Società e liberazione. L’antispecismo nel mondo liquido
di Barbara Balsamo
La libertà senza precedenti che la nostra società offre ai suoi membri è corredata, come Leo Strauss ci ha ammonito molto tempo fa, da un’impotenza senza precedenti. Z. Bauman[1]
Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia non sa quel che trova. Mi piacerebbe iniziare questa riflessione riprendendo questo vecchio adagio della tradizione. Una delle affermazioni che ripeto spesso, e chi mi conosce lo sa, è che il sistema è conservatore e conservativo. Ma cos’è questo sistema di cui ormai in modo invadente ci parlano gli antispecisti politici? Il sistema non è un ente astratto, dato, pre-determinato, né qualcosa di avulso dal singolo individuo. Il sistema è lo spazio nel quale si attuano i rapporti e le relazioni tra soggetti sociali in un determinato arco temporale. Queste relazioni sono vincolate a strutture che regolano questi rapporti (economia, politica, cultura, saperi ecc.). Se un tempo la società si presumeva essere il luogo “privilegiato” nel quale gli individui si sentivano al sicuro – o almeno avrebbero dovuto/potuto farlo- tutelati da patti, leggi, sfruttamento delle risorse controllato e equilibrato e soprattutto finalizzato al benessere della comunità, dall’avvento del capitalismo in poi, questi presupposti sono crollati per lasciare spazio, o meglio “un vuoto” a quella che Bauman definisce la modernità liquida[2]. In questo sistema l’individuo porta su di sé e in sé tutte le responsabilità che prima erano condivise collettivamente. Fondamentalmente la nostra società ha perso la sua sostanza e compattezza dilatandosi fino alla scomparsa degli spazi pubblici, dell’alterità, della partecipazione e della solidarietà. Si assiste ad una deregolamentazione e privatizzazione dei compiti e doveri[3]. In questo non-luogo gli individui sono soggetti al processo di “individualizzazione” che li rende di fatto liberi di ma per nulla liberi da.
Per dirla in breve, il processo di “individualizzazione” consiste nel trasformare l’identità umana da “una cosa data” in un “compito” e nell’accollare ai singoli attori la responsabilità di assolvere tale compito nonché delle conseguenze (anche collaterali) delle loro azioni. […]. L’”individualizzazione” è un destino non una scelta.[4]
In una società siffatta è molto difficile individuare i valori di cui ormai spesso si parla, ma che di fatto, sono labili, sfumati, vaghi, e soprattutto hanno pochissima aderenza e corrispondenza nella realtà. Nella società in cui viviamo gli individui non sono affatto liberi di scegliere poiché la struttura stessa della società in cui ci muoviamo è la società del prodotto, della reificazione. Il benessere, la libertà, la felicità sono concetti di fatto irraggiungibili poiché identificati con i prodotti, con il successo, con l’accumulo. Sul singolo poggiano le responsabilità di possedere le capacità per raggiungere questi obiettivi. L’interesse comune si è trasformato nella soddisfazione i propri bisogni. Così gli stessi bisogni reali sono un miraggio e chiusi in un circolo vizioso, gli individui, sono stretti nella morsa della frustrazione.
