è nella loro “natura”! Manco per niente. La caccia, che pure l’uomo primitivo praticava, è descrivibile nei termini di una violenza episodica, è una più raffinata declinazione della predazione che non ha nulla a che vedere con lo sfruttamento sistematico e totalitario del mondo naturale che è stato reso possibile soltanto dalla società di classe. I cacciatori paleolitici piangevano gli stessi animali che cacciavano in cerimonie e rituali, li consideravano divinità o pari, non certo oggetti di cui disporre a piacimento. Maurizi, che utilizza abbondanti scoperte storiche e antropologiche, afferma dunque che lo sfruttamento animale ed umano abbia avuto origine da trasformazioni gradualmente successive rispetto alle fasi preistoriche in cui prevaleva l’economia della caccia e della raccolta. Quando, nelle prime società stanziali, l’umanità passò allo stadio dell’allevamento del bestiame e dell’agricoltura organizzata, il capofamiglia divenne padrone del territorio, delle greggi, degli schiavi e della donna. Il dominio sull’animale fu il presupposto storico del dominio sull’uomo, e si fece man mano più intensivo: la domesticazione degli animali e l’invenzione dell’agricoltura resero infatti possibile l’accumulo di risorse necessario a mantenere in vita un nucleo sociale complesso in cui alcuni individui vivessero del lavoro di altri. Lo sfruttamento animale andò a vantaggio di pochi, i quali concepirono l’idea di una radicale differenza tra uomo e animale che ratificasse simbolicamente lo status quo (si pensi alla più potente creazione delle gerarchie sacerdotali, la religione, che a ragione un grande storico come Polibio definiva instrumentum regni). È importante sottolineare che, in questa separazione incolmabile, “uomo” era da intendersi nel senso di maschio e proprietario: schiavi e donne continuarono per lungo tempo ad essere assimilati alla condizione bestiale. La retorica dell’umano può essere facilmente smascherata pensando a tutte quelle minoranze che, pur appartenendo alla specie Homo, furono escluse dal cerchio rispettabile degli aventi diritto, proprio perché confinate, assieme agli animali, ai piedi della piramide sociale. Non vi è nulla di contorto o fumoso nell’affermare che oppressione umana ed animale siano profondamente intrecciate: la schiavitù umana fu legittimata, proprio perché necessaria alla riproduzione di un determinato sistema socio-economico, perfino da un filosofo come Aristotele, che nella Politica arrivò a descrivere lo schiavo come uno “strumento animato”, progettato dalla natura stessa per servire. Si potrebbe poi parlare, ma credo lo abbia già fatto e meglio di quanto potrei farlo io Annalisa Zabonati, della condizione delle donne, ridotte nei secoli a mera natura, a pura funzione biologica: lo stesso Singer narra di come, quando nel 1792 Mary Wollestonecraft cominciò a parlare dei diritti delle donne, i conservatori risposero proponendo di estendere diritti anche ai “bruti”, testimoniando, con le loro risa sguaiate, di quanto pesanti siano state a livello simbolico le ripercussioni dell’asservimento materiale. Ma non è affatto necessario appellarsi a vecchi manuali di storia per rendersi conto del fatto che non tutte le vite umane sono degne di eguale considerazione. Frantz Fanon era solito ripetere che, quando l’occidentale dice “uomo”, sempre intende “maschio, eterosessuale, bianco”. La violenza contro quelle che non sono state riconosciute come vite pienamente umane avviene già a livello discorsivo (si pensi all’abrutimento di ebrei, negri, cinesi, definiti “scimmie”, “porci”, “scarafaggi”) e infine sfocia in vera e propria violenza fisica, la stessa che da sempre esercitiamo e ci sentiamo autorizzati ad esercitare sui corpi degli animali.
Ma cos’hanno poi di diverso quei corpi? Nulla, suggerisce Ralph Acampora, ché con noi condividono una vulnerabilità primaria, e «l’esperienza di essere corpi viventi, interamente coinvolti in una pletora di interrelazioni ecologiche e sociali con altri corpi viventi e persone». Non è dunque possibile spiegare il solco che l’umano ha scavato – e poi naturalizzato – tra sé e le altre specie ricorrendo alle semplificazioni biologizzanti che oggi vanno tanto per la maggiore: la società è per l’uomo una “seconda natura”, certo non più razionale della prima, e quella è necessario interrogare per comprendere cosa siamo diventati.
