Antispecismo e “specismo speculare”: una distinzione sommersa
di Filippo Schillaci
Ripubblichiamo un articolo di Filippo Schillaci uscito qualche tempo fa ma ancora utile al dibattito sull’antispecismo. Sul sito dell’autore è possibile seguire l’interessante dibattito che ne è seguito con Aldo Sottofattori.
1. Le due giornate di Brugherio.
In occasione dell’edizione 2007 di Veganch’io svoltasi a Brugherio fra l’8 e il 10 giugno vi furono due giornate di discussione che, nelle intenzioni degli organizzatori, avrebbero dovuto essere dedicate a una riflessione sul mondo com’è (prima giornata) e su come dovrebbe essere (seconda giornata). Fui invitato a partecipare alla seconda giornata, dalla quale mi aspettavo che venisse delineato se non il progetto quanto meno un modello di massima dell’assetto dell’umanità sulla Terra secondo l’ottica antispecista. Nulla di tutto ciò accadde. Risultò anzi che né il pubblico né la maggior parte dei relatori si poneva il problema, o per non averlo mai considerato parte del proprio impegno antispecista o per aver già bollato il problema come improponibile.
Esemplari a questo proposito sono stati gli interventi di Aldo Sottofattori e Valerio Pocar. Il primo ha ribadito la sua proposta di un metodo di lotta fatto di “situazioni fortemente conflittuali”, senza tuttavia descrivere la meta cui queste lotte dovrebbero giungere, anzi enunciando, sia pur come posizione puramente soggettiva e solo in risposta a una domanda del pubblico, una visione intrinsecamente negativa della presenza dell’uomo sulla Terra, giungendo ad auspicarne l’estinzione e ricavando dal pubblico un sentito applauso. Pocar dal canto suo, nel delineare il tipo di rapporto ideale fra l’uomo e le altre specie ha auspicato una “reciproca indifferenza” che non si vede come possa essere possibile nell’ambito di una casa comune quale dovrebbe essere la biosfera secondo una visione antispecista ma che al contrario diventa comprensibile e perfino auspicabile se si concepisce l’uomo come corpo estraneo, se si ribadisce, sia pur da un punto di vista diverso, il dualismo uomo-animale tipico del pregiudizio specista.
Singolarissima infine, nella seconda giornata, la presenza di Sara D’Angelo, creatrice di un rifugio per animali provenienti da situazioni di sfruttamento. Singolarissima per l’evidente motivo che realizzazioni come la sua sono necessarie e importanti in questo mondo, mentre in un mondo liberato persone come lei dovrebbero essere felicemente disoccupate.
Pochissime le eccezioni a questa tendenza, fra cui cito Marco Maurizi nella prima giornata, che ha delineato le linee generali della formazione dell’ideologia e della prassi specista e ha tracciato un abbozzo di una visione alternativa, ed Enrico Giannetto nella seconda giornata, che ha auspicato un ritorno all’assetto delle società preagricole che avrebbe meritato ben altro approfondimento, se non altro per sottrarlo all’apparenza di favolistico primitivismo di cui invece è apparso erroneamente ammantato (si pensi che il metodo permacolturale mira appunto a una coltivazione interamente fusa nell’ecosistema e autoperpetuantesi nel tempo, dunque al superamento dell’attuale concezione fortemente interventista dell’agricoltura proprio nella direzione indicata da Giannetto).
Quanto a me, sarebbe stata mia intenzione descrivere il modello produttivo della Decrescita Felice, che rappresenta a mio avviso nient’altro che la prassi perfettamente corrispondente alla teoria antispecista, ma ciò non è stato possibile perché i numerosi interventi del pubblico hanno deviato il discorso – complice la maggioranza dei relatori – su argomenti tipici dell’animalismo convenzionale mentre ciò di cui si sarebbe dovuto discutere come da programma, mi sono reso ben presto conto, risultava per gran parte del pubblico nella migliore delle ipotesi privo di interesse. Basti dire che quando ho domandato quanti conoscessero il Movimento per la Decrescita Felice pur essendo davanti a me non meno di 150 persone, si sono alzate al massimo una mezza dozzina di mani.
