Per un’etica iperbolica e una politica dell’esodo

di Antonio Volpe

Questo stralcio conclude la pubblicazione su Asinus Novus di un lungo articolo inedito le cui prime tre parti potete trovare qui, seguendo l’ordine del testo: Davanti a Caino: gli animalisti e la forcaIl sacrificio inarrestabile. Comunità, sacro, sacrificio, sacertàInterludio: preludio giocoso-evenemenziale. L’abissale gioco dei coesistenti.

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Una modesta proposta: un gioco iperbolico

Se nel – paradigma del – campo divenuto mondo dobbiamo quindi aprire lo spazio per – un’eterotopia de – il giardino, forse dovemmo anche immaginare tale giardino come un kindergarten, un giardino d’infanzia – certo liberato da ogni pedagogia autoritaria, e forse da ogni pedagogia –, forse persino come un parco giochi[1] che stia in relazione con la città da una parte e con la campagna e la selva dall’altra, con la «sorgente» montana a cui nessuno deve più temere di andare e con il «mare» dove continui a «cominciare la ricchezza»[2], in cui l’area industriale e la stessa città innervata dalla rete infinita dei servizi, siano ri-localizzate non topograficamente ma topologicamente, e in cui la catena di produzione immateriale sia sospesa. Un lucus che sia locus ludii, lucus ludendi[3], certo misterioso – anche nel suo rapporto con l’ingens sylva e coi sentieri che l’attraversano, percorribili in reciproci inversi – ma non – più – sacro. E in cui l’incontro coi non umani, sia, in vari modi, ineludibile, quotidiano e insieme, ogni volta, irripetibile.

Se in gioco, in questo dis/velamento[4], accadimento – forse risveglio, ma in cui ci si risveglia al, o in un, sogno[5] – (in questo gioco, diremmo perfino), è il dis/velarsi, l’accadere, il giocare, dell’essere come gioco – dell’essere che gioca – così come già in qualche modo accade e gioca, ma nascostamente, allora il passaggio all’accadimento dis/velante, al risveglio, al gioco del dis/velamento – all’evento del gioco e al gioco come evento – non potrà darsi che nel gioco stesso, in cui noi mortali andiamo in gioco nella nostra essenza. E dal momento che, in questo gioco andiamo in gioco come giocatori, allora il nostro giocare avrà una portata ontologica. Ma l’ontologia e il destino dell’essere lo facciamo, per così dire, tutti i giorni, in tutto quel che facciamo.

Un dei motivi per cui la questione del gioco ha aperto tante contese e controversie in un secolo, lo scorso, che s’è improvvisamente svegliato ad esso dopo un sonno di secoli quasi mai interrotto, è il mancato coglimento dell’essenza ontologica del gioco, e del gioco come questione essenzialmente e innanzitutto ontologica. Il che non significa semplicemente che le indagini sul gioco mancassero di coglierne il fondamento: piuttosto e al contrario, esse continuavano a muoversi in un ambito fondazionista, senza coglierne l’abissalità de-fondante. E’ vero che ci s’era risvegliati dal sonno – o dall’insonnia – di una storia che imponeva agli umani di lavorare senza sosta, e di lavorare sul lavoro anche nello striminzito spazio del pensiero: ma probabilmente tale risveglio continuava in parte a darsi come lavoro, in parte come risveglio a una mera realtà – e tutte queste sono enunciazioni della storia come storia della metafisica. Da qui tutti i dibattiti sulla sovrapponibilità o meno dello spazio del gioco a quello del sacro, sulla natura – mimetica, derealizzante o extra-realizzante – di tale spazio, sulla sua estensione – il tutto o un ritaglio separato in esso – sul ruolo della regola, ecc… Ma, benché Heidegger e Fink ci abbiano disvelato, del gioco, i tratti essenziali – ontologici, o meglio post-ontologici, deontologizzanti o propri di un’ontologia non fondazionista – tutto quello che antropologi, linguisti, etologi, psicologi, e filosofi poco interessati all’ontologia hanno “prodotto” intorno alla questione, è una ricchezza ancora tutta da esplorare. Essi ci manifestano l’apparizione prismatica e cangiante e la ricombinazione caleidoscopica di quel gioco abissale che pare ritenere in sé la propria essenza proprio laddove la dona e dissemina.