Nel Disagio della civiltà, Freud sostiene che ogni fase evolutiva superata è oggetto di una rimozione organica e diviene motivo di rabbia e vergogna. All’inizio del fatale incivilimento, è l’animalità stessa dell’uomo a venire negata: l’uomo addomestica, con gli altri animali, anche se stesso. Questo processo, direbbe Adorno, si ripete in ogni infanzia. Il disgusto per gli odori forti, per gli escrementi, per ciò che è pericolosamente vicino alla natura è estraneo al bambino piccolo: egli ride del cagnolino che si rotola nella sporcizia ed è solitamente la madre sollecita, inorridita, a impedire che il pupo faccia altrettanto. Marco Maurizi – poi non lo cito più – ha parlato a questo proposito di teriofobia come «caratteristica strutturale della civiltà». Che coinvolge tutti, dominanti e dominati: tutti siamo imprigionati nel grattacielo[1], perfino chi si trova assicurata la sua bella vista sul cielo stellato. Ecco perché l’uomo, soggetto della liberazione, ne sarebbe anche l’oggetto. Dove per liberazione non si intende il regresso a un paradiso perduto che non è mai esistito, come vorrebbero i primitivisti, ma lo sforzo di rendere la società, che si pretende separata dal resto del vivente e incessantemente lo dilania, dilaniando anche se stessa, più giusta e razionale.
[1] La serata di mercoledì è iniziata con la lettura di questo brano di Max Horkheimer:
Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati.
Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo.
Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione.
Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.
(M. Horkheimer, Il grattacielo, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi, Torino 1977, pp. 68-70).
“Non sono stati tanti individui specisti a dar vita alla società specista, come si pensa comunemente, è piuttosto nella società specista che gli individui, radicandosi, hanno imparato a svalutare gli animali non umani fino al punto di considerare giusto e tollerabile che essi patiscano le pene dell’inferno senza che ve ne sia la reale necessità.”
Il bambino nasce antispecista e ateo.
Basta osservare quanto amore ha qualsiasi bambino per gli animali e quanto quell’amore venga immediatamente represso dalla famiglia, dalla scuola e dai media.
in che famiglia sei cresciuto?
io da piccolo giocavo sia con i cani, con i gatti, che con i cuccioli di maiale o di capra o i conigli
e nessuno l’ha mai represso.
mi dispiace che tu abbia avuto una famiglia così di merda, ma non generalizzare.
Oh, un altro gentleman. Ma non ha neanche avuto il tempo di leggere che sono donna? Non che del resto abbia compreso molto, in effetti. Ho avuto un’infanzia invidiabile: pensi che, oltre a lasciarmi giocare con cani, gatti e maiali, mi hanno insegnato pure l’educazione.
“egli ride del cagnolino che si rotola nella sporcizia ed è solitamente la madre sollecita, inorridita, a impedire che il pupo faccia altrettanto.”
Pensa che il mio pediatra diceva a mia madre che per guarire dalle malattie, dovevo andare nei campi e mangiare la terra.Così avrei rinforzato il mio sistema immunitario.
Così ho fatto e sono ancora vivo e vegeto.
Certo il cane si rotola, come il maiale, non perché è sporco, ma perché in quel modo si libera dai parassiti.
Non è certo salutare rotolarsi dove il cane si libera dalle zecche…
Per questo dal 1960 ad oggi siamo passati da 52 bambini morti ogni mille agli attuali 3.7.
Non vedo nessuna teriofobia strutturale, solo un po’ di sano buonsenso, semmai è vero che le mamme moderne (quelle che hanno più o meno la mia età) siano ossessionate dall’igiene, per nessun motivo reale.
Se ti dicessi che fare la doccia tutti i giorni fa male, mi risponderesti probabilmente che sono un incivile che puzza 🙂
Era un’immagine come un’altra, ispiratami dalla moglie di un amico, per rendere il discorso meno astratto ed evitare che i presenti mi cascassero dal sonno. Non pensavo potesse ridestare la memoria di madri e pediatri, in futuro vedrò d’evitarla. Spero almeno che sugli escrementi tu sia d’accordo con me: bimbino non esibivi, tutto fiero, il vasino della cacca ai tuoi genitori, non eri curioso di sapere come la facessero loro, quanto assomigliasse alla tua? Suppongo (o almeno mi auguro) tu abbia smesso, insomma a me pare proprio innegabile che l’educazione sia un processo di disciplinamento. Fra l’altro a mio modestissimo parere il concetto di teriofobia è già implicito sia nel disagio della civiltà che nella dialettica dell’illuminismo, che ho citati, ma Maurizi ha il merito d’averlo svolto in maniera chiara ed esaustiva: ho inserito il link all’articolo, leggi quello, non fissarti sulla moglie del mio amico.
Sicuramente alcune delle norme igieniche che ci vengono tanto raccomandate dai nostri genitori o dai nostri coetanei sono frutto di una saggezza popolare, che evolutasi negli anni ci aiuta a non contrarre fastidiose o letali malattie; però l’esasperazione di questa disciplina igienica, molte volte contro produttiva (come nel caso della deficienza di anticorpi) può avvalorare la teoria Freudiana ed un certo ripudio patologico verso la nostra “animalità”, per lo meno per quanto riguarda la forma, perché tuttavia non abbiamo mai dimenticato come sbranare le nostre prede (e non parlo dei pranzi domenicali, ma della nostra società).