L’onere che uomini e donne della società contemporanea devono sopportare sono direttamente proporzionali all’offerta e ai bisogni indotti. Emerge una sempre maggiore fragilità dell’individuo, sul quale grava la sua capacità di rendersi felice.[5]
In un quadro disarmante come questo il collettivismo, il settarismo e l’identitarismo occupano posizioni di primo piano. Sarebbe sufficiente guardarsi intorno per accorgersene[6]. Di fatto sorgono ogni minuto nuove barricate, limiti che per dare certezze confinano l’uomo sociale in ristrette cerchie rigorosamente gerarchiche con regole ben definite e caratteristiche per le quali o si è dentro o si è fuori, ovvero altro, da eliminare. A livello globale queste certezze sono confermate dall’abitudine, dalla reiterazione, dalla staticità. I movimenti di lotta per la liberazione non sono esenti, ahimé, da queste dinamiche. In un modo dove il rapporto tra tempo e spazio si è schiacciato nell’indeterminatezza dell’istante, le nostre anime vagano senza meta e senza riferimento. Allora si cerca di alimentare un ritorno in se stessi, di ritrovare quella solidarietà almeno dentro di sé, un luogo sicuro e protetto dove l’incessante, spasmodica ricerca di equilibrio potrà trovare, forse, pace. La mia convinzione invece è che tutte queste cose sopra elencate siano esclusivamente forme di chiusura estrema che perdono di vista il senso profondo, non solo dell’uomo da un punto di vista prettamente ontologico, ma anche strettamente sociale. È proprio lo stare insieme, seppur nelle differenze, che arricchisce e equilibra l’animo. Questo non vale solo per l’homo sapiens ma per grandissima parte delle altre specie animali. La peculiarità infatti che contraddistingue gli animali, tutti, è proprio quella della capacità di condivisione e empatia. Nella storia della civiltà l’uomo si è sempre più scisso dalla parte animale di sé per poter dominare il mondo circostante e sopperire così alle proprie incertezze e paure. Questo dominio nel tempo, grazie alla tecnica e al progresso, si è manifestato in modo sempre più oppressivo e violento fino a sostanziarsi in quello che è il sistema di cui tanto parliamo.
Ma gli animali?
La questione animale da sempre ha posto interrogativi esistenziali e sociali, sin dai primi filosofi che la nostra civiltà ha partorito. Ma come sappiamo, è solo negli ultimi decenni che ha assunto una rilevanza scientifica. I movimenti di liberazione animale nascono e si formano proprio a partire da questo momento in poi. Intanto facciamo una distinzione storica e di contenuto in merito al termine animalismo:
una parola che non ha corrispondenza in altre lingue dove si parla, più correttamente, di “attivisti per i diritti animali” (ARA), “liberazionisti” o “antispecisti”. Ognuna di queste “etichette” indica qualcosa di preciso, la parola animalismo no. Ecco perché piace, perché permette di sguazzare nel vago, è un concetto comodo che non dice niente e anzi, come dirò, ciò che dice è privo di senso e pericoloso.[7]
Perché animalismo non va bene?
La parola è anzitutto priva di senso perché nasce con tutta evidenza come una contrapposizione all’ “umanismo” e quindi riproduce l’opposizione rigida tra Uomo e Animali che è stata demolita in sede teorica da lungo tempo. Anzi, chi dice di lottare “per gli animali” dovrebbe avere tra i suoi obiettivi primari proprio quello di contribuire a smontare quell’opposizione: cioè smettere anzitutto di riprodurla dicendo di lottare “per gli animali” come se l’umano fosse una specie di virus extra-terrestre (ma in realtà molti animalisti è proprio questo che pensano e il loro linguaggio li tradisce).[8]
Esaminando queste affermazioni alla luce della descrizione di società che ho fatto sopra, mi pare del tutto evidente che continuare a parlare di animali come se si parlasse di qualcosa di svincolato dalla società, di avulso da essa, di esterno ad essa, non fa che dilatare quel divario, non solo tra l’individuo e se stesso, ma tra individui umani e individui non umani. In una società in cui l’altro è una minaccia, un pericolo, e lo è, non per ragioni morali, sentimentali ma piuttosto per motivi politici, sociali, relazionali, di tutela di privilegi – che in realtà non si hanno affatto ma che si bramano, si desiderano – la strategia di azione per la liberazione animale non può in alcun modo continuare ad alimentare, attraverso teorie e prassi, questo baratro. Mi si potrebbe obiettare che facendo questo discorso io stessa stia ponendo dei limiti, un veto, una barriera tra animalisti e antispecisti. In realtà no. Quello che sto facendo è far emergere una distinzione tra due modi di concepire il reale e di agire in esso. Se sono per l’apertura, non posso chiudermi per essere aperta! L’animalista agisce ponendosi sempre in contrasto noi/loro, dove loro sono il resto del mondo che “maltratta” gli animali. Già in questa concezione si percepisce una dinamica binaria di opposizione in cui la gerarchia tra specie interpretata come cattiveria