Ad esempio, l’irrealizzazione come tratto essenziale del gioco giocato, di cui ci parla Benveniste, un’irrealizzazione che apre verso un extra-reale che si schiude/chiude in cerchio magico («vi è emozione quando il mondo degli utensili svanisce bruscamente e il mondo magico appare al suo posto»[6] si potrebbe chiosare con Sartre, quando Sartre parla del modo di coscienza emozionale), ci dice qualcosa di molto simile, a ben vedere, all’angoscia per il niente heideggeriana, che, immergendo nell’assenza d’ente l’esserci, lo apre al niente come velo – ritiro, mistero – dell’essere. E in effetti, come non vedere un nesso profondo fra quell’incantamento e questa “incantata quiete”? Nel giocare si accede a una sospensione del reale, a un progressivo spaesamento che è in realtà un risveglio[7]. Sia laddove si dia un gioco quieto, silenzioso e invisibile, sia dove il gioco si disfrena in ebbrezza estatica, struggente, si dà un apice, che è insieme abissale profondità, in cui l’ente nella sua totalità appare sospeso e sul punto di dileguare. E’ un risveglio all’essere nel suo niente, nel suo mistero, che ci fa dire, proprio come l’angoscia heideggeriana: “che accade, qui? Niente” (Niente, si gioca – Niente, è un gioco). Ma questa incantata ed ebbra quiete ci fa accedere non solo all’essere, ma all’essere come gioco, al gioco dell’essere. Questo punto di rottura della consuetudine non è affatto un capriccio con cui ci si sta baloccando – anche se, certo, qui ci si balocca sempre – ma un punto di fuga per un diverso approccio al mondo. E dato che le profezie, per farle avverare, bisogna praticarle, a partire da quella falla possiamo seguire una linea di fuga che ci porti fuori non solo da un modo di vedere il mondo, ma anche di stare in esso. Se il mondo è gioco e noi stiamo già – da sempre giocando, perché non metterci a giocare per davvero?

La visione comune del gioco come attività innocua, che non produce danni e violenza, sebbene ingenua, non è del tutto falsa. Se è pur vero che «In verità il gioco spazia dal gioco delle bambole alla tragedia»[8]– e questa è già una formulazione di nonviolenza – esso può anche manifestarsi in forme mimetiche che riassorbono l’agon[9] in una simulazione giocosa, appunto, della lotta. Forse i non umani lo sanno perfino meglio di noi, disabituati al gioco da apprendimenti meccanici, lavoro macchinino e ideologie competitiviste da quattro soldi. Un amico, giocosamente, ha scritto:

Guarda le capre, corna contro corna,

la lotta si fa danza per giocare:

perché chi gioca, gioca a ritornare,

ma chi vede giocare già ritorna.[10]

A che si torna, giocando, giocando il gioco del guardare? Al gioco, in effetti. Al gioco che si ripete, ritorna a giocare, ma anche al gioco dell’essere, scordato.[11]

Ma che accade, anche, in questa simulazione di lotta, che cattura la lotta nel gioco? Accade che un gioco con una posta e un fine, in cui si può vincere o perdere, perdere o guadagnare, viene rimandato al gioco abissale, in cui si gioca per giocare – che non ha fine né perché, in cui i giocatori non sono competitori, non c’è posta né somma finale – perché catturato, il primo, nel gioco della mimesis, della simulazione. Questo scivolamento genera una danza, un’attività che ha il suo fine in sé.

Non siamo più tanto lontani dalle questioni iniziali. Dall’appuntamento (a cui forse mancheremo?).

