Una glossa a margine. Siate stupidi: stupitevi davvero
di Antonio Volpe
Attorno al bell’articolo di Serena Contardi Siate affamati, siate stupidi, si è chiacchierato, riso e scherzato sull’inavvertita ”replica” di uno slogan utilizzato da una purtroppo celebre campagna pubblicitaria della Diesel (Don’t Be Smart, Be Stupid). Mentre la prima parte del titolo scelto da Serena era un voluto richiamo, ironico e sovversivo, al motto liberal-popolista di Steve Jobs (di cui ci rimbombano ancora le orecchie, per dirla educatamente), la seconda richiamava lo slogan della Diesel inconsapevolmente. Si è riso e scherzato, appunto, e si anche un po’ inorriditi andando a rivedere immagini e slogan accessori di quella campagna, che ci ha bombardati a tappeto per mesi.
Con l’avvertenza ai deboli di cuore di non arrischiarvisi, ecco una collezione di cimeli di quella guerra (a – mica tanto – bassa intensità):
http://theinspirationroom.com/daily/2010/diesel-be-stupid/
Mi permetto – di conseguenze a quelle chiacchiere (sia chiaro: considero le chiacchiere una cosa ottima, un fenomeno autentico dell’esistenza umana) – di cogliere qui l’occasione per aggiungere una glossa a margine all’articolo di Serena.
Lo slogan e la campagna della Diesel non erano solo brutti, brutti ma in fondo innocui (in generale, poi: che ci sarà d’innocuo in uno stimolo – imperativo – al consumo?): al limite stereotipizzanti, scorretti, forse discriminatori, ma in fondo, rispetto al peggio, roba tollerabile. Non era quello slogan, comunque, un semplice va dove ti porta il cuore – che già innocuo come messaggio non è, se si guarda alla sistematica sostituzione del sentimento col sentimentalismo nel mondo che ci capita di abitare: l’imporsi dei “valori” come equivalente universale dello scambio emotivo ed etico.
Lo slogan – e la campagna – della Diesel vende, ma non vende una merce qualunque. Vende insieme alla merce fisica, un brand: cioè uno “stile di vita”, in un mondo in cui lo “stile di vita” – Serena sembra accennare a un simile giudizio, io premo sull’acceleratore – ha sostituito l’esistenza come essere al mondo, essere con gli altri, essere interroganti, ecc… insomma l’esistenza come essere esposti, essere estroflessi da sé. A quello che Husserl e i fenomenologi chiamavano mondo-della-vita, sostituisce un lifestyle per soggetti individualizzati, introflessi e insieme svuotati, pronti a sostituire la propria esistenza, il mondo su cui essa è aperta, con merce che non è fatta più solo di oggetti materiali: ma di simboli (ridotti a segni che vigono senza significare), contenuti cognitivi, “valori” (appunto), modelli di socialità e interazione relazionale, tutti intercambiabili fra di loro, equivalenti, indifferenti.
Lo slogan, ormai (e non c’è bisogno di aver letto Naomi Klein, per rendersene conto) vende simulacri di esistenza, di vita.
È molto di più, tutto questo, dell’imporsi dell’imperante astrazione della ratio borghese e della sua meccanizzazione della vita. Molto più del feticismo delle merci. Ed è perfino di più della radicalizzazione incondizionata e volgare di ciò che Fink chiamava «oblio del mondo».
Qui siamo ormai davanti al un rovesciamento dell’esistenza a mò di calzino, al suo annientamento in quanto esistenza (una forma di annientamento che forse neanche Derrida era riuscito a immaginare: ci sono destini peggiori della morte e non sono solo il dolore, il lutto, la menomazione fisica). È la riscrittura da cima a fondo da parte del potere dell’esistenza stessa: altro che controllo e disciplinamento! Qui il biopotere si è fatto sovranità ontologica capillare.
Al contrario di chi crede che noi, ad oggi, si sia davanti al rischio – o alla chance – del crollo del capitalismo, e che ci si debba tutti preparare – volenti o nolenti – a un’aurea era neoprimitivista, va detto e ribadito che la crisi in cui siamo immersi è strutturale: ma non nel senso in cui s’intende una crisi più grave e profonda di quelle cicliche o congiunturali. Piuttosto nel senso per cui la crisi è cosostanziale al capitalismo stesso, e non perché esso sia strutturalmente contraddittorio e destinato al fallimento: la crisi, piuttosto, è una fase di ridefinizione dei rapporti di potere e delle gerarchie, in cui le contraddizioni del capitalismo non si scatenano affatto a minare il capitalismo stesso, ma i suoi rapporti interni, ovviamente a favore del capitale. Il termine gerarchia va inteso qui in senso forte: nel senso etimologico di ordine sacro che promana da un sacro principio che è principio di comando e sovranità. Il capitalismo non è infatti semplicemente ateo: esso ha piuttosto scalzato Dio come equivalente universale del traffico delle anime e degli enti in generale. Ha scalzato Dio dalla sua posizione di creatore di esseri a sua immagine e somiglianza. E se ora il capitalismo è Dio (lo avvertono in tanti, anche se in modo insufficiente, quando parlano del “Dio mercato” e anche del “Dio denaro”) noi rinasciamo a immagine e somiglianza del capitalismo. E benché questa faccenda duri da molto, la capillarizzazione neoliberista, l’incorporazione del “soggetto pensante” nella produzione (verso quello che è stato chiamato capitalismo cognitivo), la riscrittura del pensiero stesso in termini di calcolo economico (si badi bene: non semplicemente di calcolo, ma di calcolo dell’economia delle decisioni e dei giudizi: e questa non è una deduzione, ma teorie che riempiono i testi neoliberali) produce un salto di natura e non solo di grado. Qualitativa, non quantitativa.