Riassumendo, la tendenza largamente condivisa fra relatori e pubblico si può delineare nei due seguenti elementi: assenza di un atteggiamento progettuale e conseguente assenza di analisi oggettiva tendente a risalire alle cause del presente (conseguente perché se non c’è un progetto da portare avanti è ovvio che non serve alcuna analisi). In particolare, con la sola eccezione della psicologa Anna Maria Manzoni (prima giornata), nessun tentativo è stato fatto per analizzare la genesi dei comportamenti socioculturali del “signor Rossi”, dell’uomo qualsiasi, su cui è basata tanta parte dell’attuale sistema. Né c’è da meravigliarsi di ciò poiché un progetto di ampio respiro e un’analisi del presente implicano come condizione preliminare il pensare a un assetto ideale dell’umanità sulla Terra come eventualità appartenente alla sfera del possibile, in contrasto con la ferma visione nihilista della presenza dell’uomo sulla Terra che è invece emersa in entrambe le giornate.
E’ questo l’antispecismo? O non è forse una visione parziale di esso, una fra le tante possibili? Oppure è una visione distorta di esso?
Secondo me non è nulla di tutto ciò. Secondo me non è antispecismo. Siamo in altre parole di fronte a un enorme, direi quasi storico equivoco mai fin qui percepito come tale e che è invece fondamentale chiarire. Chiariamolo dunque.
2. Antispecismo e “specismo speculare”: definiamoli teoricamente, …
Tutti abbiamo imparato a distinguere fra “animalismo protezionista” (che mira a tutelare gli animali all’interno del sistema esistente che non viene messo in discussione) e “animalismo radicale” (che invece mette in discussione il sistema in quanto tale). Nell’ambito di quest’ultimo, spesso assimilato all’antispecismo, non è fin qui sembrata necessaria alcuna ulteriore distinzione teorica. Ci si è limitati al più a constatare una certa molteplicità di posizioni.
L’equivoco, quale è emerso dalle due giornate di Veganch’io, consiste nel considerare come posizioni diverse ma interne a uno stesso contesto etico-ideologico (animalismo radicale) quelle che sono invece posizioni appartenenti a contesti diversi e fra loro contrastanti, ripeto, a livello teorico, ovvero profondo.
Da una parte abbiamo l’antispecismo, che è quello espresso ad esempio da autori come Mason. L’antispecismo considera la biosfera secondo un modello orizzontale: una rete di relazioni di cui l’uomo è un nodo con pari dignità rispetto a tutti gli altri. Il male consiste nell’ipertrofia di questo nodo, conseguente a scelte che la specie umana ha fatto nel corso della sua evoluzione. L’uomo non è al di fuori della “natura” poiché ne è inestricabilmente parte (l’antispecismo nega la dicotomia uomo-natura) ma ha assunto lo status di una specie infestante all’interno della biosfera di cui è e rimarrà parte. L’attuale stato di cose cioè non è congenito ma è frutto di una, sia pur schiacciante, congiuntura storica, ed è pertanto potenzialmente reversibile. L’antispecismo porta a un’estensione del rispetto dovuto alla vita umana includendo in esso la totalità degli esseri senzienti. Non è alternativo al rispetto dovuto alla vita umana.
L’interesse dell’antispecismo per la decrescita è congenito perché il problema è progettare e realizzare un corretto insieme di relazioni fra il nodo-uomo e tutto il resto della rete. L’antispecismo è dunque per sua natura progettuale, propositivo, sistemico. Esso è inoltre non violento per sua stessa natura, oltre che per numerose altre ragioni tattiche, strategiche e culturali.
L’antispecismo infine porta con sé un notevole salto paradigmatico perché implica il passaggio dall’attuale visione verticale e gerarchica della biosfera (l’uomo sopra e tutto il resto ammucchiato sotto i suoi piedi), a una visione orizzontale ed egualitaria (la rete di relazioni).