Quella antispecista è una lotta per la liberazione, e in questo senso è qualcosa di diverso da una battaglia ma anche da un vero e proprio agon. Eppure in essa si giocano vari agon, giochi in cui si può vincere o perdere, in, perché si vinca bisogna battere qualcosa, a volte qualcuno. Insomma, giochi che sono game e non  play. Eppure la lotta antispecista vuole la liberazione di tutti, non umani e umani, compresi quegli umani che oggi opprimono non umani o umani. Per questo la lotta antispecista cerca di danneggiare tutti gli esistenti il meno possibile. In questo senso è una lotta nonviolenta. Catturare l’agon nella mimesis dev’essere quindi un imperativo praticabile ogni volta che è possibile. Non solo. I game, gli agon, che si giocano in essa, devono essere sempre messi in relazione con il “fine” ultimo – che forse non è un fine, ma una profezia dei giorni ultimi di questa storia – che è la liberazione del gioco abissale in quanto tale, ovvero dei giocatori abissali che giocano in esso, e che sono questo gioco. Per questo nell’inciso sopra riferendoci all’affermazione di Fink, abbiamo potuto commentare che già tale sua affermazione, che riguarda il gioco abissale, è già una formulazione di non violenza: si tratta infatti di lasciare la presa sugli esistenti, e anche sulle cose, rinunciare al governo totale non solo gli esistenti, ma della totalità dell’ente in generale. E, se, come si diceva sopra, si tratta di liberare questo gioco giocando, restare in relazione ad esso significa non solo cominciare a liberarlo, ma anche cominciare a indebolire la violenza. Questo restare in relazione significa giocare il gioco abissale in ogni agon, mimesis e in ogni altra forma pratica – ontica direbbe qualcuno – di gioco. Ma, di nuovo: se la lotta antispecista implica degli agon che vanno catturati ovunque possibile in una mimesis per ridurre al minimo la violenza, si tratterà, se non di definire in assoluto cosa sia violenza e nonviolenza, almeno di interrogare la questione, che per lo più resta vaga, non tematizzata e anzi risolta troppo in fretta in una cattiva duplicazione della legalità, che ne sfrutta, a conti fatti, la carica oppressiva, o peggio, gli spazi di eccezione. È ad esempio più violento spaccare una vetrina di McDonald’s, o mantenere per giorni un presidio formalmente pacifico davanti all’edicolante di Via Solari, parallelo a un vero e proprio boicottaggio lanciato da internet, impedendone e distruggendone l’esercizio economico, stigmatizzando la persona come mostro umano (in piazza e in rete)? Insomma, distruggere un oggetto per colpire simbolicamente una multinazionale, o attaccare simbolicamente un piccolo commerciante distruggendone immagine e attività, senza, per altro, difendere alcun esistente, ma con la presunzione di fare giustizia attraverso quello che è di fatto un linciaggio? Se infrangere una vetrina di McDonald’s può essere considerato inutile, al limite dannoso per la causa per le conseguenze mediatiche del gesto, il boicottaggio e la stigmatizazione di un singolo esistente, con tanto di gogna pubblica – il presidio – non possono che essere lette come un vero e proprio linciaggio insieme simbolico-.morale e materiale, che per di più non mira a difendere nessuno. Se riflettiamo poi sul fatto che né l’edicolante né forze dell’ordine hanno preso in considerazione la possibilità di un reato di violenza privata da parte dei presidianti, ci rendiamo conto che la situazione ha finito per configurarsi come un vero e proprio stato d’eccezione che ha immesso il “carnefice” in uno spazio di sacertà. Le minacce comparse di notte sulla saracinesca dell’edicola, rispetto alle quali nessuno pare essersi indignato, sembrano giustificare tale ipotesi. Di fatto gli animalisti che chiedono leggi e pene più severe a tutela di chi abita permanentemente quello spazio, in uno stato di uccidibilità totale – i non umani – vi ci hanno trascinato un piccolo commerciante, certo avvezzo alla violenza, ma anche nel senso che la violenza subita è stata probabilmente l’ ambiente in cui è cresciuto. Se poi prendiamo sul serio l’obiezione secondo la quale questa strategia dissuaderebbe dal ripetere un comportamento violento, diventa autoevidente che, al contrario, dato che chi è abituato alla violenza, uscirà dalla mera repressione – poliziesca o sommaria – più violento di prima, il cerchio della sacertà si chiude, ricatturandovi una volta di più i non umani, sempre più uccidibili. Qui non si è data la minima giocosità, tantomeno una mimesis che catturasse l’agon – e neanche un agon –, men che meno una giustizia. Pura guerra. La versione più radicale di questa sacralizzazione della vita pare essersi data agli inizi di gennaio in un paese del Brasile, dove il presunto responsabile di una violenza su un cane – indubbiamente tremenda, stando alle notizie: stupro e uccisione a bastonate: che però è più o meno quello che accade a tutte le mucche del mondo – sarebbe stato linciato a morte da un gruppo di suoi concittadini. Qui forse è ancora più interessante che il fatto, difficilmente verificabile in sé, sia stato però ripreso con toni di giubilo da attivisti animalisti su Facebook, fino in Italia, in un linciaggio ad infinitum che si è fermato solo davanti a un provvedimento dello staff del social network – che, paradossalmente ma non troppo, cancellando la notizia, ha anche cancellato le prove di un’apologia di reato, se non perfino di un’istigazione.[12] Ma la situazione non è poi così diversa per Katia Simonse, un’attivista antispecista olandese presa a bersaglio di minacce e insulti a livello planetario proprio laddove costringeva, in una serie di opere e performance, lo specismo a esibire la sua fondamentale ipocrisia.[13] A tale ennesimo linciaggio simbolico-morale, in un clima di assurdità crescente, hanno preso parte in gran numero animalisti, tanto che il web pullula ormai di gruppi intitolati all’ipotesi di ammazzarla e persino petizioni in cui si chiede di “fermarla”[14]. Con una selezione degli insulti la Simonse ha fatto un libro.