Tutti, che lo si sappia, lo si ammetta, o no, siamo innervati da questo nuovo Dio (quello che avrebbe dovuto salvarci?) fin nel nostro corpo: nervi in senso proprio, per quanto riguarda il nostro corpo vivente e significante.
E i “nuovi nervi” del capitalismo (per parafrasare la nuova carne di Cronenberg, di cui però non si intravede più traccia) sono quelli di organismi furiosamente in lotta fra di loro per l’accaparramento di risorse scarse (merci, lavoro, carriera, emozioni: tutto è merce in questa dimensione). Ecco che le immagini delle Diesel non appaiono più né simpatiche né creative né bizzare, e neppure semplicemente brutte e veicolanti “messaggi scorretti”.[1]
Il titolo di Serena sovverte, in un certo senso inconsapevolmente (dato che inconsapevole è il rimando, ma il suo discorso è abbastanza forte da riafferrare la “svista” per la coda) questa logica dall’interno, rovesciando il senso dello slogan brandizzante. Il suo articolo, detto senza blandizie, è un abbozzo di sovversione ontologica e politica.
Stupidi come stupiti: e non di nuove merci, ma del fatto che non siamo solo merce (produttori-consumatori calcolanti di oggetti, lifestyles, esperienze). Uno stupore che con timore e tremore e attraverso vie tortuose – non inganniamoci: quello in cui viviamo è un inferno – può portarci sul margine del mondo ridotto a mercato, forse a rivedere il mondo. Bisogna fare esperienza di una grande povertà, però: e non certo di quella materiale (comunque, non basterebbe). Ma della povertà del «tempo di povertà» di cui parlava Hölderlin, in cui si è ridotti a «segni non significanti»”. In cui solo i poeti (fanciulli stupiti: in-fanti) possono “«più in fretta scendere all’abisso», per capovolgerlo da cima a fondo. Perché sia cacciato questo sedicente “ultimo Dio”.
Con meno poesia: se il capitalismo ci innerva, dobbiamo fabbricarci davvero e finalmente corpi senza organi: cominciando con lo strapparci via questi nervi del potere.
Davvero dall’abisso partimmo
e andammo come il leone
dubitante e cruccioso
perché gli uomini sono più carnali
dell’incendio del deserto
ebbri di luce, e lo spirito della belva
dorme con loro.
(Friedrich Hölderlin)
[1] Sarebbe comunque interessante e importante che qualcuno si dedicasse all’onere di smontare quelle immagini e slogan uno per uno
Ottima analisi e riflessione, ti ho già lasciato il mio apprezzamento anche sotto all’articolo di Serena.
E, te lo ri-domando qui: visto che citi Cronenberg, hai visto Cosmopolis (tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, consigliato anch’esso)? La perfetta traduzione in immagini di quello che scrivi.
Ti ho risposto sotto al post di Serena 🙂
ciao vorrei smontare la diesel:
i suoi stupidi sono hd e sembrano i modelli di fornarina
le azioni dei suoi stupidi sono giustificate da gigantesche scritte monocolore in stampatella che vanno di moda duro*
i suoi stupidi giocano con le allusioni sessuali fingendosi infantili e molto simpa
i suoi stupidi sfoggiano una bellezza preconfez. e plasticosa
i suoi stupidi sono photoshoppati
i suoi stupidi non hanno massa grassa
i suoi stupidi ci hanno i sun glassès
i suoi stupidi non producono sudore
i suoi stupidi ci hanno le palle solo mentre qualcuno li sta guardando
di tutto ciò me ne strafrego, la disonestò che più mi infastidisce è che c’è una finta mortificaz. del corpo, un “rinnego la mia figacciosita perc acto da scemo”. in realtà l’estetica [mediocre] viene celebrata e in maniera anche imbarazzante. un saluti
*[la fotografia della vera&bella stupidità non necessita di alcuna didascalia rassicurante e giustificativa e autoreferenziale]