Dimenticavo: ha tutte le potenzialità per inserirsi a pieno titolo all’interno del movimento alternativo di cui costituisce il naturale e necessario completamento.
Dall’altra parte abbiamo ciò che potremmo chiamare lo “specismo alla rovescia” o, con economia di sillabe, lo “specismo speculare” (nel senso che ne rappresenta l’esatta immagine speculare). Esso non mette in discussione il paradigma specista, semplicemente lo vede ribaltato: l’uomo nella sua visione si trova a essere sotto anziché sopra; sotto a una biosfera di cui continua a non far parte, di fronte alla quale è soltanto un corpo estraneo, un elemento di disturbo. Lo specismo speculare considera l’attuale stato di cose congenito alla presenza umana sulla Terra e vede nell’estinzione dell’uomo uno stato ideale, l’unica via d’uscita auspicabile. E’ in altre parole irrimediabilmente nihilista. L’interesse eventuale dello specismo speculare per la decrescita è da intendersi solo come soluzione di ripiego, vista l’impossibilità di raggiungere lo stato ideale di cui sopra. Lo specismo speculare manca di una visione ecosistemica perché essa può derivare solo dal problema di una corretta relazione dell’uomo con il resto della biosfera. Ma se questa corretta relazione è impensabile non serve sapere come funziona la biosfera.
Lo specismo speculare non ha un progetto e non è propositivo: cosa c’è da progettare, cosa c’è da proporre di fronte a un’umanità che deve solo levarsi dai piedi?
Lo specismo speculare è antitetico al rispetto dovuto alla vita umana ritenendo che ciò sia incompatibile con il rispetto dovuto alla totalità degli altri esseri senzienti. Esso è estraneo al concetto di bene comune ritenendolo impraticabile. Ovviamente è conflittuale.
Lo specismo speculare infine non implica alcun salto paradigmatico perché il paradigma è ancora quello specista, solo visto da un punto di osservazione diverso. Esso è in ultimo antitetico e congenitamente isolazionista di fronte al movimento alternativo come a tutto il resto dell’umanità.
In estrema sintesi, per concezione del mondo e per metodi di lotta preferenziali è contiguo allo specismo convenzionalmente inteso, non all’antispecismo.
Volendo usare la terminologia di Edward Goldsmith, che trovo estremamente appropriata a questo caso, ovvero volendo ragionare in termini di omeotelia (situazione in cui il comportamento di una parte nel perseguire il proprio interesse è in sintonia con l’interesse del tutto) ed eterotelia (situazione in cui una parte persegue il proprio interesse parziale prescindendo dall’interesse del tutto) possiamo dire che specismo e specismo speculare sono contigui nel loro considerare l’uomo come intrinsecamente eterotelico rispetto alla biosfera. L’antispecismo invece considera l’attuale eterotelia dell’uomo come frutto di una congiuntura storica e ne indaga la genesi e i meccanismi allo scopo di individuarne i punti di reversibilità. L’antispecismo è omeotelico e pertanto tende ad agire all’interno di relazioni di cooperazione amplificandone la portata e gli effetti. Non accetta relazioni di competizione perché anche quando sono inserite in un contesto omeotelico prescindono dal rispetto dovuto all’individuo (digressione: quest’ultima è, fra l’altro, la differenza fra antispecismo ed ecologia profonda).
3. …differenziamoli praticamente, …
Antispecista e specista speculare partono da uno stesso punto: la constatazione del dolore animale. In considerazione di ciò assumono un certo numero di comportamenti comuni (il più vistoso dei quali è il veganismo) e di istanze comuni (di difesa e correzione – vedi sotto). Ma dopo di ciò le loro strade divergono immediatamente. Da ciò la situazione di disgregazione presente all’interno di ciò che fino a oggi abbiamo erroneamente percepito come movimento “antispecista”: “è diviso”, “è disorganizzato”, “è litigioso”, “è emotivo”, “è contraddittorio”, “non esiste”. Non esiste, soprattutto. Perché tutto lascia credere che in realtà quella parvenza di movimento che a volte si manifesta sia in realtà non antispecista ma specista speculare. E a questo punto tutto torna.