La nonviolenza conosce molte strategie e tattiche, e molte di giocose: si va dall’ironia al motteggio, alla messa in scena, alla burla. Strategie e tattiche che sono già gesti, o possono diventarlo. Il punto è che quando ci chiediamo cosa sia violento e cosa no, dobbiamo domandarcelo in relazione alle situazioni e, soprattutto, ai chi coinvolti. Non ha senso, né eticamente né strategicamente, motteggiare poliziotti fermi in un cordone, che non si stanno preparando ad azioni repressive. Serve solo a provocare una battaglia che potrebbe non darsi, e a far pensare che la questione della liberazione non li riguardi – secondo l’odioso motto ACAB[15]. Serve piuttosto un’ironia non complice, ma che tenti di aprire un dialogo qui e ora, che sia anche una proposta di trasformazione. Motteggiare davanti a una violenza probabile può certo essere rischioso, ma può funzionare sia come dissuasione sia come elemento di risveglio – come un “ehi, ma pensi che sia davvero giusto?” Certamente meglio questo rischio che porsi in assetto da scontro con sassi in mano e cappucci abbassati laddove non  si pone la questione di una qualche necessità all’autodifesa. Meglio ancora sarebbe simulare demenza e idiozia, comportandosi come matti, o come zombie. La teatralizzazione della violenza poi, nel modo di un autolesionismo rituale che strappa per un momento il monopolio della violenza per simularne l’assurdità è già un vero e proprio gesto, nel senso di Agamben, di cui, quanto più cade in disuso, tanto più se ne sente la necessità. Motteggiare i dirigenti di una multinazionale della vivisezione o della carne o vivisettori è utile – a patto che sia fatto con inventiva – e forse pure etico. Motteggiare o, peggio, come spesso accade, minacciare o stigmatizzare come assassini operai e semplici lavoratori subordinati – fra includerei anche gli stessi macellai – è catastrofico da ogni punto di vista. Organizzare una burla di gruppo su un amico che può comprenderne il carattere di gag simpatetica non è violento ma liberatorio – anche nel senso di liberare l’amicizia e la simpatia.. Burlarsi in gruppo di un estraneo è un atto di umiliazione feroce. Uscendo dalla sfera delle strategie ludiche, ma sempre pensando in termini di gioco – di un gioco che indebolisca la violenza – boicottare una multinazionale che si macchia di crimini contro gli esistenti è perfino doveroso. Boicottare un singolo edicolante è un’idiozia intrisa di brutalità.

Quel che vale, in tutti questi esempi, è sempre abbassare, per così dire, di un grado il livello della violenza, facendo in modo che la lotta venga catturata in una mimesis giocosa. Il che equivale a quella giustizia che si flette dal fine ai mezzi di cui si diceva sopra, in modo da praticarla già come gesto; e in modo di coinvolgere quanti più esistenti possibili nel gioco da liberare e da cui farsi liberare. Questa contiguità fra giustizia e gioco nella cifra del gesto è esattamente ciò che si sta proponendo come gioco iperbolico, che riprenda il gioco abissale dell’essere in cui siamo coinvolti per giocarlo come giocatori. Il gioco iperbolico vuole richiamare, fin dalla formula, quell’etica iperbolica di cui parla Derrida, in particolare in Perdonare[16], laddove si tratta di perdonare l’imperdonabile, e perfino di perdonare senza corrispondere a una richiesta di perdono. E Iperbolico per quella ripresa, che in quanto ripetizione mette in scacco ogni fallacia naturalistica – perché è già un gioco giocato senza origine né fondamento e rimanda a un essere come gioco abissale che non è struttura, ma, appunto, evento e trasformazione: evento di una trasformazione incessante, di un gioco ininterrotto. E per questa giustizia iperbolica che porta con sé, che significa mettersi a giocare anche laddove c’è guerra e gli altri non giocano, ma vengono così continuamente invitati a parteciparvi, entrando in – un – gioco e uscendo dalla guerra.[17]