arbitraria è un fatto, una violenza premeditata e reiterata. Se è vero che la società umana si è strutturata secondo logiche di oppressione e dominio non è affatto vero che lo abbia fatto per il gusto sadico di farlo. Questo dettaglio, se vogliamo analizzare il problema, non è irrilevante perché tradotto nella prassi vincolerà sempre l’animalista, anche il più pacifico, a porsi come esterno alla società, nella migliore delle ipotesi, l’emancipato che insegna agli altri cosa non sanno fare, e a lottare contro di essa. (Chi non lo farebbe? Se qui ed ora assisto a una violenza contro un essere indifeso agisco immediatamente…. Peccato che la liberazione animale non sia affatto questo). A mio avviso invece se di lotta vogliamo parlare questa lotta dovrebbe avvenire con la società, ovvero con tutti i suoi membri, facendosi promotrice di un cambiamento radicale e positivo del vivere insieme. Lo stesso pensiero anarchico, in particolare l’anarchismo sociale, non si pone, e non dovrebbe farlo, come in eterna guerriglia contro il nemico, ma porta avanti una battaglia, culturale e materiale, di pace e libertà. Non è affatto vero che ci vogliono la violenza, l’odio, gli scontri per far valere le proprie idee, semmai bisogna sapere cosa e come fare. La società è sorda e cieca ma non per scelta dei singoli che la costituiscono. Tuttavia non sono affatto dell’idea che bisogni porgere l’altra guancia, attenzione a non fraintendere le mie parole. Come dice Steve Best[9], non dobbiamo confondere pacifism con passivism, e nemmeno rimanere ingabbiati nelle nostre prassi senza aprirci al resto del mondo, senza, soprattutto, avere una conoscenza della società contemporanea.
Veniamo all’antispecismo
Il dibattito italiano odierno sulla liberazione animale in ambito antispecista oscilla sostanzialmente tra due piani teorici e di azione, quello etico (o metafisico per usare un termine mauriziano) e quello politico (critico e sociale). Queste due posizioni diventano antitetiche se si calano nella realtà, nella storia, qui ed ora, nella società. L’antispecismo etico o tradizionale è quello che ha guidato le prassi del movimento, in linea generale, fino ad oggi, e che prendeva le mosse da Animal Liberation di Singer. L’antispecismo debole di Leonardo Caffo, (che ha il pregio di essere l’unico al mondo ad averlo teorizzato) rappresenta una versione matura di questo antispecismo e incarna di fondo quell’idea per cui il vivere sociale è fondato su individui responsabili /irresponsabili che lo sono solo ed esclusivamente per merito o demerito loro. Certamente si è consapevoli che viviamo in una società di dominio ma questo appare essere per Caffo solo un dettaglio ornamentale, ininfluente sulle dinamiche di sfruttamento animale e di interazione tra gli individui (animali umani e non umani). Mentre aspettiamo che la società diventi più equa intanto liberiamo gli animali! (quali?) Per liberare gli animali qui ed ora basta che ogni individuo comprenda la sofferenza animale e dunque, essendo la sofferenza animale un’evidenza non più tollerabile, riscopra l’empatia. Se estendiamo a tutti i cittadini del mondo questo concetto gli animali saranno liberi! Come farlo? Attraverso la disobbedienza civile. Gli attivisti per la liberazione animale si opporranno in modo non violento alle pratiche di sfruttamento e mostreranno al mondo che è sbagliato e moralmente inaccettabile. Per fare questo bisogna essere tutti uniti, noi che amiamo gli animali, poco importa se poi ci uniamo a chiunque a qualunque condizione, gli animali vengono prima di tutto e subito. Ma questo discorso crolla se facciamo riferimento al concetto di soggetto, di “io” ovvero “il risultato acquisito delle ricerche antropologiche, linguistiche e sociologiche che l’io sia un prodotto sociale e culturale: non dunque una realtà naturale, bensì un vero e proprio artefatto umano” “l’io si costruisce in un contesto di relazioni molteplici”[10]. Da questo assunto deriva un elemento sostanziale, ovvero, che solo capendo la società e il suo funzionamento, oggi, saremo in grado di individuare progetti collettivi che, includendo i singoli, possano auspicare di modificare il sistema sociale e contestualmente, nel suo divenire, i singoli stessi. Non può avvenire il contrario, poiché i meccanismi regolatori della società sono per natura intrinseca collettivi. Di fatto anche se apparentemente questo antispecismo appare toccare le corde dell’anima, in realtà le sfiora soltanto, rimanendo una chimerica illusione, un avvicinamento e identificazione con quell’animalismo descritto sopra, con tutti i rischi e pericoli che ne derivano. Si pone solo apparentemente l’obiettivo di liberare gli animali ma di fatto li rende ancora più lontani – quel loro già è incisivo nel creare una distanza – da chiunque non faccia parte dei consapevoli. Lungi da me dal voler condannare l’ultimo libro di Caffo, la mia è una contestazione basata, non sulla mia opinione, ma sulla lettura delle sue prospettive pratiche.