Vorrei ora esemplificare la differenza fra antispecismo e specismo speculare con una circostanza reale in cui mi sono imbattuto di recente, che mi ha colpito molto in profondità perché mi coinvolge di persona.
Riassumo i miei precedenti per chi non li conosce: il mio argomento specifico è da alcuni anni la caccia vista come problema sociale. Ed è un argomento che conosco non per sentito dire ma per “intensa” (diciamo così) esperienza personale. Io sono una di quelle persone che sa quale suono hanno i pallini quando fischiano nel giardino di casa a due metri dalla propria testa, so cosa significa aver paura a uscire all’aperto, sentire i pallini che colpiscono i muri della propria casa, so cosa significa stare attento a non avvicinarsi troppo alle finestre. Un mio vicino sa cosa significa vivere da anni con un pallino nella testa (i chirurghi non sono riusciti a levarglielo). Io sono una persona la cui vita è stata deviata dalla caccia e, per alcuni anni, trasformata in un incubo. Io sono per l’esattezza una delle innumerevoli persone che ogni anno vivono questo incubo. E so che non è ancora finita. Nel 2003 ho scritto Se la caccia fosse un lavoro in cui analizzavo per la prima volta la caccia come problema di pubblica sicurezza e violazione dei diritti dell’uomo. Due anni dopo è venuto il libro Caccia all’uomo.
Mentre di quest’ultimo nessuno sembra ancora essersi accorto (sorvoliamo) il primo ha avuto una certa diffusione sul web. Lo ha pubblicato fra gli altri Rinascita Animalista, il sito web di Aldo Sottofattori. Un paio di mesi fa scrivevo a lui e Marco Maurizi che questo fatto lo interpretavo come indice della consapevolezza di Aldo che la questione dei diritti dell’uomo e la questione animale fossero due aspetti sinergici di uno stesso problema. La raggelante risposta di Aldo (rispetto alla quale Marco tenne a esprimere il suo dissenso) è stata: quel testo è stato pubblicato su Rinascita Animalista perché è stato ritenuto un valido argomento strumentale. Ora, premesso tutto ciò che ho premesso, rendermi conto che per qualcuno la mia vita non è un valore in sé ma è solo un argomento strumentale in funzione di tutt’altri fini (di ciò che egli percepisce come tutt’altri fini) lasciatemelo dire, mi ha colpito moltissimo. Potrei citare altri esempi ma credo che possa bastare. Credo che la differenza e l’incompatibilità fra antispecismo e specismo speculare a questo punto sia chiara.
Siamo così giunti al nodo centrale della faccenda: ogni iniziativa, ogni progetto, ogni qualsiasi cosa è prematura se prima non si è fatta chiarezza su questo punto, se prima non si è operata sui piani teorico e operativo, la necessaria separazione fra antispecismo e specismo speculare. Le due strade, ripeto, divergono fortemente ed è solo per un equivoco, diciamolo meglio, per una grave carenza di analisi, che ha potuto trascinarsi fino a oggi questa situazione ibrida e ovviamente paralizzante perché i due contesti parlano linguaggi reciprocamente incomprensibili (e fra l’altro è chiaro ora perché sia risultato incomprensibile e privo di interesse al pubblico di Veganch’io ciò che io avevo da dire: non parlavo ad antispecisti ma in prevalenza a specisti speculari, come si è ben visto).
4. …e ipotizziamo parziali parallelismi.
Ultima questione: pur nella enorme differenza di posizione, sono possibili momenti di lotta comune fra A (antispecisti) e SS (specisti speculari… faccio solo ora caso che l’acronimo è piuttosto inquietante)?