Esodo

Per un uomo valoroso è bello cadere morto per la patria;

abbandonare la propria città e i fertili campi

e vagare mendico è di tutte le sorti la più misera […]

se così, dell’uomo randagio non vi è cura

né rispetto, neppure in futuro per la sua stirpe,

con coraggio per questa terra combattiamo, e per i figli

andiamo a morire, senza più risparmiare la vita.[18]

Così cantava Tirteo nel VII secolo avanti Cristo, e i giovani spartani ricantavano – letteralmente – nelle sistizie, i pasti in comune. E’ ormai patrimonio comune il fatto che i cittadini delle poleis greche erano tali nella misura in cui la loro condizione di nascita ne faceva portatori di spada. Il cittadino greco era tale nella misura in cui era oplita, soldato. Come mostra Dal Lago ne Le nostre guerre[19], il legame fra polis e guerra non è mai stato interrotto, e le democrazie moderne, per quanto occultino questo legame necessario dietro all’emergenza di guerre non volute e cominciate da altri, continuano a fondarsi su di esso. La guerra mai come oggi si è manifestata come il cardine della politica, secondo la definizione di Foucault, trasformando l’intero pianeta in uno spazio di guerra permanente e intermittente. Ma non basta più sciogliere questo legame e risolversi per una cittadinanza disarmata, perché la polis stessa è lo spazio di iscrizione della nascita nella nazione, per cui nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, il sintagma homme e citoyen è un endiadi in cui l’homme è da sempre riassorbito nel citoyen: è così sempre bastato che il potere denaturaturalizzasse e denazionalizzasse perché dell’uomo non restasse che un apolide senza diritti,  rimesso alla sacertà. Il che accade per tutti gli abitanti del pianeta, ora che la sovranità perde la sua localizzazione aprendo la voragine di uno spazio di sacertà planetario. Il nesso a sua volta inscindibile fra guerra e lavoro, nella mobilitazione totale dell’esistente, dalle trincee tempestate d’acciaio della Prima Guerra Mondiale, alla convergenza fra logiche militari e aziendali  del postmoderno è un ulteriore segno di tale sacertà, e un motivo in più per una dimissione che sia anche diserzione, dismissione di ogni divisa e grado, e sciopero permanente[20]. «Abbandonare la propria città e i fertili campi e vagare» nel senso di rompere il legame della nostra esistenza e della politica con la polis moderna è perciò non solo la miglior sorte che ci può toccare in dono, ma addirittura un compito verso noi stessi e tutti gli esistenti, a partire dai nostri figli, cioè dalle generazioni di esistenti che ci chiamano dal futuro. Si tratta perciò di pensare una politeia senza polis, o una polis dello sradicamento, una polis senza radici. Una polis di apolidi.

Certamente ci sarà infinitamente più preziosa una parte di quel celebre frammento di Archiloco, in cui il poeta e guerriero ci confessa la trasgressione dei valori greci antichi, e forse, una rivendicabile codardia, o,. almeno, debolezza: «Qualcuno dei Sai si fa bello/ dello scudo che, arma irreprensibile,/ presso un cespuglio abbandonai, contro il mio volere./ Ma salvai me stesso: che m’importa di quello scudo?[…]»