Il mostro[11]
Intorno all’antispecismo politico, o se vogliamo critico, diversi autori hanno teorizzato e sviluppato analisi di rilevante interesse (in Italia in particolare M. Maurizi, A. Volpe, F. Schillaci, M. Filippi, A. Sottofattori, F. Trasatti) Seppur con diversi approcci, questo antispecismo si cala nel reale, analizza la società nelle sue caratteristiche storiche, spaziali e temporali nonché intrinseche, cercando di indagare, non solo le cause di quello che chiamiamo specismo, ma anche di vedere come lo stesso si moduli e formi nel tempo e nella storia. Oggi, ad esempio, lo specismo non è affatto paragonabile a quello che poteva esistere secoli fa, ma nemmeno 50 anni fa. Questo è a mio avviso il nocciolo della questione. Se torniamo alla mia descrizione di società, l’antispecismo politico ci dice che è il rapporto che l’uomo ha instaurato nella e con la società ad essersi strutturato secondo meccanismi di violenza e potere ed è questo rapporto che deve la sua forma e il suo dirompente dominio all’altro rapporto che a sua volta la società ha costruito e continua a costruire oggi con e nella natura – ponendola infatti al di là di sé, spingendola fuori da quel terzo spazio[12] tra me e l’altro in un vuoto spettrale che è identificato con l’animale la riduzione dell’altro è sempre riduzione dell’Altro animale[13]. Il cardine della lotta di liberazione animale è situato in questi rapporti. Solo se scardiniamo questi duplici meccanismi saremo in grado di liberare gli animali dal doppio giogo, simbolico e materiale, e con loro noi stessi. Noi siamo l’Altro. Nella prassi questo determina intanto un inserimento delle istanze antispeciste a livello globale nella società e soprattutto nei movimenti che si oppongono ai meccanismi di dominio, attraverso ponti, alleanze, sostegno, condivisione. In secondo luogo lavorando in tutti i campi sociali (per campi faccio esplicitamente riferimento alla teoria dei campi di P. Bourdieu[14]) per renderci portatori di innovazione e cambiamento radicale delle relazioni e dei rapporti tra individui sociali (cultura, istituzioni, politica, economia ecc..). Le scienze umane oggi sono in grado di dare un enorme contributo all’attivismo per la liberazione animale – che io sempre intendo come totale – poiché ci danno strumenti di comprensione del reale e sfatano moltissimi luoghi comuni che noi stessi usiamo nelle nostre lotte. Ad esempio quello per cui il soggetto-consumatore sia libero mentre le scelte di consumo degli individui non sono qualcosa di puramente individuale – mostrando così l’illusione della soggettività del gusto – bensì il frutto di strategie collettive, consce o inconsce, direttamente collegate alla posizione sociale dell’individuo. In altri termini è la stratificazione sociale che indirizza a una determinata scelta di consumo e non viceversa[15], o ancora come la violenza simbolica non sia frutto di trasmissione generazionale e culturale di norme, valori e comportamenti bensì all’incorporazione automatica e inconscia di strutture mentali generate nella società di appartenenza, che fa apparire come naturale il dominare e l’essere dominati[16]. Capite come, data questa analisi, sia del tutto, o quasi, inutile fare proselitismo e parlare ai singoli, uno ad uno, del dolore degli animali, o come diventi improvvisamente ridicolo pensare di concepire il macellaio o il vivisettore come assassini e violenti. Questo non significa affatto difendere il macellaio e il vivisettore, né tantomeno snobbare il banchetto informativo o la serata vegan. Significa che ci dobbiamo domandare piuttosto perché la società produce il vivisettore, e il macellaio, secondo quali logiche strutturali e perché nonostante il cortocircuito etico esistano ancora. È nella contraddizione insita nella società e nei rapporti tra individui che dobbiamo cercare le risposte. Una volta individuate, andare in direzione ostinata e contraria come direbbe De André, in modo però efficace, collettivo, pubblico, con proposte dirompenti e alternative, che faranno paura perché metteranno in crisi il sistema conservativo e conservatore ma che forse, se ben articolate, troveranno l’appoggio della comunità. Dovremmo iniziare a volgere il nostro sguardo altrove se desideriamo davvero che gli occhi del maiale vengano finalmente osservati anche dagli altri. Quell’altrove che cita Maurizi nel suo meraviglioso Asinus Novus occorre guardare altrove per cercare una via di fuga che non sia immaginaria. Occorre guardare dove l’umano, tutto l’umano, getta la propria ombra di indifferenza e di morte. Solo lo sguardo dell’animale può darci l’dea che esiste un al di là anche per noi che non vogliamo guardare oltre noi stessi[17].