Francesco Gesualdi nel libro Sobrietà (che non a caso appartiene al contesto della decrescita, non dell’antispecismo) ha indicato due categorie di azioni: la desistenza (tirarsi fuori dal sistema e dunque non sostenerlo con i propri consumi) e la resistenza, a sua volta suddivisa in tre livelli: difesa (impedire che le cose peggiorino), correzione (migliorare aspetti parziali) e riforma (progettare un cambiamento globale).
Dubito che gli SS siano disposti a pratiche di desistenza, proprio perché esse presuppongono la fattibilità di un sistema sostitutivo ed eticamente sostenibile che appunto, ripeto, essi negano. Quanto alla resistenza, è possibile che, caso per caso, si possano valutare azioni comuni sui primi due livelli di lotta, fermo restando che occorre ogni volta avere precise garanzie che le forme di lotta siano compatibili con i principi dell’antispecismo, oltre che con ovvi criteri di opportunità. Sul terzo livello invece direi che non vedo quale collaborazione possa essere possibile, e analogamente per tutto ciò che è elaborazione teorica.
Concludendo, queste riflessioni mirano a dividere ulteriormente o ad unire? Credo innanzi tutto che sia impossibile immaginare uno stato di disgregazione più perfetto di quello che caratterizza oggi in Italia coloro che si occupano della cosiddetta “questione animale”. Ebbene, io credo che una parte non trascurabile di questa disgregazione sia dovuta proprio all’equivoco che queste riflessioni mirano a chiarire, oltre che alla mancata distinzione fra i diversi livelli di lotta (*). Il vedere in maniera amorfa una situazione che al contrario è internamente differenziata conduce inevitabilmente a confusione, fraintendimenti, aspettative che vengono puntualmente disattese, con conseguente e inevitabile decadimento dei rapporti che con ciò fanno presto a divenire conflittuali. Comprendere le reciproche differenze dunque può essere utile a delimitare a priori gli ambiti comuni di lotta e portare avanti, almeno quelli, in maniera piana e, auspicabilmente, efficace.
E adesso possiamo cominciare.
Bellissimo scritto!
Chiaro nei concetti e nella modalità con cui essi sono espressi.
è un articolo molto equilibrato ed equilibrante. inokltre, ho riscoperto la pagina di Gondrano. una bella lettura
Per completezza allego il link della discussione avvenuta qualche anno fa. Essa comprende una mia email di risposta all’articolo di Filippo Schillaci e la successiva risposta di Filippo
http://www.gondrano.it/diritti/lab/a&ssarticolo.htm
Inoltre osservo che il tempo mi ha indotto a limare qualche convinzione. Spero in meglio, anche se di sicurezze non ne ho.
ciao Aldo, potrebbe essere interessante se volessi renderci partecipi delle tue “limature” 😉 a me personalemtne interessa moltissimo.
Barbara
uè Aldo guarda che il dibattito l’avevo segnalato nell’articolo 😉
In effetti se vuoi tornarci su pubblichiamo volentieri un tuo post su asinus
mi piace
bah, non direi, c’e’ il link e mi sembra inutile duplicare. Cmq grazie. Per quanto riguarda le limature provvedero’.
preciso a scanso di equivoci. Certo, ho visto la segnalazione in testa all’articolo. Ma tornarci su per riprendere alcuni concetti mi pare prematuro perché ci sono tante cose che devo ancora chiarire prima a me stesso. Per la stessa ragione, anche sulle “limature” non mi e’ facile esprimermi. Diciamo che rispetto al tempo di quella email spedita a Filippo, ho rivisto l’idea di una eccessiva autonomizzazione dell’animalismo radicale rispetto agli altri movimenti. In questo senso ho rivalutato alcune (alcune 🙂 ) riflessioni di Filippo Schillaci, fermo restando che rimangono aperti due problemi piuttosto ampi: Uno (interno) relativo a una maturazione dell’animalismo antispecista che, a parte alcune esperienze di avanguardia, proprio non vuole crescere; il secondo (esterno) relativo agli altri movimenti che fanno veramente fatica a sintonizzarsi. In ogni caso dobbiamo sapere che si lavora su tempi lunghi, sempreche’ non vada tutto in malora. 😦