Risolversi a giocare – a giocare il gioco abissale – significa profanare lo spazio del sacro divenuto mondo e rimettere tutti i sacrificabili e gli uccidibili alla loro esistenza finita, non più riducibile a nuda vita. Se infatti la zoé è catturata in un legame di bando che la obbliga allo spazio d’eccezione fin (o già) dalla fondazione della polis – del politico – ormai quello spazio di uccidibilità totale, nell’eccezione fattasi norma, ha catturato interamente anche il bìos, e quindi la fuga dal campo o avviene per umani e non umani insieme, in un esodo da tutte le forme e le categorie del politico che, sprofondando nel buco nero dell’eccezione non possono ormai che funzionare come macchine di sterminio, oppure, come i pulcini maschio di gallina in un allevamento intensivo – ma anche nello spazio biologico, che è uno spazio del biopotere, delle “uova felici” –  finiremo triturati vivi tutti insieme in quelle macchine. Si tratta di farsi banditi, ma in un abbandono compiuto, abissale, dall’essere, dell’essere e all’essere, che sciolga finalmente ogni legame di bando che trattiene al sacro. Si tratta di riconoscersi orfani della tradizione onto-teo-logica e liberarsi così da ogni fondazionismo e mitopoiesi dell’origine – liberando così 2500 anni di pensiero in quanto gioco e in quanto gioco, come giocose e giocanti, le esistenze finite nella loro con-tattile con-divisione. E forse di ripensare – decostruttivamente – addirittura lo spazio e il tempo, a partire dal gioco e dalla coesistenza. Si tratta di giocare un gioco che è anche un alea, un libero rischio senza salvaguardia in direzione di un essere non salvaguardato. Di liberare dalle mani, dalla presa, quel Coup des Dés che ogni Pensiero emette, non per abolire il Caso, ma piuttosto per liberarlo perché sul niente del suo(non) aver luogo si stagli una costellazione di senso: i cui punti contengano infiniti punti di fuga per infinite linee di fuga, di connessione, nel luco che l’aurora boreale schiude nella silva obscura, nell’oceano silenzioso della notte interstellare. E’ un futuro ancora troppo vago, e insieme troppo vasto, troppo ignoto e rischioso, questo? Un futuro senza fondamenta, come un abisso senza fondo, tanto da dare le vertigini? Certo. E si tratta di saltare. Come in un gioco. Si tratta di giocare.

Vertige![21]


[1] Credo che nell’esperienza di tutti, o quasi, non ci sia niente di più simile di esso, ma anche di ogni luogo che si faccia spazio di gioco, ad un Giardino delle Delizie, a un Paradiso Terrestre. Non a caso Fink parlava del gioco come Oasi di Gioia

[2] Il riferimento è ovviamente ancora ai versi dell’Andenken di Hölderlin «più d’uno teme/ di andare alla sorgente/ ma la ricchezza/ comincia con il mare». In Hölderlin, Le liriche, cit., p 563

[3] Viene da pensare anche, come figura limite, agro-silvana, dello spazio del gioco, alla casa sul’albero, o al luogo segreto. C’è anche una parola italiana, lasco, che come sostantivo indica, in una singolare simultas omofonica, la radura boscosa e lo spazio-di-gioco fra meccanismi. Inoltre, come aggettivo rimanda in qualche modo alla debolezza e alla passività. L’espressione “locus ludendi” gioca con quella di locus a non lucendo di Leonardo Amoroso. Vedi Leonardo Amoroso. Lichtung. Leggere Heidegger. Rosenberg & Sellier. Torino 1993

[4] Scriviamo così il dis/velamento per rimarcare che ad esso appartiene un contemporaneo e cooriginario velarsi, come nell’ambiguità del termine ri-velarsi, che però è troppo religiosamente connotato.  Si tratta insomma di un accadimento di verità e mistero: un’apertura che aprendosi si ritira, un dono che si sottrae, un suono attraversato dal silenzio.

[5] Ci si riveglia dalla realtà al sogno, o da un sogno a un altro sogno – o da un incubo a un sogno che non è più incubo. O ci si risveglia, niccianamente, nel sogno. E tale sogno, a cui ci si ris-veglia, non è forse stato ancora mai sognato: un immemorabile sogno ancestrale futuro, che si sogna ora. Che si sta – già – sognando. O la veglia in un sogno. Quindi anche un sogno inteso come speranza.

[6] Jean-Paul Sarte, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni”, Bompiani, Milano 2004 p 206

[7] Un risveglio strano e paradossale. Vedi nota 56.

[8] Eugen Fink. Oasi della gioia. Idee per un’ontologia del gioco. Rumma. 1969 Salerno. p 32

[9] Uso qui la quadripartizione del gioco secondo Callois. Roger Callois. I giochi e gli uomini. Bompiani. Milano 2010

[10] E’ la prima quartina di un sonetto di A.C., amico che, come è evidente, preferisce restare anonimo.

[11] Anche qui, si tratta di rammemorare un sogno, un sogno forse mai avvenuto. Ma non mi sottraggo all’ovvio riferimento heideggeriano e alle possibiili critiche: il punto è che anche per Heidegger, in fondo, si trattava sì di rammemorare l’essere, ma come niente, come oblio. Al limite di non rammemorare niente. Se non il ritiro abissale di un’apertura – che dona l’ente: e che si dis/vela ora, qui, nel tempo dell’Ereignis.