Già Marx scrisse: la società non è fatta di individui, essa esprime l’insieme di legami e relazioni entro cui si trovano inseriti gli individui, e così Durkheim, la società non è la semplice somma degli individui. Tuttavia l’attivismo continua a percorrere lo stesso solco, come mai? La realtà è dialettica e in continuo divenire e come la lingua, che secondo Saussure muta a seconda dell’uso che ne fa la comunità, così la società e tutte le sue strutture si modulano in continuazione. Sta a noi saper cogliere gli aspetti strutturali di questo divenire, acciuffarli e combatterli. Bourdieu diceva che la storia è lotta, noi faremo la storia? per farlo abbiamo bisogno che si concretizzi una nuova idea di collettività, di collaborazione e di pace, che si possa descrivere agli altri quel mondo liberato che agogniamo in cui il rapporto con la natura dentro e fuori di sé, torni a regolare la nostra quotidianità e il
nostro saper essere felici nel mondo, anzi, attraverso gli animali, renderlo reale. Lo scorso anno scrissi che dobbiamo rivendicare il nostro messaggio di pace e solidarietà tra tutti gli esseri viventi riappropriandoci degli spazi pubblici, era proprio questo che intendevo. Abbandoniamo lo spontaneismo, l’identitarismo e il settarismo, sporchiamoci le mani in questa società che non ci piace e che tutto distrugge, facciamoci portavoce di nuovi modelli di vita solidale libertaria e egualitaria. Pochi giorni fa, è stato pubblicato un articolo di Andrea Romeo[18] che a partire dalle teorie di E. Morin auspica la nascita di un antispecismo olistico che unisca le differenti teorie, qui brevemente descritte, in una. Articolo decisamente interessante e originale da prendere in considerazione. Tuttavia, come si evince dalla riflessione che ho fatto in questo scritto, l’antispecismo politico, di fatto, già è olistico e già tenta di mettere insieme non sincronicamente, ma dialetticamente, tutti i saperi e gli universi umani ovvero sociali. Perfettibile, migliorabile, perché l’antispecismo non è di nessuno, è di tutti, a me pare, che l’antispecismo politico, o se vogliamo critico, incarni oggi le prospettive più realistiche e realizzabili per una effettiva liberazione animale. Vorrei chiudere invece il mio discorso con un monito verso quegli antispecisti talmente antispecisti e identitari da voler quasi cambiare etichetta e chiamarsi in un altro modo per quanto questi antispecisti, cioè tutti noi in generale, deboli, politici, olisitici, siano corrotti dal mondo reale, visto solo come un crogiolo di fascimi e fascisti. La lotta di liberazione è una cosa seria oltre che ambiziosa e faticosa. Un po’ di umiltà e rispetto non farebbero male, al movimento.
Tornando all’adagio iniziale propongo di lasciare la strada vecchia per quella nuova, armati di conoscenze e strumenti di azione, poiché la speranza è l’ultima a morire. Umuntu ngumuntu ngabantu – io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti. Ubuntu.
[1] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2006
[2] ibidem
[3] ibidem
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] Per uno studio approfondito sull’identità si consiglia la lettura di F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza 2010; Contro l’identità, Laterza, 2007.
[7] Marco Maurizi La guerra civile animalista articolo comparso sul blogo Asinus Novus http://asinusnovus.wordpress.com/2013/07/25/la-guerra-civile-animalista/
[8] ibidem
[9] Conferenze di Steve Best a Roma 2012. Video disponibili su veggiechannel
[10] F. Remotti, L’ossessione identitaria, cit.
[11] Mostro: mones-trum, prodigio cosa straordinaria; da monere, avvertire.
[12] Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, 1994. Il rapporto tra cultura e letteratura si forma attraverso la nascita di “luoghi” terzi, interstizi che prendono vita proprio dall’incontro con l’Altro. Tra i due agenti ne nasce un terzo, mescolanza e interconnessione dei due e che non più né l’uno né l’altro è pura creazione. Identità meticce, culture marginali che irrompono nel “noi” del dominante. In questo spazio dovremmo trovare la forza creativa e dirompente che dall’incontro con l’Altro porta all’irruzione, alla frattura. L’altro è novità, arricchimento, creatività, superamento della staticità.
[13] M. Filippi, Natura Infranta, Ortica, 2013
[14] P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, Armando ed., 2010
[15] ibidem
[16] ibidem
[17] M. Maurizi, Asinus Novus. Lettere dal carcere dell’umanità, Ortica, 2012
[18] A. Romeo, Antispecismi ad usum proprium – Verso una visione olistica, articolo pubblicato su Asinus Novus: http://asinusnovus.wordpress.com/2013/07/27/antispecismi-ad-usum-proprium-verso-una-visione-olistica/
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Una riflessione che rappresenta un’utile aggiunta al dibattito attualmente in corso sull’antispecismo politico.
grazie Alessandro, spero fortemente che questo articolo dia il via a un serio confronto tra antispecisti, poiché a mio umile avviso, è questo che manca concretamente. è davvero ora di iniziare a percorrere una nuova strada nel confronto.
Purtroppo il dibattito pare terminato. Almeno quello tra antispecismo debole ed antispecismo politico (o critico, come ribattezato sapientemente da Barbara).
Ringrazio Barbara per il suo articolo che mostra con chiarezza quale siano le attuali posizioni sul fronte della teoria antispecista in Italia. Tuttavia non sono speranzoso in una convergenza, ne tantomeno in un parallelismo della pratica attivista che deriverà dalle posizioni di pensiero descritte.
Il Sistema, ovvero l’attuale conformazione della società, traccia le linee guida degli individui che continuano a muoversi entro i confini delle idee istituzionalizzate. Così, non c’e’ da meravigliarsi se quello che era un dibattito costruttivo si è trasformato in schieramento, partitismo, tifoseria o all’occorrenza grouperiesmo.
Io credo sia ormai il momento di cominciare (o ricominciare) a teorizzare l’azione.
Da un lato, quello dell’antispecismo debole o animalismo forte che dir si voglia, c’e’ ben poco da inventarsi. Si farà quello che si è sempre fatto con i risultati che si sono visti fin’ora.
Dall’altro ci si comincia a muovere politicamente, incontrandosi e discutendo con altre componenti attive della lotta “per una società migliore”.
In mezzo, le persone libere (?) di decidere con chi partecipare.
grazie Roberto per il tuo intervento. Sono consapevole anche io che questa spaccatura, proprio per le ragioni che ho descritto nell’articolo, e non per questioni di personalisimo o egocentrismo, non potrà sanarsi. Sono convinta che è il tempo davvero di una strada nuova, perfettibile e migliorabile, come ho scritto, ma certamente non più fondata sulle terie da cui nasce l’antispecismo debole. Il mio grande rammarico è che come il sistema è conservatore e conservativo, così lo sono anche i movimenti identitari all’interno della società, che per varie e complesse ragioni, non lasciano mai, o quasi mai, la strada vecchia per la nuova. e come dici tu questo si traduce in tifoserie, di scarso interesse culturale, sociale e etico. Spero che ci siano movimenti interessati a quello che scrivo e che come associazione porto avanti. sono davvero affranta ma la speranza è davvero l’ultima a morire, certamente dopo gli animali, tutti.