[12] Mi permetto di rimandare a un mio articolo sul fatto in questione pubblicato su Antispecismo Punto Net: http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=49:linciaggi-felici

[13] Qui un’intervista, propostagli da un blogger che ha avuto semplicemente la ragionevolezza di porle alcune domande, in cui la Simonse racconta della sua attività e delle abnormi conseguenze di essa: http://lalternativaitalia.blogspot.com/2011/12/intervista-alla-ragazza-olandese-che.html

[14] Consiglio vivamente di consultare questo gruppo Facebook per tastare il clima con mano. Notare gli argomenti – si fa per dire: http://www.facebook.com/#!/groups/115185488595699/

[15] All Cops Are Bastards. Credo che chi avversi un sistema di oppressione-repressione non possa pensare a migliore liberazione di quella che partirebbe da chi la repressione la agisce, liberandosi di quel ruolo insieme alla divisa

[16] Jaques Derrida. Perdonare. Raffaello Cortina. Milano2004

[17] Ovviamente gli esempi di resistenza animale sono innumerevoli e ineludibili per pensare la liberazione, le sue strategia e tattiche.

[19] Alessandro Dal Lago. Le nostre guerre. Manifesto Libri. Roma 2010

[20] Per la mobilitazione totale e l’identificazione di operaio e soldato vedi Junger. Nelle tempeste d’acciaio. Guanda. Milano 2007. E dello stesso autore L’operaio. Guanda. Milano 2004. E La mobilitazione totale, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997. Inoltre il sottovalutato Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro. Einaudi. Torino 2006. Per la convergenza fra logiche militari e aziendali, di nuovo Dal Lago Le nostre guerre. Manifesto Libri, cit. Faccio infine notare che lo stesso désoeuvrée della communauté di Nancypuò essere tradotto come inoperosa, ma anche come scioperata.

[21] Non nego il rischio, in questa proposta di gioco, di una nuova mitopoiesi, e di un nuovo fondazionismo, magari meontologico, in tutto questo scordare e rammemorare, smettere e ricominciare a giocare. Rischio che però penso, se non di aver schivato, almeno di aver messo in arresto, proponendo una versione il più possibile decostruttiva di un gioco, non a caso, che non ha né inizio né fine: né origine, né telos, né compimento. E la cui realtà, aprendosi sempre sul sogno, non è mai garantita. In effetti: chi ci garantisce che stiamo davvero giocando, che abbiamo ricordato di giocare? Nessuno a ben vedere: il gioco si gioca giocando. Questa è già una messa in arresto di mitopoiesi e fondazionismo. Riguardo all’essere e al mistero, all’essere come mistero, ho già detto sopra: si tratta di ricordare un niente, un oblio, un darsi che si ritira: o, meglio ancora, di ricordare un di un ritiro, di un ritrarsi. E in effetti, di nuovo, un gioco che si gioca giocando è la formula di un’apertura che si ritrae, di un mistero senza segreti né arcani. Mitopoiesi e fondazionismo si possono aggirare o mettere in arresto, non abolire: pena la loro riproduzione infinita. Per ora sarebbe già molto aver camminato sul limite senza esser caduti verso il suo bordo interno. Non posso non ringraziare Marco Maurizi per le feconde discussioni su tale questione.

 

 

 

Comments
6 Responses to “Per un’etica iperbolica e una politica dell’esodo”
  1. pasquale cacchio ha detto:

    «Il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare.»
    È solo l’incipit di “Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1973, p. 3”

    Ma questo grande dimenticato dalla cultura trionfalistica occidentale
    ne ha di toste da dire!

    Bello leggere anche qui Derridilgambo.

    • derridiilgambo ha detto:

      Libro discusso ma importantissimo :-).

      La mia ricerca sul gioco (intendo indagine filosofica singolare, non semplice lettura di libri 🙂 è appena agli inizi.
      Nell’articolo avrei potuto citare anche Bateson, Winnicott (l’unico psicanalista che amo davvero, proprio per lo spazio transizionale che, liberata dall’irrigidimento soggettivista-psicanalitico, è un’idea geniale che fa giocare – mette in gioco – il pensiero profondamente – ma qualcosa di simile vale anche per il fort-da freudiano), e ovviamente Wittgenstein e i filosofi (come Rovatti) che hanno dato una curvatura “ontologica” al tema dei giochi linguistici. E – ovviamente ancora – Derrida, con la sua tipica tonalità paradossale.

      E questo solo per citare i più celebri.

      Il ‘900 è diventato un banchetto del/per il gioco.

      Sono appunto appena agli inizi: quello che mi interessa è far parlare, passo dopo passo, tutti questi autori, che vagabondano per questo immenso kintergarten del ludus, dello Spiel, del jeu (ma anche dello iocus), fra di loro, per far emergere qualcosa di impensato, ciò che è ancora occultato e ciò che può venirci-incontro di completamente nuovo (inaspettato e incondizionato, quindi “evento” nel senso più forte in cui lo intenderebbe Derrida: altro e differe/ante).

      Andare a prendere lo Spiel heideggeriano (e finkiano) per cominciare il discorso ha corrisposto a una inclinazione (più che una strategia) simile: andarlo a cercare, il gioco, dove meno ce lo si aspetta: Heidegger: uno così serioso!!! :-). E poi farlo collidere, reagire, con pensieri diversi (come quello “profanatore” di Agamben: e si sa quanto invece il controverso “affermatore dell’università tedesca” avesse caro il “sacro”). La stessa cosa vale per l’uso scompaginante dello Spiel di Benjanim.

      Proviamoci, insomma: tanto che ci resta da perdere in questo collasso ontologico planetario? L’ossessione del lavoro?
      Ma magari (così, magari, si lavorerebbe meno e tutti…).

      Ti ringrazio, Pasquale, per l’attenzione che mostri sempre verso i miei testi. Per me è un grande (ancora più che onore) dono. Il dono è impossibile?
      Per questo si continua a donare (per trovare un dono, magari reciproco, ma senza scambio: e stiamo già giocando :-).

      Ah. Sto scrivendo una cosa in cui ci stanno di mezzo anche gli insetti (più i molluschi, ma anche gli insetti e gli artropodi in generale: quindi non perdermi di vista :-).

      Un abbraccio, amico incacchiato 🙂

      • pasquale cacchio ha detto:

        Se parli di insetti, sarà anch’esso un dono, non ti dimenticare di Jean Henri Fabre!
        Anche se usa la parola “istinto” per descriverne i comportamenti,
        è talmente in confidenza con loro che sembra considerarli suoi pari.

  2. derridiilgambo ha detto:

    ps Azz: ho fatto il record Asinus di faccine 😀 😀 😀

  3. emilio maggio ha detto:

    condivido totalmente e ‘rilancio’per stare al gioco con alcune considerazioni.Per quanto riguarda la violenza.L’articolazione di forme di protesta militante da parte di alcune organizzazioni animaliste e di movimenti radicali no global in veri atti di insubordinazione,anche violenta,e di lotta che si declina in boicottaggi,presidi,scontri e vandalismo contiene,anche nel senso di trattenere,un grosso potenziale ludico che, piu’ di certe accademiche e scientifiche analisi sociologiche,restituisce la forza de/alienante e de/costruente del giusto esercizio della violenza.Bisogna lavorare cioe’ sulle contraddizioni della macchina antropologica e rendere manifeste le sue tragiche conseguenze invece che assecondare gli impulsi censori delle sette animaliste.Fare degli infiniti piani/sequenza sulla geografia sociale che definisce la civilta’ umana:dalle democrazie rappresentative-anche e soprattutto nel senso di rappresentazione,cioe’ di simulazione,di mimesis-ai regimi totalitari e/o tecnocrati/liberisti.Allora violenza si potra’ intendere come agon-gioco-gesto che inneschi il senso di una giustizia in divenire,mai ‘pacificata’.Come fanno i bambini quando stabiliscono ,in accordo,i limiti del campo di gioco/battaglia o come fanno gli animali quando stabiliscono la loro territorialita’.
    Non mi resta che citare una tua frase fragrante di verita’:’questa continuita’ fra giustizia e gioco nella cifra del gesto e’ esattamente cio’ che si sta proponendo come gioco iperbolico’.E il bellissimo ‘Perdonare’ di Derrida e’ una delle chiavi per giocare il gioco impossibile del non vinto del non perso.Perdonare l’imperdonabile.Perdonare senza un misfatto.
    Per una polis sradicata,senza radici e rizomatica.

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